Svisti dai vicini (Alfred Bellenger: A travers l'Italie. Souvenirs de voyage, Paris 1882)
In diligenza, il tratto
della Corniche è splendido; in ferrovia, è insopportabile, con il viaggiatore
intrappolato sotto tunnel interminabili e privo del superbo colpo d'occhio
verso i monti e il mare. È un viaggiare da talpa.
All'uscita dall'oscurità
ci si sente allietati dalla luce abbagliante, scoprendo un mare madreperlaceo e
la sabbia dorata della riva che chiama il bagnante. Ci si avvicina allo
sportello per afferrare meglio l'insieme…D'improvviso, si sente fischiare e si
ritorna sulla terra.
Nel momento in cui si
supera la linea che separa Francia e Italia di colpo invecchiamo di un'ora. È
una triste notizia comunicataci dall'orologio delle ferrovie regolato secondo
il meridiano di Roma.
Lasciando il dipartimento
delle Alpes-Maritimes, fatto un passo, siamo in
Italia; ma il passo occupa quaranta minuti. Quanto tempo per superare una
semplice linea di frontiera!
Infine arriviamo a
Genova. Mi aspettavo di vedere degli italiani, non degli inglesi, nugoli di
inglesi, del resto ne è pieno l'universo. Ci si potrebbe domandare se non ci
sono troppi inglesi all'estero e se ne rimangano a sufficienza per l'ornamento
delle isole britanniche.
Nel metter piede sul
suolo italiano, è d'obbligo far conoscenza con un oggetto sudicio, repellente.
Intendo la banconota usata che ha corso forzato in questo paese in cui “l'oro è
una chimera “.
Questi pezzi di carta
spesso arrivano ad un grado di sudiciume ripugnante, dopo aver dormito in un
buon numero di tasche ed essere passate per mani vergini di qualsiasi
abluzione. A forza d'essere insudiciate hanno reso falso il motto di
Vespasiano: “ Il denaro non ha odore “.
Quel che manca in Italia
è la pinza per banconote. (Abbiamo però quella per lo zucchero, inutile).
Proveremmo, ne sono
certo, vera soddisfazione nel non toccare più con le mani quegli stracci di
carta divenuti venerabili per tanta anzianità e maturità.
Genova è un labirinto
immenso in cui l'orientamento è dei più difficili. Mi divertivo ad uscire a
caso per la città e a perdermi in quel dedalo inestricabile, prendendo di
preferenza le stradine più sconosciute, più impraticabili in cui sembrava non
fosse mai passato nessuno.
È il vero modo di godere
quella strana città.
Molte di quelle stradine
sono tanto strette da parere un sotterraneo, un pozzo lungo e strettissimo dal
fondo del quale si intravede il cielo come una macchia azzurra. Raramente un
raggio di sole riesce a penetrare in quella sorta di crepacci costruiti da mani
umane.
Si sono ammucchiate
abitazioni le une contro le altre finché hanno potuto conservare il loro centro
di gravità. D'altronde, se ne crollasse una, non cadrebbe nella strada,
s'inclinerebbe sulla casa che la fronteggia.
Non bisogna stupirsi di
vedere a Genova tante stradine strette in cui la circolazione è impossibile.
Ricordiamo che essa fu la città delle guerre intestine.
Quello genovese è un
popolo parecchio incostante; ardenti avventurieri, appassionati di spedizioni
lontane, figli del mare e innamorati del mare, è loro piaciuto ritrovare sulla
terra e in città le stesse tempeste incontrate tra i flutti.
Quando pensiamo che in
quattro anni, dal 1390 al 1394, dieci rivoluzioni hanno sconvolto Genova,
allora capiamo che proprio il genio della guerra civile ha tracciato quegli
stretti corridoi, affinché non si potessero attaccare i palazzi circostanti.
Con un tal temperamento,
i genovesi hanno perciò una storia lunghissima di cui ricordo solo due momenti:
Nel 1684, Luigi XIV fece
bombardare Genova rea di aver insultato il suo ambasciatore; il Doge dovette
recarsi personalmente a Versailles per riparazione.
Nel 1800, i francesi agli
ordini di Massena sostennero dentro Genova un eroico assedio da parte di
inglesi ed austriaci.
