Questo saggio apparve originariamente su “Il Mare”, periodico del Tigullio, il 5 Giugno 1909. Noi lo riprendiamo, da “L’Onda. Giornale di Rapallo e del Tigullio”, dove è stato ristampato nel maggio 2006 a cura di Angelo Cacciola.
Arturo
Ferretto
il processo di una strega rapallese
Lo storico Vayra si occupò nel 1874 delle Streghe nel Canavese. E’ notabile l’erudizione storico-giuridica, onde si abbellisce la dotta monografia, ed è interessante pure per la storia delle streghe in Liguria, le quali, secondo dice l’autore, si davano tutte convegno in un paesello, chiamato Ribordone, nella località, che tuttora ha conservato il nome di Pian delle Streghe.
La Serenissima di Genova non mancava di perseguitarle e di farle abbruciare sulla Piazza di Banchi. Il 9 dicembre 1446 Il doge Raffaele Adorno ingiungeva al vicario di Portomaurizio di rimettere nelle mani dell’Inquisitor d’eresia insignem magam, chiamata Romea Baiardona, presa dal podestà di Taggia. Contro le streghe però mostrassi assai più rigoroso il governo nei tempi ch’era soggetto a Luigi XII di Francia, si come evincesi da un atto del 5 luglio 1505, fungendo allora da inquisitore contro le stregonerie un figlio di Zoagli, il padre Stefano Piaggio, degli Eremitani di Sant’agostino.
Il 6 luglio 1630 il magnifico Emmanuele dei signori di Passano, capitano di Rapallo, scriveva al Senato di Genova:
“Hieri mi capitò alla porta una povera donna, che va di continuo cercando limosina e mi fu detto che essa è una strega. Io per curiosità la feci chiamare, menassandola di farla porre nelle carceri; allora essa, ancora che non si poteva movere, si pose a fugire, e fu trattenuta. Mi vennero molte persone a dire che questa tale è reputata per strega comunemente, che mi parse farne qualche diligenza et ho trovato due che mi hanno detto che le sono stati guasti ad ognuno di loro doi figliuoli, e che tengono per sicuro che sia stata questa, onde mi parve bene di farla porre in carcere, acciò ve paresse di farlo penetrare al P. Inquisitore, se no ordinarmi quello doverò fare.”
Quella povera mendica che, non potendo muoversi, ebbe ancora tanta forza di fuggire, e che fu tosto acciuffata, quella voce pubblica popolare, che insorge ed accusa, quell’accozzaglia di particolari, scritti dalla prima autorità del capitaneato, fece ben tosto breccia nel cervello del Doge e dei Governatori di Genova, i quali, radunatisi d’urgenza, con messaggio del 10 luglio intimarono al zelante Capitano di porre in chiaro se la strega avea fatto morire i bambini, e di inviare informazioni per essere nel caso consegnata al tribunale dell’Inquisizione.
Ormai il dado era tratto. Il 13 luglio il Capitano rispondeva al Senato:
“Per la strega carcerata se ne prenderà quella cognizione che si potrà. In questo capitaneato è tenuta per tale in tutti quelli luoghi dove è conosciuta e, fatto quelle diligenze che intorno a questo si potrà, ne darò subito conto”.
Inoltre con altra lettera del 18 luglio aggiungeva che la donna Catterina, ossia Manola, detta la Cagna Corsa, è realmente maga e incantatrice, stante i rapporti presentati da persone degne di fede, e che per conseguenza il bargello Giannettino Crocco e il famiglio Angelo Oliva la portarono legata nelle carceri del castello.
Si cominciò ad istruire il processo. Siamo nel salotto del molto Illustre Capitano e corre il 23 luglio. Sfilano i testimoni e si esamina per la prima la venticinquenne Brigidina, moglie di Bartolomeo Cagnone. Così canta:
“Di Gatturiga detta la Cagna Corsa io vi dico che per Rapallo è schivata et è tenuta publicamente per una strega et una volta mi domandò della sale, e perchè non li ne volsi dare mi disse al vero rendere, et allora presi sospetto che mi dovesse far qualche affronto alli miei figlioli piccolini, una dei quali mi è morto quindici anni sono, perchè nacque grametto”.
Più curiosa e la deposizione del trentenne Giusepe Arata, fatta lo stesso giorno. E racconta:
“Il giorno di san Bartolomeo che fu alli 24 agosto dell’anno 1628 che fu giovedì capitò a casa mia in la mia villa di san Pietro Cattarina, detta la cagna Corsa, la quale vidde mia moglie nella sua porta, che aveva un suo figliuolo in braccio d’età di mesi cinque benissimo allevato e detta Cattarina mi disse se era maschio o femmina, ed io che intendeva che era una strega, è un cancaro che ti mangi, dissi , et essa stette in piedi e si mise a dire o figliuol mio non dubitate, non dubitate che sebene dicono che sono una stria, non è vero, e poi se ne andò per fatti suoi, e da detto tempo in qua non è mai più comparsa in quelle parti. Alla domenica seguente io me ne andai a messa e al dopodisnare, essendo andato a spasso, mi fu detto che il mio figlietto era morto che mi parse molto strano: andai subito a casa e trovai detto mio figlio morto e lo disfasciammo e trovammo che aveva in tutte le coscie segni neri della forma di due mani e segni della forma del dito grosso arrivavano sino sotto la pancia. Subito mi fu detto che erano state le strie che avevano guasto detta creatura e soltanto posso sospettare in detta Cattarina, perchè da quel tempo in qua quando mi vedeva si metteva subito a fuggire et ho inteso dire pubblicamente che ne abbi guasto delli altri e che sia una strega”.
