Svisti dai vicini (2)

Basile-Joseph Ducos Itinéraire et souvenirs d'un voyage en Italie (Parigi 1829)

 

Genova, 11 Gennaio 1820

Ci sono soltanto sette poste e mezzo di distanza tra Tortona e Genova, ma il passo della Bocchetta è lungo ed impegnativo. Bisogna partire il più presto possibile se si vuol arrivare prima di notte. Lasciamo l’Albergo senza rimpianti: la sollecitudine con cui eravamo stati accolti non ha compensato i disagi del pernottamento. Non si fa niente nel paese per addolcire i rigori degli inverni, cui pure gli abitanti dovrebbero esser resi sensibili nonostante la brevità. Spinta dalla tormenta incessante la neve, caduta in abbondanza sulla galleria che porta alle nostre camere, è penetrata fin nell'interno. Per aprire le porte si sono dovuti rompere i ghiaccioli che ne bloccavano l'apertura. Il barometro segna parecchi gradi sottozero. I vecchi non ricordano un freddo così pungente. Partiamo con la falce di luna al suo ultimo quarto. La sua luce ci guiderà fino a Novi, cittadina celebre nei nostri rovesci militari, per la vittoria riportata da Suvarov su Moreau, dopo la disfatta del Trebbia. A sinistra scorre lo Scrivia, a destra l’Orba. La piana intermedia è stata, in tutta la sua estensione, tinta di sangue, teatro di gloria tanto per il vincitore che per il vinto. Dopo il borgo di Gavi situato a breve distanza vengono il Lemma ed il villaggio di Voltaggio. Anche questo luogo fu, volta a volta, testimone e vittima di attacchi o difese altrettanto micidiali e funeste per i suoi abitanti.

Eccoci giunti ai piedi della Bocchetta. Conviene raddoppiare il tiro non tanto per le condizioni stradali quanto per la salita ripida, tortuosa e esposta a precipizi. Se avessimo prestato fede alle storie di ladri sarebbe dipeso solo da noi metterci in guardia fin da Tortona: davvero non ce ne erano state risparmiate. L'esagerazione dei racconti aumentava in ragione della nostra incredulità. Erano tutti d'accordo circa i pericoli che ci attendevano nelle gole strette, sulle cime deserte che stavamo per percorrere. Al momento di partire tutti manifestavano un caldo interessamento e univano, ai loro saluti, i sensi d'una affettuosa pietà. Pur se la temuta imboscata avesse avuto luogo in presenza di accompagnatori, questi non avrebbero conosciuto molto meglio i nostri pericoli. Invece delle solitudini adatte alla sorpresa ed al crimine che ci erano state profetizzate, abbiamo trovato una bella carreggiata, percorsa da viaggiatori, mulattieri e merci. È l'unica via di comunicazione commerciale tra Genova e Torino, tra l'antica regina dei mari del Levante e la nuova capitale. I trasporti avvengono a dorso di muli. Si vedono lunghe file di questi animali sui fianchi dei monti diminuire di volume mentre si allontanano, rallentare in apparenza per poi infine scomparire. L'andatura regolare e sicura, il sapiente bilanciamento del carico, i colori variegati dei pennacchi, il rumore dei campanelli animano l'intero quadro. Raccolti o isolati, li seguono i loro addetti, gente ardita, vigorosa i cui abiti attillati fanno intuire le forme nervose. Avanzano lentamente, curvi nei mantelli, la fronte ombreggiata da un cappello di feltro, intorno a cui il vento fa volare pezzetti di nastri sbiaditi. Li si sente parlare ad alta voce, fischiare, o incitare la marcia con grida e con colpi di frustino di cui gli echi rimandano lo schioccare. Quelle carovane che vanno e vengono senza interruzione, scambiano i prodotti delle terre interne con le importazioni marittime dei genovesi. Esse saranno ad un tempo il nostro corteo e la nostra forza di sicurezza. Una vaga inquietudine non riuscirà a distrarci dalle bellezze naturali che ci si dispiegano davanti. Da ogni parte, nel fondo delle vallate, spuntano tra la neve le prime foglie lievemente imporporate della segale e del grano. I luoghi incolti sono fitti di boschetti, i cui alberi, carichi di ghiaccioli, somigliano a piante d'alabastro e di cristallo. Le case contadine, le piccole fattorie, le frazioni, i villaggi quasi si toccano. Colonne di fumo, levandosi dai focolari, li segnalano da lontano: graziosi quadri invernali degni di pennelli più abili dei miei.