Questa città può non
piacere a tutti, vedi il presidente de Brosses che
nel 1739 scriveva all'amico de Neuilly: “ Tra i piaceri che Genova può offrire si deve annoverare
soprattutto quello di esserne fuori, perché mercanti, albergatori, maestri di
posta, operai, tutto è di una bricconeria e di una cattiva fede inaudite “.
La cattiva reputazione
dei genovesi rimonta a tempo addietro. Luigi XI non diceva “
I genovesi si consegnano a me ed io li consegno al diavolo “?
Interamente assorbita
dagli affari, Genova ha poco tempo da consacrare alle cose spirituali; e il
presidente de Brosses ci dice: “Invano cercherei dei
letterati dal momento che le sole lettere conosciute dai genovesi sono quelle
di cambio".
Questa città da molto ha
imboccato la via della prosperità; si divide con Marsiglia il commercio nel
mediterraneo, commercio di cui, nel passato, a Livorno toccava una fetta più
grande.
Il porto, cui deve la
ricchezza, forma un grande emiciclo di quasi una lega. Da questa forma
semicircolare che rappresenta la rientranza lasciata da un ginocchio
gigantesco, Genova avrebbe attinto il suo nome: dal latino genu.
Pieno di navi di grande tonnellaggio e di barche di piccolo cabotaggio, il
porto è stato ingrandito grazie alla munificenza del ricchissimo duca di
Galliera che ha legato 20 milioni alla città.
L'aspetto generale di
Genova è animato, a tratti brillante. Si vive molto in strada, nelle pubbliche piazze . Di sera la città intera pare in festa. Tutti,
vestiti con gusto, si dirigono verso la bella passeggiata dell'
Acqua-Sola dove si passeggia ascoltando della musica
militare. Alle nove, la musica cessa, il pubblico si sparge nei tanti caffè,
all'aria aperta, sotto i limoni e gli aranci in fiore e carichi di frutti.
E tutti quegli italiani
bevono…della birra; addio colore locale!
Le chiese genovesi non
sono bellissime, ma in compenso sono numerose. La causa è curiosa: eccola come
mi è stata riferita da persona molto competente.
Dalle settanta alle
ottanta chiese o oratori della città sono opera di un solo uomo o meglio di una
sola famiglia; sono edifici innalzato ad espiazione di crimini politici, o di
vendette amorose, essendo la vendetta radicata dai tempi più remoti.
Conviene ricordare alcune
di queste chiese.
La cattedrale data dal
1100, è costruita tanto all'interno che all'esterno con marmi bianchi e neri
alternati. Ne è patrono San Lorenzo.
Cito questa chiesa solo
per dire che la sacrestia conserva un piatto celebre. Il piatto misura quaranta
centimetri di diametro e fu a lungo considerato come ricavato da un unico
smeraldo. Non è che semplice paccottiglia. La Condamine se ne convinse
saggiandolo con un diamante.
Secondo la tradizione, la
maliziosa regina di Saba ne avrebbe fatto dono a Salomone, che ne fu ammaliato
e lo ritenne un gigantesco smeraldo. Poi quel piatto comparve, si dice, sulla
tavola dell'ultima Cena e Giuseppe d'Arimatea se ne servì per raccogliere il
sangue del Salvatore. Infine, durante le crociate, al tempo della presa di
Cesarea, entrò a far parte del bottino di guerra dei genovesi.
Simili memorie bastano a
spiegare la cura gelosa con cui si conserva il piatto, sottraendolo perfino
alla vista dei visitatori. Occorre un permesso del sindaco di Genova per essere
ammessi a vederlo. Tuttavia, al pubblico se ne mostra una copia esatta bastante
a soddisfare la curiosità.
Saliamo poi sulla cima
della chiesa di Santa Maria in Carignano.
Dalla cupola si ammira
uno splendido panorama. La città stende ai vostri piedi il suo guazzabuglio di
case. Il mare appare in tutta la sua maestà. L'occhio si compiace nel seguire
la frastagliatura che esso ritaglia sulla costa a formare il bel golfo di
Genova.
La chiesa di San Siro
è ornata di affreschi la cui origine merita di essere raccontata.
Questa chiesa comunica
con un convento di religiosi teatini. Il pittore Carlone aveva come allievo
Pellegro Piola, i cui progressi erano tanto rapidi ed il talento così
promettente da far ombra al suo maestro. Carlone decise di sbarazzarsi di un
pericoloso rivale e lo assassinò vigliaccamente col favore della notte.
