Wolf Bruno
in difesa del
surrealismo
Il peggio che posso dire della storia del surrealismo di Paola Dècina
Lombardi è che si tratta di un libro diligente. E dico una cosa già tanto
terribile e penosa che mi riesce difficile passare d’un botto ai complimenti.
Non ha avuto esitazioni invece Paolo Mieli, da quella pagina del “Corriere
della sera” che per qualche tempo, prima della fine, fu concessa a
Indro Montanelli, reduce dal rovescio - probabilmente non solo giornalistico ma
personale, tanto da essere ormai osannato a destra e a manca - della sua ultima
creatura professionale. Cosicché dal volto aguzzo del polemista vivace si è
passati fatalmente ai colloqui coi lettori di un pacioso signore il cui
faccione rotondo pesa a tal punto sulla pagina che nella fotografia che ce lo
mostra deve lui stesso sorreggerlo. Questo gentiluomo cui manca tutto per
essere incredibile ha la passione per la disciplina meglio apprezzata dai
temperamenti fantasiosi, cioè la storia. E avendo per giunta pubblicato
alcunché in proposito, non si cessa mai di ricordarlo quale scolaro di Renzo De
Felice, il che sembra essere più importante del maestro stesso. Con la consueta
distinzione di chi ha l’aria di scusarsi per non poter far scivolare la
bottiglia del Porto fra le pagine del giornale, rimane imperterrito a parlar di
nulla, suo genere d’eccellenza fintanto che non gli scappa qualcosa.
Qualche settimana fa (giovedì 21 novembre 2002) - fra gli apprezzamenti
“per la figura intellettuale di Adriano Sofri” e fuggevoli riferimenti “alle
birrerie di Monaco in cui fece apprendistato Adolf Hitler” - ha confidato ai lettori
di aver “appena finito di leggere un interessante libro” attraverso il quale si
è immerso “in una stagione magnifica” perché “colta, ricchissima, nobile”.
Mieli non è il tipo da sprecare parole di tal fatta, cui porta piuttosto
dedizione, e ha dunque sentito il bisogno di aggiungere un “però” (che, come insegna
il dizionario, è un “ma” con un valore energicamente avversativo) così da esser
certo di non dover sperperare l’ingente patrimonio lessicale. Dalle iperbole
deliziose che l’hanno stuzzicato da bibliofilo è passato presto a colare il
veleno che tocca – per encomiabile spirito di servizio - al recensore
scrupoloso. Una stagione appena definita nobile ha rivelato d’un tratto il suo lato
pericolosamente aggressivo, e il surrealismo del processo a Barrès e
dell’oltraggio al cadavre di France
ha compendiato infine i mali del suo secolo. Il libro interessante ha dunque
lasciato il posto al suo cattivo soggetto.
Le persone, soprattutto se squisite, andrebbero conosciute nel privato.
Non c’è bisogno di Mandeville per capire che Mieli è un uomo come tutti gli
altri e come tutti gli uomini vivi vive. Ma della vita sembra essersi fatto la
stramba convinzione che a parlar libero e a darsi allegri alle birbonate si è
sempre moralmente responsabili del peggio, per questo deve aver scelto di non
dire mai niente o di dire soltanto ciò che è in grado di poter riequilibrare
nelle sue vicinanze – caso assai strampalato in un giornalista, della sua carriera
per giunta.
Non basta un faccione come il suo per salvarsi dall’infelicità. Almeno
questo insegnamento glielo devo.
Per fortuna Surrealismo 1919-1969, ribellione e immaginazione (Editori
Riuniti, Roma 2002) di Paola Dècina Lombardi, pur spingendosi oltre la morte di
Breton, ha evitato di menzionare il documento nel quale José Pierre e altri
surrealisti chiedevano ai responsabili della mostra di Venezia di assegnare il
premio per la scultura a Laszlo Toth,
l’artista australiano che aveva sfregiato la Pietà di Michelangelo. Se
Mieli ha sentito il bisogno di riequilibrare un’avventata concessione di
nobiltà con le birrerie bavaresi frequentate da Hitler – tale è il succo –
chissà quale imbarazzo avrebbe provato in
presenza d’un vigliacco demolitore di bellezza classica e civiltà. Ciò
che aveva concesso si sarebbe malamente dissolto e Hitler non sarebbe bastato.