Il piano della Bocchetta non supera i venti piedi di larghezza. A sinistra si trova una piccola cappella della Vergine. Quattro uomini armati e con una brutta cera sono spuntati all'improvviso dal muro che li nascondeva. Avevano cattivi propositi? Non saprei dirlo. Oltre ai passanti che potevano sopraggiungere, noi eravamo in numero pari a loro. Hanno deposto le carabine contro l'altare della Madonna, attaccato i mantelli alla grata e, dopo averci aiutato a staccare il rinforzo del tiro ormai superfluo, ci hanno augurato un felice viaggio. Così si sono dissolti i pronostici spiacevoli che ci erano stati prodigati.

Campomorone è situato a metà della china. Vi si scende velocemente, attraverso un paesaggio delizioso. La sua esposizione a meridione comporta una vegetazione pressoché ininterrotta. Persino oggi, il sole ha un certo vigore. La tramontana, bloccata dalla cime della Bocchetta, non arriva fin qui. Fatichiamo a credere di essere in inverno. Una strada ampia, liscia, ornata di grandi alberi, opera della famiglia Cambiaso, avanza nella valle del Polcevera costeggiandone la riva destra. Questo torrente che di rado scorre senza pericolo per gli abitanti spesso è in secca: le sue sorgenti abbondano, gelano o inaridiscono con la stessa prontezza. Da entrambi i lati si mostrano bei giardini, con eleganti costruzioni, coronati da montagne coltivate fino in cima. Ma dopo due leghe di marcia la popolazione aumenta; il letto del fiume si allarga, l'appennino si allontana; il sole scende verso il mare; l'azzurro dei flutti si tinge dei raggi del sole calante. Giungiamo presso la riva. A sinistra c'è Genova. Il lungo sobborgo di San Pier d'Arena ce ne darà l'accesso. Un faro che domina la spiaggia indica l'entrata del porto. Non lontano da lì c'è la porta della città, armata di travi ed erpici, come quella di una cittadella. Scendiamo all'insegna di Santa Marta, in piazza dell'Annunziata; e ci rallegriamo del caso che ci fa trovare un albergo dove il vitto e alloggio corrispondono all'affabilità degli albergatori ed alla sollecitudine dei camerieri.

 

Genova, 12 Gennaio 1820

Capitale dell'antica Liguria, Genova si profila come un anfiteatro sul fianco meridionale dell'Appennino, tra il Polcevera ed il Bisagno. Durante le guerre cartaginesi, Magòne, figlio di Amilcare, la prese e saccheggiò. I Romani la riconquistarono ma i suoi abitanti esenti da mollezze, intelligenti, audaci, attivi, ricchi di spirito, seppero difenderla e mantenerne l'indipendenza. Vinti i saraceni, uguagliata la potenza di Venezia, distrutta Pisa, conquistata la Sardegna, cacciati gli austriaci, la nascita di Colombo, quella di Doria e di molti illustri cittadini: questi i fatti principali della sua storia moderna e i suoi titoli di gloria. Difficile che questa repubblica, decaduta dalla passata grandezza, non fosse coinvolta nei moti politici causati in Italia dalle nostre frequenti invasioni. Contesa dalle parti belligeranti che si affrontavano fin nelle mura della capitale, il suo governo, non potendo impiegare la forza, usò l'astuzia ogni volta che gli venne consentito di ricorrervi con successo. Oltraggi e minacce dell'Inghilterra lo riavvicinarono alla Francia. Si formarono partiti contrapposti. Scoppiò la guerra civile. I nostri eserciti misero solo una tregua a furori degni degli usi italiani; e quell’intervento venne seguito dall'assedio sostenuto da Massena a Genova nel 1800, uno dei fatti d'arme più gloriosi del figlio prediletto della Vittoria. Pazienza, valore, abilità, attività instancabile, inflessibilita degli ufficiali, disciplina delle truppe, tutte le virtù militari vi si dispiegarono a gara. Dal capo supremo di quella difesa memorabile fino all'ultimo soldato, sembravano tutti penetrati dall'importanza del proprio ruolo, desiderosi che la Francia potesse dir di loro che avevano compiuto il proprio dovere. C'eravate Soult, Gazan, Miollis, Darnaud, Clauzel; e la storia ha memoria delle prodezze con cui riusciste a liberare per un po' la città e a dare a Massena la possibilità di riprendere respiro. Ma quel trionfo fu l'ultimo e i trofei furono pochi viveri. Alla piazza, stretta dagli assalitori, non rimase quasi altra risorsa che un’eroica impassibilità. L'orribile fame diede un aiuto ai nemici. Chiusa dagli austriaci, dalla parte di terra, e dagli inglesi, dalla parte di mare, Genova non tardò ad avvertire il pungolo degli imperiosi bisogni. Ott e Keith si adoperarono a controllare gli accessi per impedirne i rifornimenti. Presto i commestibili di ogni specie si esaurirono. Si ricorse alle erbe selvatiche dei giardini, a tutte le sostanze animali possibili, agli animali più disgustosi, ai vermi di terra, a vane illusioni che ingannavano la fame per un breve momento, ridandole poi nuova forza. A quel flagello seguì la peste. Chi non ne era colpito moriva d’inazione senza che nessuno osasse parlare di resa, davanti a colui il cui carattere era imbattibile e che dava esempio della più severa astinenza (…)