A questa deposizione schiacciante segue quella del trentenne Nicolò Multedo, ed è del seguente tenore:
“Ponno essere circa quattro anni, e lo saranno a Carnevale, che Cattarina, detta la Cagna Corsa, venne a casa mia a san Pietro, mentre che io non ero in casa, et vedendola Angeletta mia moglie nella porta, non voleva che entrasse in casa, et essa volle entrare: quando fu in casa disse a detta mia moglie quello la è il vostro fante? et essa mia moglie le disse che non sapeva cosa si fusse e poi detta Cattarina domandò a detta mia moglie delle castagne e delle fiche, e le disse che non ne aveva, e poi addimandò dell’olio chiaro et essa mia moglie le disse che non ne aveva e detta Cattarina le replicò o no averete bene si et essa mia moglie le disse che l’avea bollito, et essa gli disse che glielo desse come era e detta mia moglie le disse che andasse a prenderselo in una ramara che era ivi, e così andò, e se ne prese quando volle per empire un doglio che aveva, e poi se ne andò via et andandosene disse a mia moglie tu facevi meglio a darmelo chiaro, e questo segui al martedì, e poi detto mio figlietto che era di un mese e dieci giorni stette sempre male da due ore dopo che fu partita detta Cattarina, et all’indomani che era mercoledì, mentre mia moglie lo fasciava, a tre ora di notte le uscirono tre stizze di sangue dal naso, e tre stizze le caderono dalla bocca e subito morse che alcuno non se ne accorse e poi facessimo diligenze per vedere cosa aveva avuto, trovammo che aveva delli segni neri nella gola che pareva le fusse stato messo una mano e io non posso sospettare salvo in detta Cattarina, perchè si tiene pubblicamente che sia una strega perchè disse a mia moglie quelle parole che sopra ho detto”.
Si noti la strana coincidenza del numero tre. Tre furono le cose richieste dalla strega, castagne, fichi ed olio, tre le goccie di sangue, ed il bambino morì alle tre ore di notte e per di più il terzo giorno della settimana!
Il processo fu sospeso, tanto più che il Capitano era affaccendato per preparare un degno ricevimento al Cardinale di Santa Cecilia, trasmesso legato a latere della Regina d’Ungheria, il quale 25 luglio giunse a Portofino, ove il nostro Capitano andò a complimentarlo, fermandovisi quattro giorni.
Il processo fu ripreso il 10 agosto, giorno di sabato: si apre la seconda udienza e comparisce Vincenzo Amandolesi, ed afferma che nella prima cappella di san Pietro, il giorno di Natale dell’anno passato, la Catterina guastò un figlioletto di quattordici mesi ad una sua figlia. Anche Massimo Costa giura che aveva dato a mama, cioè a balia, una sua figlioletta a san Pietro; la quale un giorno fu trovata colla bava alla bocca.
Sua moglie, sospettando del malocchio “mandò a chiamare Catterina detta la Cagna Corsa, la quale le fece rispondere che non voleva andare perchè sapeva quello voleva, e poi fece portare detta foglietta qui a Rapallo in casa nostra e si fece chiamare il Padre Spirito di sant’Agostino, il quale le lesse l’Evangelio e li disse che stimava che fusse stata guasta dalle strie e de ivi sei o sette ore in circa se ne morse”.
L’11 agosto 1630, giorno di domenica, il Capitano riprende l’audizione dei testi tra i quali Meneghino Vernazza d’anni 47 dice che li anni passati morì un suo figlioletto “che venne nero subito e dopo morte vomitò certe cose nere e tutti stimorno che fusse stato guasto dalle strie”. Presentasi pure Marietta, moglie del Massimo Costa, la quale conferma la deposizione del marito, e, calcando la dose, aggiunge che appena morta la sua figlia stregata
“venne nera nel petto, nel collo e nella gola e aveva le gambe una più curta che l’altra ed è sicura che fusse detta Cagna corsa che guastasse detta mia figlia tanto più che una volta, essendo dal pontetto della Muretti in compagnia della mia fantesca, trovammo detta Cagna corsa e dicessimo fra noi che si diceva che era una stria et essa ne senti e ne diede una guardata”.
Con un sospiro di gioia il Capitano dichiarò chiusa l’udienza, e l’indomani in plico chiuso coll’impressione in ceralacca del suo sigillo, trasmise al Senato il processo avendo cura di aggiungere nella lettera di trasmissione che la strega non mancava di essere grandemente indiziata di aver guasto molti figliuoli, e che per conseguenza attendeva ordini dall’autorità superiore.
Il 30 agosto il Senato rispondeva al Capitano di Rapallo:
“Si sono viste le informazioni da voi prese contro la Cattarina detta la Cagna corsa inviateci con la vostra del 12. Vi diciamo che restando il suo delitto soggetto allo Statuto criminale Cap.10 sotto la Rubrica De Veneficiis, tirate innanzi questa causa terminandola con giustizia”.
Da questo punto mancano le notizie della strega nelle corrispondenze del Senato, da cui tolsi questa messe preziosa. L’ultimo responso però è chiaro, giacchè la pena, comminata alle avvelenatrici dallo Statuto criminale, allora vigente, consisteva nel rogo; e certo la povera Cagna, proveniente forse dalla Corsica, e che per parecchi anni avea bazzicato per le gaie pendici di san Pietro di Novella, seguì il destino di tante altre colleghe, e, portata in Genova, fu arsa viva sulla Piazza di Banchi, accrescendo in tal modo il numero delle tristi vittime della superstizione d’allora.