scritture

Giorgio Terrone è stato collaboratore di "Nuova Corrente", la longeva rivista genovese fondata nel 1954 da Mario Boselli e Giovanni Sechi (oggi diretta da Stefano Verdino) che ha affiancato ma in totale indipendenza, le principali correnti culturali che si sono affacciate in Italia negli ultimi sessant'anni. Terrone ha pubblicato poesie e romanzi (si ricordano Storia di Mirandola, Geiger 1977, e Andrea o delle ricchezze disperse, Nuove Scritture 1985).

Giorgio Terrone

4 passaggi dello sguardo

 

1 - La locanda di palazzo Cicala

Era passato su di un lungo cavalcavia rivestito di pannelli color verde-scuro mentre sotto scorreva il traffico di metà mattina, s’era mosso per stanze e corridoi di un edificio pubblico. Era sceso infine per strada tra i banchi di un mercatino che ripeteva le sue merci all’infinito: stoffe, bigiotterie, dolciumi, cassette musicali, video. La sera era entrato in un locale tra tavoli di formica e giocatori di carte immersi nei loro formulari: certamente una clientela abituale, com’era abituale la donna impellicciata in coppia con l’uomo avvolto in una sciarpa multicolore che s’era alzato a sostituire la sedia e poi rivolto a un punto imprecisato della sala aveva chiesto conferma di un “colpo” da compiere la sera stessa con un tono di voce che aveva subito smontato il paradosso delle sue parole. E il suo muoversi aveva interrotto per alcuni istanti il fare degli altri, presi nel gioco, protetti dall’ambiente che sembrava sorvegliare ogni loro gesto, di fragili figure accomodate nello scorrere del tempo, prese nello stillicidio dei minuti. Una difesa desiderata in quel locale dal finto legno delle pareti da cui pendevano fotografie di guerra, di uomini armati immobili nella posa, e dietro strade e palazzi in posa nella loro rovina. La solida barriera dei tavoli, delle sedie (un arredo già menzionato, di un materiale dozzinale), delle carte, delle regole, delle parole smorzate, del piccolo calice ormai vuoto davanti a lui, del compenso ritirato da mani-maniche rimboccate a pulire il bancone. E la porta con l’insegna già perse al suo sguardo, con la commistione di oggetti e presenze non più osservabili, ora là sciolti nella poca luce del quartiere che rivela un’unica figura appoggiata nell’angolo, racchiusa nel suo personale sintagma: donna di strada.

È giunto ora in una piazzetta che dà respiro a un intrico di vicoli, in parte delimitata dalla curva di un’abside e dalla parete di un edificio, con su murata la scritta

QUESTE ERANO LE CASE DI

LANFRANCO CICALA

CONSOLE LEGISTA E POETA

C’è una locanda al pianterreno: “La Locanda di Palazzo Cicala” un locale di pochi tavoli coi coperti sull’incerata, coi movimenti lenti della cena, di un guardare-non guardare. Si è seduto in un angolo. Schiene piegate gli coprono altri avventori. Osserva quel composto remare: una ripetizione di gesti che gonfia le presenze, che offre un senso d’angoscia, un che di senza sbocchi, ma anche il suo senso opposto: un tranquillo ritrovarsi (sulla soglia avevano colto la sua incertezza, era stato invitato a entrare: “Qui è come una volta” gli avevano detto indicando uno sgabello di legno che spuntava da sotto un tavolo). Ha scorto una vecchia radio sopra una mensola. È forse lì a mostrare il-tutto-che-non-è-quel-la-radio, lì a far sentire la sua assenza. È forse accesa su musi-che e voci che sembrano mostrare il-tutto-che-non-è-quelle-musiche-e-voci, col nome ricordato di un cantante: Ariodante Dalla tornato dall’abisso degli anni. E gli si apre la straniata realtà di quel posto, con gli avventori, capelli radi, grigi, disposti in una condizione assordante (come un richiamo di cicala): già pronti a non esserci più.

 

2 - Un giro in Alaska

Avanti motonave Galaxy! Avanti motonave Mercury! Eccole muoversi tra i ghiacci con a bordo il loro esclusivo programma di vacanze termali: TV, radio, telefono, minibar, cassaforte, asciugacapelli, aria condizionata. uelle navi sono delle immagini in distanza su un pieghevole. Sono dirette ad Anchorage in un blu marino punteggiato di ghiacci vaganti, meduse di quell’estremo settentrione. E nel riflesso dell’acqua si rovesciano le immagini degli oblò, delle scialuppe sospese sui ponti e della grande sagoma delle ciminiere attraversata da una x bianca, con allacciati lunghi festoni di bandierine pendenti come panni stesi.