Per difendersi da ogni invasione ostile, il nuovo governo prende misure che tendono ad accrescere la distanza dai nuovi sudditi. Esse non sono tali, in effetti, da non essere viste come destinate a contenerli nel dovere. Lungi da ispirare loro l'affetto e l'obbedienza, esse li alienano e consigliano loro la rivolta. Oltre alle opere militari che già circondano la città, ogni giorno se ne vedono nascere di nuove. Numerose feritorie mostravano la bocca dei cannoni di cui erano armate: ad ogni istante se ne aprono altre in tutte le direzioni. A Vittorio-Emanuele piacciono queste dimostrazioni guerriere che, a dar retta a chi l'ha visto, non gli si addicono per nulla(...)

Come Napoli, Genova si stende a semicerchio lungo il mare. È esposta a mezzogiorno. La massa principale delle sue abitazioni è separata dalle mura di cinta per mezzo di un ampio spazio dove si trovano numerose piccole case che uniscono gli agi della città e quelli della campagna. Sono le ville degli artigiani e dei commercianti che le smobiliano e le chiudono in inverno per riaprirle e riammobiliarle in primavera. Vi trascorreranno i tanti giorni di festa, ripristinati con la riannessione al Piemonte. Ora sono disabitate. Non si vede nessuno lungo le strade che vi conducono. Non hanno neppure un guardiano. Vi sono annessi dei giardini che non fanno ombra. La bella stagione li riempirà di fiori. Sono banditi alberi ed arbusti. Un poco d'ombra si trova solo sotto i pergolati di gelsomini o di mirti: al momento è una rarità. La sicurezza del luogo e la sua difesa in caso di attacco richiedono forse la privazione di quel riparo dal clima caldo che certo non si sospetterebbe oggi che il tempo è così rigido ! (…)

Una lunga strada, che assume successivamente tre diversi nomi e serve da passeggiata alle persone distinte, attraversa buona parte di Genova: la strada Nuova, la strada Nuovissima e la via Balbi. Tutte le altre vi sbucano. Tanto la prima è larga, dotata di begli slarghi, ornata da sontuosi edifici quanto le ultime sono fiancheggiate da abitazioni meschine e strette al punto che non vi passano due persone affiancate. Di rado vi penetra il sole. L'aria fatica a circolarvi. Vi regna, per così dire, la penombra. Sia che si osservi la città dall'alto dei bastioni che la circondano dalla parte di terra, sia che si percorrano quelli che la proteggono dalla parte del mare, il suo aspetto è incantevole. Il deposito del porto franco, quello della dogana, sono dei begli edifici, dotati di banchine ampie e comode. Sembrano ingombri di merci ma i commercianti concordano nel dire che questo segno di prosperità commerciale non è paragonabile ai tempi passati, inclusa la nostra dominazione. Lontano si vede il porto, stretto nella cinta, dove sono all'ancora alcuni mercantili. A sinistra è difeso dal molo vecchio; a destra, dal molo nuovo oltre il quale s’erge la lanterna. Quando gli occhi si soffermano sulla doppia riviera al cui centro sta questa costruzione, a mezzogiorno si stende la ridente costiera di Nervi, con i suoi aranceti, limonae, fichi, melagrani ed ulivi; a settentrione, si scorgono i giardini profumati di Sestri, Voltri, Arenzano che, al giungere delle belle giornate, saranno ingemmati da giunchiglie, giacinti, rose e tuberose, i cui profumi si uniranno a quello dei fiori d'arancio e gelsomino. Infine, più ad ovest, quando il cielo è sereno, si scoprono l’ansa e le insenature del savonese (...)

È soprattutto discorrendo delle genovesi che sarà permesso di dire: incarnato di giglio e rosa. Hanno una pelle fine e vellutata. C'è amore, piacere, voluttà in tutta la loro persona. I tratti diffondono un fascino inesprimibile. Agli sguardi inebrianti uniscono il richiamo di un sorriso grazioso. Nessuna può vantare più diritti ad essere la preferita (..)In una sola strada di Genova ho trovato più donne incantevoli che in tutto il resto d'Italia. Ma questo bisogno di piacere, queste esibizioni vezzose passeranno nel discorso? Lo spirito troverà un godimento pari ai sensi? Bisognerebbe, per accertarmene , disporre di più tempo, e capire, inoltre, il dialetto sonoro e disarmonico generalmente utilizzato. I genovesi parlano italiano solo per riguardo verso gli stranieri, e non lo parlano poi male.