Compiuto il crimine, Carlone per sfuggire alla giustizia degli uomini si
rifugia nella chiesa di San Siro appartenente, come detto, ai padri teatini. Il
santuario poteva ancora concedere il diritto d'asilo.
Carlone si getta ai piedi
del priore, testimoniandogli il suo pentimento ed implorandone la grazia. Il
priore si commuove e promette di intervenire per ottenere il perdono del colpevole
ma a condizione che nel frattempo egli dipinga ad affresco la chiesa.
La grazia ci mise tanto
ad arrivare. Da un lato, l’efferatezza del crimine era un serio ostacolo,
dall'altro il desiderio dei monaci di vedere compiuta l'opera di Carlone imprimeva
una sapiente lentezza ai loro passi.
Alla fine la grazia
arrivò proprio quando il nostro artista completò gli affreschi. La sua opera
risulta mediocre.
Una chiesa in cui il
talento di Carlone si rivela in maniera più grandiosa è quella dell' Annunciazione, la cui magnificenza si deve alla
famiglia Lomellini. Una singolarità degna di nota si trova in un quadro che ha
per soggetto il divieto “Ne occidas “.
Non uccidere.
Ha come autore
l'assassino Carlone. La volta della navata, sostenuta da dieci colonne d'ordine
ionico di marmo bianco e con scanalature intarsiate di marmo rosso, è decorata
da un capolavoro, la Cena di Procaccini.
Una cappella della chiesa
appartiene alla Francia. Custodisce devotamente i resti del maresciallo de Boufflers che, secondo lo storico Denina,
fu accolto dai genovesi come un liberatore e ne ottenne il titolo grazie
all'eroismo ed ed al genio dispiegato nella difesa di
Genova contro gli austriaci.
Non si può lasciare la
città senza parlare dei suoi palazzi, la cui fama è esagerata. Ascoltate il
presidente de Brosses: “Solo i bugiardi sostengono e
gli ingenui credono che tutti i palazzi di Genova siano costruiti in marmo”.
In molti di quei palazzi
di marmo o falso marmo i saloni sono al secondo piano, un'altezza equivalente
ad almeno quattro piani parigini. I proprietari alloggiano più su, sopra quei
vasti appartamenti, oggi destinati soltanto a soddisfare la curiosità degli
stranieri.
Ma quei palazzi,
splendidi nelle proporzioni, sono ben lungi dall'essere pieni di capolavori. Si
potrebbero, credo, discutere il merito e l'autenticità di certi quadri offerti
all'ammirazione degli stranieri e che questi ammirano in totale fiducia.
Eliminate i ritratti e considerate quel che rimarrà dopo una cernita seria:
quasi nulla!
Nel genere, il migliore
tra tutti è il palazzo Durazzo.
Nel grande salone dei
ricevimenti due quadri iniziano i moderni agli splendori dell'antica
Repubblica. In uno Bertolotto ci fa assistere
all'udienza concessa da un sultano a un Durazzo, ambasciatore della Repubblica
presso la Sublime Porta; nell'altro Domenico Piola ci dettaglia sulla festa
sontuosa organizzata dal sultano in onore dello stesso ambasciatore.
Un altro salone ha come
principale ornamento una casta Susanna di Rubens.
Terminiamo con la visita
al cimitero o Camposanto. Istituito nel 1867, nei dintorni di Genova,
viene considerato il più bello d'Italia.
In tutti i paesi
cattolici fioriscono un rispetto ed un'ammirazione verso i morti che sfuggono
ai protestanti.
In Inghilterra i cimiteri
sono abbandonati e spesso servono da pubblica discarica.
I più abili scultori
italiani hanno, in numerosi monumenti funebri del Campo Santo di Genova, dato
prova del loro talento. Vi sono rappresentati i vivi, perfettamente
somiglianti, nell'atto di piangere i parenti defunti.
Ritorno in città solo per
dirigermi verso la ferrovia.
Là ci vogliono cinque
quarti d'ora per registrare quaranta bauli. Un impiegato che pare essere il
capo stazione, cumula tutte le mansioni, perfino quella di portabagagli.
Tutto intorno alla
stazione, da ogni parte, un nugolo di ragazzi, coperti di stracci o avvolti in
mantelli raffazzonati, bighellonano, gironzolano, tendono la mano o si
appropriano a forza dei bagagli dell’onda incessante di passeggeri che il
movimento delle ferrovie, simile ad una marea montante, riversa in città e porta
via con sé; flusso e riflusso!