scritture

LA SUPERBA di Ilja Leonard Pfeijffer nella traduzione di Claudia Cozzi (Nutrimenti, 2018)

Non ho mai dubitato in passato che Genova possedesse un fascino raro e non facilmente decifrabile, ma proprio per questa ragione ho sempre pensato che non fosse per tutti. Da qualche tempo ho cominciato a dubitare che lo possegga ancora con pezzi del centro storico andati a ramengo e la minaccia sempre presente di ulteriori "diradamenti", vocabolo caro a certi comandanti della politica e ben accolto da scellerati urbanisti che vi colgono l'occasione della vita uccidendo quella sentimentale degli altri. Tutto sommato se provo nostalgia la provo per le vecchie trattorie alla buona e per la formidabile presenza di felini che un malinteso igienismo degli amministratori ha condannato colpevolizzando la misericordiosa solerzia delle "gattare". Povero Valery, mi sento di esclamare.

A dirla tutta mi vengono da rimpiangere gli antichi muri sberciati e il forte odore di urina (umana) di certi vicoli in un contesto che bene o male - fra i numerosi segni di una schietta devozione mariana - conservava ancora molto di quell'"anfiteatro di demoni" che vi aveva ravvisato Melville.

A contrastare i miei dubbi - ma più che altro mettendomi in difficoltà - è giunto, nella traduzione di Claudia Cozzi, il sorprendente libro di uno scrittore olandese, Ilja Leonard Pfeijffer, che con una narrativa ambientata a Genova che potremmo chiamare romanzo malgrado non sia facile da classificare (in qualche misura una relazione intrisa di racconti) ha per giunta guadagnato il Libris Literatuur Prijs, la più importante onorificenza letteraria olandese (Ilja Leonard Pfeijffer: La Superba. Edizioni Nutrimenti, 2018. Il titolo originale del libro, pubblicato ad Amsterdam nel 2013, è quello italiano). Com'è che questo libro mi ha messo in difficoltà, costringendomi a ripensare una Genova di oggi che vivevo come distante (anche fisicamente, ancorché viva non lontano) e a farmi sentire colpevole di un pregiudizio?

Genova non è Venezia, non è Firenze e non è Roma, possiede tuttavia una sobria originalità, ingenti depositi culturali e anche una sua monumentalità. Genova è innanzitutto un porto del mediterraneo che la fa somigliare agli altri porti mediterranei che sono distribuiti fino al sud della penisola italiana, ma non è nemmeno Napoli o Palermo, sebbene gli italiani del meridione in genere la apprezzino come fosse la più settentrionale delle città del sud e vi ritrovino la luce che hanno lasciato con le loro città. Ricalcando una famosa frase di Mario Soldati si potrebbe dire che uno straniero che avendo solo una mezza giornata da impiegare in Italia a Genova riuscirebbe a farsene una sintetica idea.

Pfeijffer ha scelto di fermarsi a Genova dopo aver visitato diverse altre città italiane e vi ha ritrovato quel fascino che pensavo fosse andato perduto, vale a dire un incanto che supera le devastazioni subite in una stratificazione che ne solleva la prospettiva già sviluppata in altezza fin dal medioevo. "Genova", dice lo scrittore ", "mi ha regalato la capacità di stupirmi. Ho avuto la sensazione di svegliarmi. Sarà anche che è una vera città, mentre Venezia e Firenze, ad esempio, non lo sono più".

Pfeijffer vi ritrova i vicoli sordidi e quei "pazzi" genovesi ai quali tutti si affezionavano anche quando erano francamente importuni, vi ritrova le puttane e i travestiti, gli antichi palazzi nei cui androni i genovesi del secolo d'oro arrivavano a stivare le merci mentre ai piani superiori alloggiavano Van Dick e tutto questo sopravvive nella disperante movida alcolica e non solo alcolica e coi tanti poveri immigrati da paesi esotici che rendono ancora più esotico il posto dove tentano di accasarsi. E ci sono gli europei come lui, l'inglese Donald Perrygrove Sinclair, "Don" per tutti, ad esempio, tifoso sampdoriano e gran bevitore, uomo di solida cultura letteraria, come ebbi modo di appurare conoscendolo.

La "mia" Genova, mi ha convinto Pfeijffer, è ancora un capitolo aperto.

