Francesco Rognoni

Thomas e Emma Hardy

Quando un amico inglese aveva chiesto a Robert Lowell quale fosse il suo poeta favorito del novecento, dando quasi per scontato che si trattasse di T. S. Eliot, si era invece sentito rispondere: Thomas Hardy e Ezra Pound – for the heartache, per lo struggimento. Che il campione di tutti i moderni (“Make it new” era il motto di Pound) e l’eminente romanziere vittoriano venissero affiancati, e non per ragioni formali, ma per la materia morale o, meglio, il residuo emozionale – la dolente risonanza umana – della loro poesia, è meno sorprendente di quanto possa sembrare. “Questa è chiarezza. Ecco cosa si raccoglie dopo aver scritto venti romanzi”, aveva esclamato Pound, davanti al gran tomo dei Collected Poems di Hardy: anche se non era vero che le 947 poesie che vi erano raccolte fossero state composte tutte dopo la sfilza di romanzi più o meno scandalosi – Via dalla pazza folla (1874), Tess dei d’Urberville (1891), Giuda l’oscuro (1895) son solo i più noti – che avevano dato fama e non trascurabile ricchezza al loro autore nel secolo precedente.

Thomas Hardy (1840-1928), in realtà, aveva sempre scritto poesia e delle otto raccolte pubblicate tra il 1898 e l’anno della sua morte non ce n’è una che non contenga versi che risalgono anche a trenta o quarant’anni prima, spesso formalmente e tematicamente indistinguibili dai versi più recenti. Già “moderna” senza l’ansia d’apparirlo, diretta e finanche brusca, colloquiale, la sua poesia intesse variazioni, è sfaccettata, un caleidoscopio di “unadjusted impressions” (per usare una sua frase); ma cambia poco, non evolve o quasi. Benché, naturalmente, trovi via via nuovi argomenti, nuove occasioni storiche o biografiche in cui cristallizzarsi. Come in quella straordinaria lirica sull’affondamento del Titanic, La convergenza dei due, in cui la sua teoria schopenhaueriana di una “volontà immanente”, amorale e affatto indifferente alle tragedie umane, si esprime con evidenza icastica ben più efficacemente che nell’immenso dramma epico I dinasti (1903-08), dove era stata elaborata. O nelle tre scarne strofe di Al tempo dello “Sfacelo delle Nazioni” (le ha tradotte Attilio Bertolucci, forse il poeta italiano più in sintonia con Hardy), concepite – secondo quanto spiegò lo stesso autore – nel 1870, col pensiero rivolto alla guerra franco-prussiana, ma scritte solo nel 1915, durante un’altra guerra più crudele.

O nelle cento e passa liriche dedicate alla prima moglie, Emma Lavina Gifford, “una della vette della poesia moderna” (come affermò Montale, che forse le tenne presenti per le poesie di Xenia, dedicate alla sua “mosca”). Dopo un inizio dei più romantici, sullo sfondo le scogliere della Cornovaglia battute dai marosi, il grande amore di Thomas e Emma non aveva retto alla routine coniugale, rattristata dalla mancanza di figli: la vitalità e l’appariscenza di lei, fascinose durante il fidanzamento, divennero presto motivo d’imbarazzo, e così certe sue pretese letterarie, le obiezioni d’ordine morale a Tess e a Giuda (di cui cercò di impedir l’uscita), e infine l’evangelismo abbracciato così fanaticamente – proprio mentre il marito, influenzato dalle nuove idee scientifico-filosofiche di Darwin e seguaci, perdeva la fede – da sconfinare quasi nella follia. Eppure, quando Emma improvvisamente morì, nel novembre del ’12 – e benché per casa circolasse già da tempo, in qualità di segretaria, la giovane donna con cui presto lo scrittore si sarebbe risposato –, travolto da un’onda di rimpianto Hardy scrisse per lei, quasi di getto, decine di poesie, rivisitando luoghi e momenti del loro amore e della loro straniamento, con delicata ossessività, commozione e disincanto, e accenti talvolta sardonici: ché “da distante riguardare il tutto, / ma vederlo solo adesso / è soltanto derisione, / non è quiete per il corpo, né per l’anima salvazione”.