L'abilità impiegata dalle donne nel posare e sedurre, gli uomini l'applicano negli affari. Non la tralasciano nemmeno nelle piccole cose proprio per ritrovarla poi nelle grandi. Sono decaduti rispetto agli antenati o ne hanno raccolto l'eredità? Le tormente politiche, deprimendo il carattere nazionale, hanno loro consigliato l'astuzia in sostituzione della forza che non avevano più in sorte? Lo spirito mercantile la vince su ogni altra qualità? Come che sia, astrazion fatta di un pregiudizio che non è favorevole, e salvo le eccezioni d'uso a favore dei genovesi franchi e leali, come si esentano, tra i guasconi, quelli veritieri e poco vanitosi, ci si sente colpiti, da subito, dall'aria accorta e sospetta della loro fisionomia. Se discorrono insieme anche su argomenti indifferenti, li si sospetterebbe di volersi ingannare a vicenda. Ogni interlocutore si impegna ad evitare il tranello di cui sospetta e si sforza, al tempo stesso, di nascondere quello da lui stesso apparecchiato. Se vi rivolge la parola, la pupilla vacilla e fugge sotto le palpebre. Il pensiero che esprime non è quello che l'occupa: questo, lo tiene per sé, ed non ha altro proposito che di penetrare il vostro. Poi, edotto di quanto voleva sapere, si affretta a portare altrove la sua curiosità e le sue sottigliezze. Ne ho conosciuti alcuni di cui avrei chiesto l'amicizia ed altri che non hanno fatto che confermarmi nel mio giudizio (...)

Né la sala di Sant'Agostino dove si esegue l'opera, né il teatro Campetto riservato alle tragedie e commedie, rappresentate per i poveri da attori non eccelsi, sono degni della curiosità di uno straniero. All'uscita, al posto delle vetture, non ci sono che portantine. Tale usanza, umiliante sia per chi si fa portare da un altro, sia per colui che porta, esisteva già al tempo della repubblica. Vero è che se la forma di governo genovese aveva la libertà come base, l'uguaglianza e la dignità dell'uomo erano interpretate come a Venezia (...)

 

Genova, 13 Gennaio 1820

Stanotte c'è stata una tempesta di neve...Le strade sono deserte. La popolazione, non abituata ai rigori invernali, teme di mostrarsi. Non è tempo adatto ai vestiti leggeri del paese, né alle grazie della coquetterie, tantomeno ai vezzi delle belle genovesi(...) Nell'attesa, si temono i danni arrecati alle campagne. Si ha già notizia che aranci, fichi e mandorli di Nervi e dintorni sono gelati. I loro frutti, la sola ricchezza del posto, sono oggetto di una considerevole esportazione; e questo avvenimento causerà un danno difficile da rimediare. Ancora non si conosce la sorte degli ulivi. Il solo sospetto che siano stati colpiti dal gelo causa già una costernazione generale. Vedendo così svanire i proventi agricoli dell'annata, non c'è abitante che non consideri tra sé e sé gli obblighi pubblici da rispettare e che, una volta tenuto conto del fisco, spaventato dalle privazioni e forse dalla miseria che lo minacciano, non si senta portato ad accusare il governo attuale. Da qui i lamenti innumerevoli, i paragoni sfavorevoli verso il nuovo stato di cose, verso chi vi ha portato e verso il sistema con cui si cerca di consolidarlo. Pazienza se il commercio marittimo mostrasse qualche vivacità, se promettesse delle compensazioni: sarebbe allora possibile qualche consolazione. Tale fonte di reddito andrebbe sostituire quella che si inaridisce. Ma avendo i tanti stati italiani adottato leggi e proibizioni reciproche, gli approvvigionamenti si limitano al consumo locale. Resta la frode come solo mezzo per estendere le relazioni mercantili. Orbene, indipendentemente dalla corruzione morale ch'essa introduce tra il popolo e dalla pene che la puniscono, essa offre soltanto un debole palliativo ai mali che ogni giorno si aggravano e che minacciano la rovina totale di Genova(...)

 

Genova, 14 Gennaio 1820

Ho voluto visitare la serie dei forti che difenderanno Genova dalla parte di terra. Essi si susseguono senza interruzione. Il loro sistema, per il poco che ne capisco, mi pare stranamente complicato. Ogni spalto e fossato di queste fortificazioni obbliga a percorsi che ne complicano la visita rendendola allo stesso tempo fastidiosa e stancante. Vi si potrebbe tenere un corso sulla difesa dei luoghi. Ve n'è di antichi, di moderni ed altri non ancora completati. Da cosa e da chi cerca di difendersi sua maestà il re di Sardegna? Nel suo grottesco ardore guerriero, quali nemici si propone di combattere? Si ride di un nano che si mette in guardia contro i giganti. Un congresso gli ha regalato Genova; un congresso gliela toglierà: la sua convenienza non sarà allora oggetto di consultazione, così come non lo fu in precedenza.