E a proposito di capitoli lo scrittore comincia il suo libro con "la ragazza più bella di Genova" e lo chiude con "la ragazza più bella di Genova:

 

<<La ragazza più bella di Genova lavora al Caffè degli Specchi. È vestita in modo curato come tutte le ragazze che ci lavorano. Ha anche un fidanzato che ogni tanto passa a trovarla quando è di turno, un tipo col gel nei capelli e maglietta senza maniche con scritto soho. È uno stronzo. A volte dagli specchi li vedo che si baciano di nascosto nello stanzino dove lei prepara gli stuzzichini per l’aperitivo>>.

 

Questo all'inizio, un po' John Fante, ma subito dopo ci si avventura in incroci e divagazioni apparentemente disordinati che solo la continuazione in "flash" che ha dello psichedelico spinge il lettore nell'atmosfera giusta catturabile in un susseguirsi di impressioni, vicende umane, erotismo e perfino notazioni storiche (la peste, per esempio) che non è mai banale, tanto da portare l'autore a proiettare su tutto il fantasma (e fa giusto capolino anche la leggenda di un fantasma femminile) della "più bella" (ed amata) "ragazza di Genova", col finale un po' inatteso ma non strano, visionario sì:

 

<<Vagai senza meta per i vicoli. In vico Angeli mi cadde l’occhio su una puttana diversa dalle altre. Era bianca. Già quella era una grande rarità. Ed era esile e aggraziata. Non pubblicizzava vistose protuberanze di nessun tipo. Era persino bella, e in quei vicoli la cosa era davvero un unicum. Stava seminascosta in una nicchia, quasi timida, come se volesse attrarre il meno possibile l’attenzione dei potenziali clienti. Portava una strana parrucca rossa, che non faceva che rafforzare l’impressione di timidezza. Sembrava che volesse nascondere il suo viso mentre con evidente disgusto metteva in mostra il suo corpo sottile.

Mi affascinava. Provai a guardarla negli occhi. Per un breve momento i nostri sguardi si incrociarono. Cacciò un urlo e corse via. La seguii. Durante il mezzo secondo in cui mi aveva guardato, le avevo visto negli occhi qualcosa che riconoscevo. Dovevo sapere cosa fosse. Dovevo sapere chi fosse.

Quando raggiunsi l’angolo di via della Maddalena sembrava scomparsa. Era più veloce di me. Probabilmente era corsa giù fino a vico dei Corrieri o vico Lavagna. Ma forse la facevo troppo semplice. Scommisi che lei avrebbe scommesso che l’avrei fatta così semplice. In quel caso sarebbe risalita prendendo la parallela, vico del Duca, e probabilmente stava nascosta nella stretta traversa che si chiamava vico Trogoletto, fuori dalla visuale di via della Maddalena. Tornai su prendendo la successiva traversa di vico Angeli, vico Salvaghi, ma non la vidi in vico Trogoletto. Scesi prendendo vico del Duca e quando sbucai di nuovo su via della Maddalena, la vidi guardare dall’angolo di vico Angeli. Mi vide e corse via per via della Maddalena. Prese la prima a sinistra. Io le andai dietro correndo più forte che potevo. Perché aveva commesso un errore. Evidentemente non conosceva i vicoli di questo quartiere quanto me. La prima a sinistra era vico Malone, e quello era a fondo cieco.

Dava la schiena al vicolo, il viso contro la cancellata che le sbarrava il passo. “Per favore”, sussurrò. “Vai via”. Si nascose il volto fra le mani. “Per favore, vai via. Ti prego. È meglio per tutti”.

“Non ti farò del male”.

“Sì che me lo farai. E farai male a te stesso”. Le tremavano le spalle. Piangeva. Le misi con prudenza una mano sulla schiena. “Non mi toccare!”. Ritirai la mano, scioccato. Nel contatto c’era stato qualcosa di stranamente familiare.

“Non voglio niente da te”, dissi con gentilezza. “Voglio solo vederti la faccia. Voglio sapere chi sei. E poi me ne vado. Te lo prometto. Se vuoi, posso anche pagarti”.