È sera e l’uomo porta ancora il suo vestito da viaggio, col berretto dallo sbuffo elegante e la casacca da cui emerge una collottola soda da figura forte, navigata. Un carattere riflesso negli occhi (in quello più in luce) e nella piega pronunciata alla radice del naso. Davvero ogni clima sembra essere passato sul suo volto (o forse recita?). Non ha più la barba del suo celebre antenato, una barba brizzolata, riprodotta da un famoso artista del passato, un pelo provato a tutte le intemperie, nel ritratto appeso nella stanza di sopra. Sta armeggiando attorno alla serratura dell’ingresso seguito dallo sguardo attento del domestico alle sue spalle col resto del bagaglio. Lui si è ora voltato per farlo entrare e chiudere la porta dietro di sé, al riparo di quelle mura domestiche. Ma il volto gli si è come ritirato incontrando lo sguardo di un passante. Ed è mai possibile?, quel passante ha attraversato per un attimo lo specchio della porta, ma ha ugualmente penetrato i suoi gesti, la sua figura. Così lui ha ritirato il suo volto appiattendolo in un’espressione vacua, senza più carattere, mentre è nuovamente rivolto all’accompagnatore (e dove sono le sue labbra sottili, ben chiuse, e quegli occhi?)

Il muro esterno della casa è nuovamente sgombro, buio, la luce come risucchiata oltre la porta. Il passante ha intanto svoltato l’angolo dell’antico edificio puntando verso un imbocco della me-tropolitana all’altro capo della strada. Ma non è sceso. È sceso invece per una scala a spirale non lontana, fuori dal percorso abituale. È un angolo non vecchio, dove tutto sembra essersi fuso: cemento. Bitume, il ferro stilizzato delle ringhiere, degli infissi di finestrini affacciati sul vuoto, modeste idee architettoniche. Nessuna scritta o disegno là sotto, ogni volontà grafica sembra essersi spenta nel caotico dominio di oggetti usati e abbandonati sui gradini, sui ballatoi, negli angoli, buttati lì col loro nome e la sfilza di omonimi. Una ninfa, uno strumento a fiato, un arnese da cucina, superati da lui con passo saltellante, come in un improvvisato gioco della campana. È nuovamente in strada, tra torpori e occhiate finto-distratte, finto-attente. E il suo gioco sta ora nel ridipingere le figure incontrate. Ecco la giovane cariatide staccarsi dal muro per sfilare sulla pagina patinata di una rivista di moda (e certo è una modella: Angie Ruiz). Si è piegata a ricevere il saluto di una bambina in scarpe di vernice e gonna di velluto che s’è mossa positiva verso di lei. E con lui lì a osservare (piccolo-grande sguardo), a comporre le sue varie strategie verso il reale.

 

3 - Serotonina

Seròtino. Aveva cercato quel nome su un dizionario volendo un senso più certo per le sue immagini serali: i gridi delle rondini (o rondoni) intorno alla veranda e quelle luci che volitive bucavano l’aria. Ma aveva trovato prima quest’altro nome, poco discosto: Serotonina, col suo tema distante. Un vocabolo messo lì da una semplice disposizione alfabetica, con la sua ostica formula a corredo: “5-idrossitriptonnina”.

Serotonina”, questo sostantivo femminile che definisce un qualcosa dentro di noi, una sostanza benigna chiamata a soccorrere la muscolatura liscia dei bronchi, dello stomaco, dell’utero. Capace però di produrre danni imprevisti: cianosi, asma, diarrea, e anco-ra di distruggere il nostro sistema vascolare, di procurarci neoplasie e gravi alterazioni psichiche.

