le voci che corrono

congedarsi dal mondo

>Marzio Barbagli , Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, il Mulino, Bologna 2009

Il peggiore di tutti i peccati o la massima espressione di libertà, una vendetta privata nei confronti di chi ci ha fatto torto o un'arma potente contro i nemici del proprio popolo, la difesa dell'onore di un eroe sconfitto o l'atto di fedeltà di una sposa virtuosa verso il marito defunto: sono alcuni esempi di motivazione al suicidio e dei significati attribuiti a questo gesto nel corso dei secoli da parte di uomini e donne appartenenti a culture diverse. Nel volume Barbagli ricostruisce l'andamento dei tassi di suicidio in Europa, India, Cina e Medio Oriente, componendo un grande affresco storico comparato che privilegia gli aspetti culturali e fa emergere le differenze tra Oriente e Occidente. Nel mondo occidentale il cristianesimo introduce un fortissimo vincolo etico all'"omicidio di se stessi", finché a partire dal '600 comincia a farsi strada una nuova concezione dell'individuo che via via scardina tale freno. In Asia si registra invece una pluralità di forme di suicidio che vanno dagli elaborati riti del "sati" indiano al suicidio "per far male agli altri" di cui è ricca la storia cinese. Il diffondersi in epoca moderna di forme di autoimmolazione aggressiva - dal monaco buddhista che si diede fuoco a Saigon nel 1963 alle missioni suicide di Hezbollah - segnala infine un'inedita combinazione tra elementi culturali tradizionali e nuove forme di lotta politica. Marzio Barbagli insegna Sociologia nell'Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni con il Mulino: "Sotto lo stesso tetto" (II ed. 2002), "Omosessuali moderni" (con A. Colombo, II ed. 2007), "Immigrazione e sicurezza in Italia" (2008).

l’editore

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dall’Introduzione (5. Una pluralità di cause, pagg. 16 e ss.)