Quando dissi così, cominciò a piangere più forte. Si afflosciò. Tremava in tutto il suo corpo esile. Venni travolto da una marea tiepida e salata di com-passione. Provavo l’impulso quasi incontenibile di prenderla dolcemente fra le braccia, ma non osavo più toccarla. Non sapevo cosa fare. Mi dondolai sulle gambe. Cosa dovevo fare? Forse aveva ragione. Forse dovevo davvero andarmene. Cosa stavo facendo? Stavo bloccando in una traversa a fondo cieco di via della Maddalena una puttana magra e bianca con la parrucca rossa. Ci mancava solo un magnaccia che tossicchiando educatamente mi puntasse un coltello alla schiena, chiedendomi perché stessi terrorizzando il suo bestiame. E c’era anche sempre la possibilità, per quanto inverosimile in questo quartiere, di pattugliamenti e denuncia per molestie, o anche peggio. Come se non avessi già abbastanza problemi. Forse dovevo davvero lasciarla in pace. Ma era più forte di me. Dovevo sapere chi fosse. Non poteva essere un crimine voler vedere la sua faccia, no?

“Fai l’errore più grande della tua vita”, sussurrò, “se non te ne vai adesso”.

“Non ti credo. Ma anche se fosse così, sono pronto. E quale danno potrebbe causarci il fatto di vederti il viso? A meno che tu non sia così bella da rendere impossibile dimenticarti, cosa che del resto non escludo affatto, non credo che potremmo davvero farci del male”.

“Non sai cosa stai dicendo”.

“Non sarebbe la prima volta”, dissi. Ma lei non rise.

“Ti ho avvisato, Leonardo”.

“Come fai a sapere come mi chiamo?”.

Lei non rispose. Si tirò orgogliosamente dritta, ancora con il viso verso la cancellata, e si tolse la parrucca rossa. Lunghi capelli neri le inondarono la schiena. E poi si girò.

...

Fu più o meno così che mi sentii quando vidi il suo viso bagnato di lacrime. Aveva ragione.

Era forse stato davvero il peggior errore della mia vita, voler sapere chi fosse. Non riesco a descrivere quanto mi fece male vederla lì in quelle circostanze, e vidi che le faceva un male immenso essere vista in quelle circostanze. Era una situazione che mi turbò profondamente. Pensieri e sentimenti si accavallarono come frammenti di un grande specchio fatto a pezzi con il colpo brutale di una mazza. Se dopo tutto questo tempo l’avessi incontrata da qualche altra parte, in un posto tranquillo e innocente, mi sarebbero tremate le gambe. Ma rivederla in una traversa a fondo cieco di via della Maddalena, rendermi conto che non passava di lì per caso ma che in quel quartiere lei ci lavorava, con quell’allusiva minigonna appena troppo corta e quelle gambe così tormentosamente belle avvolte in quelle calze che uomini discutibili trovano eccitanti, e vedere che mi guardava con gli occhi pieni di lacrime, senza più orgoglio o imbarazzo, come se fosse nuda davanti a me e mi mostrasse le sue ferite purulente perché avevo insistito così tanto, suscitò in me una tale cacofonia di emozioni travolgenti che mi risultò impossibile pensare. E tutte quelle emozioni stridenti e scricchiolanti, che cercavano di emergere e sopraffarsi l’un l’altra, vennero coperte da un forte suono dominante che andò via via crescendo finché riuscii a sentire solo quello, e quello era senso di colpa. E anche se, obiettivamente, in un altro posto e in un altro momento avrei di sicuro trovato qualche argomento sensato in grado di mettere in prospettiva quella sensazione, in vico Malone, in quel momento, venni sopraffatto dalla sensazione che fosse tutta colpa mia: il fatto che io fossi lì, che lei fosse lì, che tutto fosse come era. E che fosse amaramente colpa mia che la ragazza più bella di Genova, fatta di una stoffa diversa da quella di cui sono fatte le altre ragazze, si fosse vista costretta a offrire il suo fragile corpicino al primo venuto bavoso e allupato che aveva un cazzo che gli prudeva nei pantaloni e due soldi in tasca. Crollai.

“Ho sempre amato solo te”, disse piano.

Si girò a guardare dietro di me. Il suo sguardo si indurì. “È tutto a posto, Khalid”. Mi prese la mano. “Vieni”. Ticchettando sui tacchi in modo professionale si avviò altezzosamente davanti a me per vico Angeli.

“Era il tuo magnaccia?”.