Ecco che lui casualmente ha risvegliato un demone, e lo ha fatto cedendo agli effetti (agli affetti) di quella breve parte del giorno prima del buio, col minuscolo gesto di cercare un nome sul dizionario (ed è davvero ridicolo correggere così un’emozione, prestando un nome al proprio indefinito voler restare). Così subito dopo ecco a punirlo quel demone quasi insensibile emerso dal-la riga sottostante: Serotonina, un’esattezza scientifica pronta a beffarsi di un sentire tanto evanescente, impreciso. Ma allora da dove nasce il senso?” si chiede lui, da una formula chimica fissa-ta alla parete “liscia” di un organo, o da poche particelle alfa-betiche andate a disporsi su un dizionario accanto ad altri signi-ficati: a delle immagini di alterazioni psichiche, di depressioni severe, di perdita del mondo (una perdita che gli ha negato quella parte del giorno con le sue suggestioni di per sé già svanite col buio). E ora lui sotto quella veranda, spento ormai lo scomposto (scomposto?) vocalizzo di uccelli, quell’ordinato unirsi di suoni e immagini in un vitalismo senza parole (una volatilità di volatili, diremmo). È solo, inutile, nell’inutilità delle cose, aggrappato a dei riferimenti poveri, fatti di parole confuse, complicate, aggrovigliate: Seròtino, Serotonina, Serotinina. A un referente imprevisto: quello strano acido che raschia le pareti “lisce” della testa, che si muove all’interno del cranio penetrando parole, pensieri. Una chimica dei significati, una semantica delle cellule cerebrali casuali nella loro logica: una logica rigorosa per sé soltanto (e intanto che resta di lui?). Senza più fiato, senza più appigli, la sua vita (la sua vita!) che è solo quel 5 (cinque? Sì, cinque con qualcosa di acqua e di ossigeno: idro dunque acqua, ossido dunque ossigeno). Ma ecco, lui è ancora un nome, il nome con cui viene chiamato (un Marco, un Filippo) con l’altro nome che segue che lo lega ad altri. Ma altri di quel nome ce n’è ancora? No, lui è vissuto di più, sembra. E ora è in quella poca luce prima del buio, lì senza più lo stridio degli uccelli (rondini o ron-doni, residui segni della stagione).

È seduto, le mani conserte che poi appoggia sul tavolo della veranda, lì fermo nella semplicità del non fare, del non fatto. Lì ad attendere che quell’acido gli si plachi dentro, liberandolo ancora. Seròtina-serotonina che lo fa stare così, in un serotonico pensare (di chi?, rimosso poi da chi?).

 

4 - Scatola da scarpe

Avevano costruito quel campo nello stile floreale del tempo. Accoglieva bambini. Un campo poi smantellato, con le lastre e il resto. C’era adesso l’erba alta dei posti in abbandono. Era un campo vuoto, trascurato, o forse meglio, abbandonato alle cure del tempo che con un ossimoro perfetto lo aveva meticolosamente riem-pito di un senso di vuoto.

Ma non era un vuoto completo, se n’era accorto attraversandolo col suo vaso colmo d’acqua NON POTABILE in mano. Affiorava dall’erba qualcosa di chiaro, di minuto (certo qualcosa non molto più grande di una scatola da scarpe, quell’involucro dal coperchio aderente). E aveva visto più da vicino quanto restava di quell’immagine, col nome e la data. Una scatola da scarpe rimasta lì nel suo strano abbandono, e forse lì solo per il suo guardare.

Lui, compiuti i gesti rituali, era passato ancora per quel campo, aveva rivisto l’immagine sbiadita tra il verde dell’erba, con sullo sfondo le siepi del rampicante, gli alberi di cipresso (dritti, impalati come tanti punti esclamativi!). E tutto il resto in parata: le gallerie, i marmi, le iscrizioni, i ritratti (quei volti affabili, ammiccanti, quasi grotteschi).

A casa aveva poi richiamato quelle impressioni, le aveva disposte in un appropriato spazio della mente. Aveva ricucito quei significati componendo il racconto di quella cosa seminascosta, di quell’immagine incerta eppure forte, prepotente, pronta a catturare parole (parole confuse, presuntuose). E aveva sistemato in quello spazio altre figure: quel campo smantellato, riempito di vuoto, quegli affetti rimasti là a bivaccare (Bivaccare, v.intr. Sistemarsi provvisoriamente, alla meglio in un luogo), quegli affetti lasciati là ad attendere.

E avrebbe esaminato ancora i suoi gesti rituali (premesse casuali di un fatto imprevisto), e tutto il resto di malinconia, nevrosi, scrittura, stile (il suo stile, aveva sorriso ripensando a quella parola: “stile”). Tutto da collocare davanti (e dentro) a lui, con lui a pensare: questo va prima, quest’altro è da scartare, non accumulare, aggirare l’ostacolo, tacere, cancellare tutto (no è eccessivo), ecco, lasciare dire ai nomi, lasciare scorrere le im-magini (l’erba, la lastra e tutto il resto). E così fino a notte, fino al sonno. Lasciare dire a quanto è fuori di lui: alla scrittura che improvvisamente si è fatta!

1997-2015

“Fogli di Via”, marzo-luglio 2016