Andrea Cortellessa

monumento al nulla

Per ovvi motivi, mandano in sollucchero il Signor Jourdain tutte le mésalliances fra poesia e prosa. Pensa che poche citazioni siano oggi più fraintese di quella di Leopardi sulla «prosa nutrice del verso». Legioni di verseggiatori da dozzina la brandiscono per coonestare i loro a capo senza costrutto: la poesia, sostengono continuando a equivocare, deve «andare verso la prosa». A Jourdain pare vero il contrario, piuttosto: che la prosa abbia solo da guadagnare, imparando dalla poesia il senso della forma e anche, quando serve, il senso del suo abbandono.

Pochissimi autori contemporanei quanto Mark Strand, nato nel 1934 in Canada ma statunitense d’adozione – e forse, dopo John Ashbery, il più «europeo» dei poeti americani – sanno lavorare su questo doppio versante. Non sarà un caso che sia egli, appunto, buon lettore di Leopardi. Diversi suoi piccoli e miracolosi libri sono raccolte di prose brevi: operette morali, calibrate in ogni minimo dettaglio, alla stregua di piccoli e nitidi canzonieri. Quella ora uscita da Fandango, nella traduzione del fedelissimo Damiano Abeni con Moira Egan (pp. 131, € 14,00), Il Monumento, risale al 1978 e, a dispetto di quanto sostenuto da Carlo Carabba, reca in pieno le stimmate del postmodernismo di quegli anni: all’insegna della finzione, del labirinto intertestuale e del gioco di specchi metalinguistico. L’esile libro si presenta infatti come un abbozzo di testo lasciato incompiuto da un autore del passato, che in esso si rivolge al proprio traduttore a venire (il quale vi aggiunge parche note a pie’ di pagina). «Il primo dei poeti postumi» (questa l’autodefinizione, dello stesso anno del Poeta postumo di Franco Cordelli: altro postmoderno mistificatore tra poesia e prosa) è colui che si presenta autore del Monumento.

Ha ragione però Carabba a indicare il germe del testo nell’ode 30 del III libro di Orazio, che Jourdain – come tutti – vagheggia dai tempi del Liceo (Exegi monumentum aere perennius, con quel che segue). Tanto più che il tema torna spesso, nell’opera di Strand: in un’altra suite di prose, L’alfabeto di un poeta, curata sempre da Abeni per l’Obliquo nel 2001, figura una voce Immortalità. Ma sia Il Monumento che L’alfabeto postulano il contrario, rispetto a Orazio. Se questi proclamava fiero Non omnis moriar, il poeta di duemila anni dopo sa che è vana pretesa, questa del singolo. Immortale è semmai la poesia nel suo complesso: che di secolo in secolo ripete, in un gioco di specchi appunto, gli stessi temi, le medesime posture, persino le identiche parole. «Sì», conclude l’Alfabeto, «ma questa è immortalità, o solo un modo pieno di significato d’esser morti?». La domanda, ovviamente, è retorica. Il Monumento è un «Demonumento» (allo stesso modo che «Denarrazioni» definisce, Strand, le sue), poiché «Nulla è il destino di chiunque, è ciò che abbiamo in comune reso muto». A parlare sono semmai le citazioni, le sottili palinodie cui sono costretti Borges e Whitman, Shakespeare e Wordsworth, Nietzsche e Unamuno. Forse il solo preso davvero per il suo verso è il maestro a Strand più caro, Wallace Stevens: «Nulla deve frapporsi / tra te e le forme che assumi / quando la crosta della forma è stata distrutta».

Il Monumento di Strand esprime il paradosso di una permanenza dell’impermanente; è una statua che ha perso la forma di chi l’ha ispirata, che ha anzi la forma del suo decomporsi, del «de-formarsi delle ossa in polvere». Anziché pretesa di immortalità è segno di un’inscansabile, irrecusabile mortalità: quella di noi tutti.