“Quello era Khalid”.

“Ma è il tuo magnaccia?”

“Perché usi parole così sgradevoli? Non ti sembra che sia tutto già abbastanza sgradevole? Renditi conto che ti ho appena dimostrato una grande cortesia, anche se non so in che modo te la saresti guadagnata. Da bravo, fai finta di essere un normale cliente, altrimenti potresti avere dei problemi con Khalid. E credimi, con i problemi ha decisamente più esperienza di te”.

Aprì la porta. Entrai. Era un piccolo buco quadrato senza finestre con un letto, una sedia e un lavabo. Chiuse a chiave la porta e si mise a sedere sul letto.

“Sei contento adesso, Leonardo? Adesso mi hai visto la faccia. La mia vera faccia. Te lo saresti mai aspettato da me? Sei troppo scioccato per rispondere, lo so, quindi lo farò io per te. No, da me non te lo saresti mai aspettato. Nemmeno io. E risparmiami le tue prevedibili domande. Perché? Anch’io avevo dei programmi un po’ diversi. È semplicemente andata così. Dopo che mi hai tradita, le cose non funzionavano più nemmeno con il mio fidanzato. Non riuscivo più a credere in niente. Ma è successo un enorme casino, ti risparmio i dettagli. A un certo momento sono dovuta scappare sul serio. Non ho avuto nemmeno il tempo di fare una valigia. La metà della casa era mia, ma ovviamente quei soldi potevo scordarmeli. Non importa. E dove potevo andare? Mia madre è morta quando avevo sedici anni e mio padre ha passato la vita a disapprovare qualsiasi cosa io facessi. Si è risposato con una strega che mi odia perché sono l’unica cosa che ricorda il suo precedente matrimonio. Per il resto non ho parenti. Amici e amiche mi hanno ospitato un po’ qui e un po’ là, e a un certo punto ho incontrato Khalid. Tutto qui. Se mi obbliga a fare quello che faccio? La classica domanda stupida e prevedibile di chi non capisce niente. Così come l’amore può essere una forma di costrizione, la costrizione può essere una forma d’amore. Altre domande? Allora raccontami un po’ quello che stai passando tu, così ci saremo aggiornati. Poi te ne puoi andare, e spero di non vederti mai più”.

...

“Di cosa stai parlando?”.

“Scusa. Volevo solo dire che forse ci vorrà un po’ di tempo, ma poi posso portarti con me al Nord. E intanto posso già incominciare a insegnarti la mia lingua”.

Scoppiò a ridere. “Ma in che razza di mondo vivi, Leonardo? Nella tua fantasia? Forse le donne nel tuo paese sono così impassibili e sentimentali da farsi calpestare per interesse economico e un futuro stabile, ma io sono una ragazza del Sud, nata dalla schiuma del Mediterraneo, figlia della Serenissima Repubblica di Genova che non conosce eguali, e io credo nell’amore. Io ti amavo, ma tu mi hai tradito per quella grassa bagascia bionda del tuo paese. Come farei a fidarmi ancora di te? Come potrei mai credere ancora in te? Io ti disprezzo. E oltre tutto adesso sono con Khalid. So che non lo capirai mai, ma io lo amo”.

“Come un tempo amavi un uomo che ti ha spinto giù dalle scale”.

“Esatto.”

“Io non ti spingerei mai giù dalle scale e non ti obbligherei a prostituirti”.

“Esatto. Tu sei diverso. Tu non capisci. Dovresti diventare una ragazza del Sud per poter capire”.

“Ma allora, cosa? Cosa posso fare? Come faccio a continuare a vivere a Genova dopo che ti ho visto qui oggi e ho capito che mi disprezzi?

“Perché non torni indietro?”.

“Non è possibile”.

“Hai appena detto che i problemi finanziari sono comunque risolvibili”.

“Forse è anche vero. Ma ci sono ostacoli più importanti. Io sarei il primo. Cioè, io sono un poeta famoso al mio paese, o per lo meno lo ero. Troppa gente sa che sono emigrato fra grandi squilli di tromba per abbeverarmi alla dolce vita italiana. Per questo motivo venivo e vengo invidiato. Tornarmene con la coda fra le gambe, come uno sfigato qualsiasi di Una casa al sole che non sa nemmeno leggere il regolamento locale delle fognature, e ammettere che tutto è andato un po’ diversamente da come avevo sperato e che, a essere onesto, è stata una delusione, sarebbe un’enorme sconfitta. Sarei lo zimbello di tutti i miei amici intellettuali. In un certo senso, mi sono perso nella mia fantasia di una vita più bella, più vera e più romantica altrove”.

