Nicola Caricola
Bertrand Tavernier (1941-2021)
Film insoliti sulla Grande Guerra e sulla sua memoria? La vita e niente altro e Capitan Conan.
Un film insolito sulla Francia del 1942 e sul suo cinema? Laissez-passer.
Un documentario eccezionale? Voyage à travers
le cinéma français. Un
libro di storia insolita di Hollywood? Amis
américains (Actes
Sud). Tutte opere di Bertrand Tavernier, morto a un mese dal compiere
ottant’anni.
Romanziere,
regista di Notti
e nebbie e La
meglio gioventù, di Sanguepazzo (il dramma di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti) e Romanzo di una strage, Marco Tullio Giordan mi confida con ragione che chi
ama sia il cinema, sia la storia, oggi deve abbrunare la bandiera.
Cinefilo, critico, addetto stampa, sceneggiatore,
regista: Tavernier non ha smesso di essere tutte queste cose insieme, ha
fondato il cineclub parigino Nickelodeon; ha scritto su riviste antagoniste,
come Positif (il suo cuore era lì) e i Cahiers du cinéma; è stato addetto
stampa di un grande regista amato dal pubblico, José Giovanni, senza
dimenticare il suo debito di gratitudine per quell’inizio di carriera, tanto da
imporre al produttore Jérôme Seydoux
l’ultimo film di Giovanni, Mon Père, se Seydoux voleva averne uno anche di Tavernier. Non solo: del
comprimario di lusso che era stato per vent’anni anche per Alfred Hitchcock, ha
reso Philippe Noiret un protagonista, che non ha più
smesso di esserlo fino alla fine.
Ma
Tavernier non ha agito solo sulle carriere e cioè sul presente. Con un film, Laissez-passer, ha
restituito l’onore del cinema a coloro che, durante l’occupazione 1940-44, a
Parigi, avevano lavorato per la casa di produzione tedesca in Francia, la
Continental. Dopo aver avuto una gioventù a sinistra, ha avuto una maturità
senza steccati. Così si spiega se tre dei più bei film sulla Francia nelle
guerre nel ‘900 sono i suoi.
Tavernier
ha partecipato a tanti festival. Ha avuto l’Orso d’argento a Berlino per L’orologiaio
di Saint-Paul (1974),
tratto dal romanzo L’orologiaio di Everton di Georges Simenon; poi l’Orso
d’oro per L’esca (1995); infine il Leone d’oro alla carriera
dalla Mostra di Venezia (2015). In quei momenti è stato felice, l’ho visto di
persona o dalle foto. Ma entusiasta era soprattutto quando parlava – e quanto
parlava… – dei film altrui, una volta a Firenze, dove arrivava per il festival
“France-Cinéma”, un’altra volta a Bologna. dove
arrivava per “Il cinema ritrovato”, ultimamente in particolare a Lione (la sua Lione) quando, con Thierry
Frémaux, ideava prima l’Institut
Lumière, quindi da lì nasceva il Grand-Lyon Film
Festival sul “modello Bologna”, di Gianluca Farinelli, per rilanciare i
classici appena restaurati.
È
affascinante in particolare riascoltare on
line Tavernier
presentare e rivalutare il cinema inglese degli anni ‘40-’50, prodotto dalla Ealing. O le opere, a lungo sottovalutato dalla Nouvelle Vague, di grandi autori francesi come Claude Autant-Lara. E’ stata per me
un’emozione anche maggiore, però, far con lui la cosa più normale che ci sia
per uno spettatore: andare al cinema. A Bologna, per esempio, durante la
proiezione di Legittima difesa di Henri-Georges Clouzot
(1947), Tavernier mi spiegava – con voce proporzionale alla sua notevole
statura – scene e battute… Il pubblico attorno si girava, incuriosito o
indispettito, e riconoscendolo, non osava zittirlo. In sala era come se ci
fossimo solo lui e io.
Legittima difesa era stato il primo film che Clouzot
aveva girato dopo la fine dell’”indegnità nazionale” inflittagli dopo l’epurazione
per via della Continental, la casa di produzione tedesca, e ancor più per aver
scritto e diretto Il
corvo con Pierre Fresnay, sulla delazione di
massa nella Tulle prebellica. Ma nel 1942 in cui il film arrivava nella sale quel tradimento messo su carta, seppure
anonimamente, esemplificava cone buona parte della
popolazione denunciasse la parte restante. Eppure Tavernier veniva da una
famiglia favorevole alla Resistenza, a differenza – per esempio – di quelle di
altri registi della Nouvelle
Vague: Eric Rohmer,
nome d’arte di Maurice Schérer, originario proprio di
Tulle; di François Truffaut; di Jean-Luc Godard; e
quella del maggiore dialoghista del cinema francese fino agli anni ’80: Michel Audiard. Il giovane Tavernier simpatizzava piuttosto per
l’estrema sinistra e per tutta la vita ha conservato tracce di questa matrice,
come dimostra la sua battaglia contro la doppia pena, carcere ed espulsione,
per gli immigrati clandestini in Francia. Ma il Tavernier sia giovane, sia
vecchio, non è stato settario mai. Sapeva riconoscere il valore altrui, prima e senza il
consenso generalizzato. E non si stancava mai cercare di saperne di più.
Nel
2002, nei teatri di posa di Billancourt in una pausa delle riprese di Laissez-passer,
Denys Podalydès, il protagonista,
non apriva bocca, se non per mangiare e ascoltare Tavernier. Un Tavernier
incontenibile, affascinato dalla grandezza di Clouzot,
ma anche del titolare della Continental, Alfred Greven,
che il giurista e geopolitico Carl Schmitt andava a trovare, quando lo
raggiungeva a Parigi, poco prima o poco dopo aver incontrato Ernst Jünger.
Tavernier
si stupiva di aver letto nelle memorie di Roger Richebé
(1897-1989) che Greven aveva il busto del Duce in
ufficio (e, aggiungo io, l’attrice Martine Carol nel cuore). Tavernier pensava
che il busto fosse in realtà quello del Führer . “Se Greven era amico di Schmitt, come Schmitt lo era di Jünger, Richebé aveva ragione”,
gli dicevo senza convincerlo. Ora Tavernier avrà raggiunto Richebé
nel paradiso dei registi e si saranno chiariti.
https://www.barbadillo.it/, 27 marzo 2021