Due fattori cruciali, di natura assai diversa, hanno influito sulla formazione della teoria durkheimiana: il timore che la società dei paesi europei si disgregasse e il desiderio che la sociologia ottenesse il pieno riconoscimento del mondo accademico. Il primo ha portato a considerare il suicidio come un sintomo di patologia sociale, il secondo a spiegarlo solo con (alcune) categorie sociologiche e a ignorare il contributo delle altre scienze umane. Si tratta di due limiti di impostazione seri, che è necessario superare. Quello che cercherò di dimostrare nei primi tre capitoli di questo libro, analizzando i mutamenti avvenuti negli ultimi quattro secoli nei paesi occidentali, è che l’aumento del numero di morti volontarie che ha avuto luogo fino all’inizio del Novecento non è dovuto soltanto, né principalmente, a processi di disgregazione sociale. D’altra parte, è sempre più evidente che non è possibile giungere a una spiegazione esauriente del perché ci si toglie la vita senza tener conto dei risultati delle ricerche condotte dagli storici e dagli antropologi, dagli psicologi e dagli scienziati politici. Forse più ancora di altre azioni umane, il suicidio dipende da un gran numero di cause, psicosociali, culturali, politiche e anche biologiche e deve essere analizzato da angolazioni assai diverse.
La teoria durkheimiana si serve solo di alcune categorie sociologiche, quelle strutturali, mentre trascura quelle culturali. Così, considera il suicidio egoistico come prodotto da un’unica causa strutturale: la mancanza di integrazione. Spiega quello anomico con l’assenza di tali norme, non con il loro contenuto. Riconduce invece quello altruistico, oltre che a una causa principale (l’eccesso di subordinazione) anche a una secondaria: la presenza di norme. Ma in questo caso, vede gli individui come esseri passivi, assolutamente dipendenti da queste norme: un’idea oggi difficilmente accettabile.
Come ho già detto, alcune variazioni del tasso di suicidio verificatesi nell’ultimo secolo sia nei paesi occidentali che in quelli orientali, così come le differenze che si registrano per tale tasso fra certi gruppi sociali, possono essere spiegate con le due variabili durkheimiane, il grado di integrazione e quello di regolamentazione. Tuttavia, la tesi che sosterrò in tutto questo libro è che i fattori che maggiormente hanno influito sulla frequenza dei diversi tipi di suicidio sono culturali, sono cioè il patrimonio di schemi cognitivi e di sistemi di classificazione, di credenze e di norme, di significati e di simboli dei quali dispongono gli uomini e le donne.
Questo patrimonio varia nello spazio e nel tempo. Fra paesi e periodi storici, oltre che fra gruppi sociali, vi sono delle differenze nei repertori culturali che definiscono e limitano la gamma di scelte possibili degli individui riguardo al suicidio. Gli aspetti più rilevanti di questi repertori mi sembrano quattro: le intenzioni di chi si toglie la vita, il modo in cui lo fa, il significato che lui e gli altri attribuiscono al suo gesto, i riti che vengono celebrati prima e dopo che questo è stato compiuto.
Riguardo alle intenzioni, mentre il suicidio egoistico è previsto da tutti i repertori (pur essendo giudicato in modo assai diverso), gli altri tre tipi (altruistico, aggressivo e arma di lotta) sono contemplati solo da alcuni di essi. Alcune culture, inoltre, considerano certe forme di morte volontaria più nobili di altre e le riservano (o quanto meno le considerano più adatte) a determinate persone definite in base all’età, al genere, allo stato civile e al ceto o alla casta a cui appartengono.
Per il modo, è bene distinguere fra i mezzi e la scena. Il numero dei sistemi per togliersi la vita è illimitato. «Dovunque volgi lo sguardo – diceva Seneca – vedi la fine dei mali. Vedi quel precipizio? Da lì si scende verso la libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? Là in fondo si trova la libertà. Vedi quell’albero stentato, inaridito, sterile? Da lì pende la libertà. Vedi la tua gola, il tuo collo, il tuo cuore? Sono vie di fuga dalla servitù». Ma ogni paese, ogni periodo storico e ogni gruppo sociale ha le sue preferenze. Quanto alla scena, mentre in certe culture il suicidio è un atto privato, compiuto in solitudine e in segreto, in altre esso può aver luogo anche in pubblico, alla presenza di decine o di centinaia di testimoni.
I significati attribuiti all’atto possono riguardare sia le cause sia gli effetti. A seconda delle culture, la morte volontaria è spiegata riconducendola a fattori sovrannaturali oppure naturali, a un evento drammatico e allo stato d’animo di chi si è tolto la vita oppure alle azioni di qualcun altro che lo ha spinto a farlo. Quanto alle conseguenze, in alcuni luoghi e periodi storici il suicidio è considerato fonte di disastri e di sventure, in altri come un evento felice, capace di attribuire a chi lo compie poteri straordinari, in altri ancora un fatto non troppo diverso dalla morte naturale.
Alcune culture prevedono dei riti prima del compimento dell’atto, che possono coinvolgere in varia misura i familiari, i parenti e i conoscenti di chi vuol togliersi la vita e talvolta le persone più autorevoli della comunità a cui appartiene. Più spesso, tuttavia, i riti vengono celebrati dopo l’atto e sono molto diversi, a seconda delle culture. In alcune, il corpo di chi si è tolto la vita viene trattato con deliberata brutalità e sottoposto a un processo di disumanizzazione, in altre invece è celebrato e glorificato da centinaia o da migliaia di persone, in altre ancora viene inumato di nascosto e in silenzio, da pochi familiari, quando è scesa la sera.
Uno dei modi in cui la cultura può influire, in presenza di molte altre condizioni, sulla decisione di un individuo di togliersi la vita passa attraverso le emozioni che egli sente. La tristezza, la rabbia, la paura, la vergogna, il disgusto e la gioia sono sentimenti universali, che tutti gli esseri umani, in ogni società e periodo storico, hanno provato. E tuttavia la cultura condiziona sia l’espressione che la produzione di emozioni. Riguardo alla prima, vi sono norme sociali che indicano chi, in quali occasioni e con chi può mostrare una emozione (ad esempio, nei concorsi di bellezza, solo la vincitrice può piangere, mentre le perdenti devono sorridere). Quanto alla seconda, l’influenza della cultura può avvenire di nuovo attraverso le norme sociali che ci dicono cosa bisogna provare o non provare in determinate situazioni. Ma passa più spesso attraverso un meccanismo più semplice e sottile. L’emozione nasce da un processo cognitivo e valutativo. A suscitare in noi tristezza o gioia non è solo una situazione o un evento, ma il significato e il valore che gli attribuiamo. Di fronte allo stesso fatto, due persone appartenenti a culture diverse e con scopi, interessi e desideri diversi provano emozioni diverse (la comparsa di una vipera suscita paura nella gente comune, ma soddisfazione e gioia fra gli erpetologi).
Anche i fattori politici hanno una grande importanza. I rapporti di forza, le interazioni e i conflitti fra chi dà ordini e chi è tenuto a eseguirli, il potere di azione e quello di minaccia, hanno influito in più occasioni sulla formazione dei repertori dei modi di vivere e di morire. Spesso, nei paesi e nei periodi storici nei quali la vita degli uomini e delle donne apparteneva a un signore, il suicidio è stato condannato. D’altra parte, ci si è tolti la vita non solo per gli altri, ma anche contro di loro. Come vedremo, lo si è fatto talvolta nei conflitti personali, per far dispetto a qualcuno, per punirlo, per vendicarsi di lui. Ma, talvolta, questo è avvenuto e avviene per cause collettive, contro un gruppo e a favore di un altro, quello di cui si fa parte o con il quale ci si identifica. Suicidi di questo tipo nascono per lo più da particolari situazioni politiche, caratterizzate spesso da una differenza di religione fra le due parti in lotta e sempre da una forte asimmetria nei rapporti di forza esistenti fra loro, e vengono usati dai più deboli per cercare di colmare lo svantaggio di cui soffrono.
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I fattori esplicativi finora ricordati (culturali e politici, oltre all’integrazione e la regolamentazione sociale) ci servono per spiegare le differenze dei diversi tipi di suicidio fra periodi storici, paesi e gruppi sociali, ma ben poco quelle fra gli individui residenti nello stesso paese o appartenenti allo stesso gruppo sociale. Molto più utili sono a questo fine i fattori psicologici e psichiatrici, finora piuttosto trascurati dagli studiosi di scienze sociali. [...]