Maurizio Cabona
“C’era una
volta a… Hollywood”: il tributo (troppo dispersivo)
di Tarantino al cinema italiano
Per quasi tre ore C’era
una volta a … Hollywood di Quentin Tarantino inanella citazioni
lusinghiere per il cinema italiano. Il titolo allude a C’era una
volta il West di Sergio Leone. Dopo di lui viene “il secondo miglior
regista di western-spaghetti,
Sergio Corbucci”. Ma Tarantino celebra soprattutto le rimembranze della sua
infanzia di spettatore nei cinema di quartiere, tra immagini dell’indimenticata
Grande fuga e del
dimenticatissimo Missione compiuta. Stop.
Bacioni. Matt Helm.
Quando comincia a fare le cose, Tarantino non riesce a
fermarsi. Anche questo suo film è fluviale, didascalico (nel senso che ricorre
alle didascalie), un’interminabile sagra della memoria e della cinefilia.
Vediamo Sam Wanamaker, rientrato da Londra, dopo il maccarthismo, interpretato da Nicholas Hammond,
che dirige un film; Steve McQueen (Damien Lewis), che a una festa nella Playboy Mansion
sbava per Sharon Tate (Margot Robbie); Roman Polanski (Rafal
Zawierucha) con la giacca di velluto verde e jabot bianco di Per favore non mordermi sul collo.
Tra i personaggi principali, solo Sharon Tate, moglie di
Polanski, è tra quelli reali. Gli altri due sono quasi d’invenzione: il Rick
Dalton di Leonardo Di Caprio e il Cliff Booth di Brad
Pitt. Il primo è un attore che viene dalla tv, la cui carriera mescola quelle,
reali, di Burt Reynolds, Ty Hardin
e George Maharis; il secondo allude a uno stunt e
attore, Hal Needham,
altrettanto reale, uno capace, a casa, di uccidere la moglie e, fuori dal set, di suonarle a Bruce Lee (Mike Moh).
Nel cinquantenario della strage di Bel Air – dove la Tate
fu uccisa con Jay Sebring (Emile Hirsch)
e tre amici dalla “Family” di Charles Manson – Tarantino ha allestito una
mega-produzione passata per il Festival di Cannes nello scorso maggio, che in
Italia arriva solo ora. Ogni interprete ha la sua professionalità ad
assisterlo, ma solo Di Caprio ha una scena che gli permetta di esprimersi con
grande intensità: quella con la bambina prodigio, attrice in erba, che gli
insegna il mestiere.
Per chi ricordi non avesse del contesto
economico-politico di C’era una volta a…
Hollywood, alla fine degli anni ‘50 il cinema americano era entrato
in una crisi che si risolse con film a basso costo e ad alto incasso – per
esempio Easy Rider – ormai
immuni dalle austere prescrizioni del “codice Hays”. Nel 1969 era diventato
proibito proibire, sebbene ci fosse la guerra in Indocina, i ghetti fossero in
rivolta, la conquista della Luna fosse stata (forse) solo la scena di un film…
Tarantino aveva in mente di scrivere un romanzo, invece
ne è venuta una sceneggiatura dispersiva, nonostante l’unità di luogo e, in
sostanza, di tempo. Troppi personaggi, mille allusioni, qualche pausa, il
solito bagno di sangue e anche di benzina. Polanski s’infuriava quando i
produttori gli tagliavano i film. E’ un peccato che
Tarantino non ne incontri uno capace di portarlo alla misura.
Divo della tv anni ‘50,
poi mancato divo del cinema, nel 1969 un attore hollywoodiano ha l’apice della
carriera alle spalle. Nel declino, che lo porta in Italia per tre film western,
ha vicino la sua controfigura e factotum. Guerra in Indocina, gioventù hippy, droga
di massa sono i segni dei tempi cambiati. Tra le star nascenti, Sharon Tate è
contesa fra il parrucchiere di grido, Jay Sebring, e
un regista europeo, Roman Polanski, vicini di casa del nostro attore in
declino. Intanto, in un villaggio da western cinematografico di Los Angeles
alloggia una “comune” il cui guru, Charles Manson, vuol entrare nel giro che
conta… Nostalgia prolissa (quasi tre ore di film) e troppi personaggi per un
regista che non dovrebbe più scriversi anche le sceneggiature.
“Messaggero”, 19 settembre 2019