Di questo arruffato canzoniere, disperso in vari libri, Gilberto Sacerdoti traduce e annota puntualmente una cinquantina di testi (Poesie per Emma, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 199, euro 14). Studioso di Shakespeare, Sacerdoti è anche poeta di grande perizia formale (Il fuoco, la paglia, 1988, Vendo vento, 2001), e sa benissimo che, nel caso di Hardy, se la resa letterale è mortificante, la ricreazione di forme strofiche, ritmi e rime (se poi vengono per conto loro, tanto meglio!) è altrettanto sconsigliabile: non solo perché risulterebbe quasi sempre stucchevole, ma perché, inevitabilmente, tenderebbe a correggere quella “sapiente irregolarità”, derivata dai “principi artistici gotici”, che lo stesso Hardy (che da giovane aveva lavorato come architetto e restauratore di chiese) rivendicava per la sua poesia: “quella sua concretezza di pietra lavorata, magari sino a farsi fragile fiore, piuma d’uccello, nebbia” (Bertolucci).

Così Emma – “la donna che cavalca coi capelli sciolti al vento / quella donna tanto amata che lealmente ha amato me” – campeggia molto concretamente in questi versi, eppure viene continuamente scorporata; e più vivida è la sua presenza nel ricordo, o nel sogno, più fulmineo l’agguato del vuoto: “Danziamo fra gli applausi tutto intorno / una gran sala, lievi come piume; / e all’improvviso cala giù un sipario / che ci divide ed io non danzo più, / ma vago in mezzo a tumuli in un prato / per ritrovarla. Dove? Oh, se lo so!”. Anche i versi che commemorano l’innamoramento contengono sempre qualcosa di spettrale; e alcune poesie sono affidate alla voce di Emma nella tomba (ad es. lo straziante, “metafisico” Rimprovero). Talvolta si tratta di vere e proprie storie di fantasmi, parabole agghiaccianti come L’orologio degli anni, in cui uno Spirito beffardo concede al poeta che il corso del tempo sia invertito, e così Emma, dal letto di morte, ringiovanisce “fin quando / fu come l’incontrai la prima volta”; poi, senza fermarsi lì, come vorrebbe il marito, torna bambina e “ancora più piccina / finché scomparve in nulla, / come stoffa senza ordito. / Fu come se non fosse mai esistita. / ‘Sarebbe meglio’ piansi ‘che fosse ancora morta come prima! / Il suo ricordo in me vivrebbe ancora, / ma adesso non può più’. / Ma gelido [lo Spirito] rispose: ‘Di infrangere il decreto, hai scelto tu’”.

Della voce di Spiriti, variamente gelidi o compassionevoli, risuona anche l’immane dramma epico I dinasti, di cui, in chiusura, si segnala la meritevole traduzione in prosa di Simone Saglia (Ilmiolibro – Gruppo editoriale L’Espresso, 2008, pp. 421, euro 15), già autore di apprezzate versioni del Don Giovanni di Byron e dell’Anello e il libro di Robert Browning. Ovviamente irrappresentabile, gremita di personaggi storici e di gente comune, l’opera percorre l’epopea napoleonica in 131 scene (19 atti divisi in 3 parti), da Trafalgar a Waterloo. Che il possente impianto filosofico (di matrice – s’è detto, semplificando molto – schopenhaueriana) conservi una sua validità conoscitiva o no, l’artificio di affidarne l’esposizione ad Angeli, Spiriti e Cori celesti (l’influenza del Prometeo slegato di Shelley è evidente) consente vertiginose viste aeree e subitanei mutamenti di prospettiva, con effetti che il settecento avrebbe detto sublimi e ora spesso chiamiamo cinematografici. Come sublime, e degno di un Abel Gance d’oltremanica, è l’austero bilancio sulla relativa grandezza di Napoleone, affidato allo Spirito degli Anni: “Gli uomini come te che appaiono sulle scene del mondo per dare un significato ad un’epoca, per farla felice, confonderla, terrificarla, sono in realtà, nella mappa elementare dei secoli, simili agli insetti più insignificanti che si posano sulle foglie più oscure: esseri posti nella successione meccanica dello sviluppo della Terra, attizzatoi di bronzo che risvegliano il fuoco perché tale è il loro ruolo”.