“Ma hai appena detto che vorresti portarmi con te”.

“Ma quello sarebbe del tutto diverso. Se tornassi nella mia patria con la ragazza più bella di Genova al mio fianco, quello sarebbe considerato un grosso trionfo”.

“La più bella ragazza di Genova?”.

“È così che ti ho sempre chiamato”.

“Sei quasi dolce”.

“Scusa”.

Si alzò. Si sistemò la minigonna. “Mi dispiace non poter ottemperare al ruolo che hai pensato per me, quello di bottino di guerra per il tuo ritorno trionfale. Prima che tu vada, solo un’altra cosa. Khalid è fuori che aspetta. I soldi che guadagno li do immediatamente a lui. È più sicuro. Se vuoi che continui a pensare che sei un normale cliente, e lo vuoi, devi pagarmi”.

Certo. Era più sicuro. Le chiesi il prezzo.

“Quaranta euro”. Glieli diedi. Non mi ringraziò. “Ovvio che per questa cifra in teoria hai anche il diritto di scoparmi. Lo vuoi fare?”.

Ero annientato. Potrei elencare centinaia di spiegazioni e di scuse, ma sono irrilevanti. E quando mi vide esitare cominciò a spogliarsi con mosse esperte. Tutto d’un tratto me la trovai davanti nuda come una statua mozzafiato di un marmo eccezionalmente tenero e fragile, con le calze e i tacchi alti, e da quel momento non dipese più da me. Mi obbligò con la professionalità del suo sguardo. Era La Superba.

“Spogliati. Puoi appoggiare i vestiti sulla sedia. Vuoi che mi metta la parrucca? O mi preferisci così?”.

Prese un tubo di lubrificante, se ne spalmò una generosa quantità fra le cosce e si sdraiò sul letto con le gambe spalancate. “Vieni”, disse. Strappò con i denti la confezione di un preservativo. Mi sdraiai accanto a lei, tenero, piccolo, fragile. Avevo gli occhi pieni di lacrime. Lei le ignorò. Con le sue lunghe dita sacre mi accarezzò il cazzo. “Bravo, così”, disse. Il preservativo era già sistemato. Aveva esperienza. Tornò a sdraiarsi sulla schiena e mi tirò verso di lei. Con la mano mi diresse il cazzo all’ingresso della sua fica piena di vaselina. “Forza, tesoro”, disse con una strana vocina acuta.

Non mi guardò mentre la penetravo. Era assente. Stavo scopando solo il suo corpo. Non ero nient’altro che un cliente. Scoppiai in lacrime e contemporaneamente venni.

“Ecco fatto”, disse. “Adesso al tuo trionfante ritorno dai tuoi amici intellettuali nel tuo paese potrai almeno dire che ti sei scopato la ragazza più bella di Genova”.

...

A proposito, hai del lubrificante? Ne avrai bisogno, credimi. Altrimenti te ne presto un po’ io per stasera. Scusa se non abbondo ma nelle serate con tanto lavoro, venerdì e sabato, se ne finiscono tubi interi e quella roba è piuttosto cara. Siediti, ti faccio il trucco. Intanto imbottisciti il reggiseno. Non risparmiare sul cotone, mettine un po’ di più. Vuoi guadagnare o no? E adesso la parrucca. Davvero magnifica. Sembrano capelli veri, morbidissimi. E ti sta a meraviglia. Ecco fatto. Vieni. Guardati allo specchio. Cosa vedi?”.

“Giulia”, dissi con una strana vocina acuta.

“La ragazza più bella di Genova” >>.

 

Un lavoro di specchi che non è più quello del bar col quale comincia il romanzo. Rammento, ammesso che c’entri qualcosa un gioco di specchi che magari è solo nella mia testa, che "il" e non "la" Superba era un cinema-teatro facile all'avanspettacolo che si trovava appena sopra l'allora arci-famosa via Prè.

A cura di Carlo Romano

“Fogli di Via”, luglio 2020