Caterina Ricciardi

a proposito di Tutte le poesie di Wallace Stevens

Confidando sulla sola memoria dell’effervescenza dei suoi versi, stupisce notare come la biografia di Wallace Stevens registri i passi di una esistenza (1879-1955) incolore, povera di grandi eventi, discreta nelle emozioni, estranea – se non per la timida e giovanile esperienza newyorkese – alle luci del pubblico interagire poetico nei circoli dove, fra America e Europa, nel primo ventennio del Novecento si decisero i destini della poesia modernista. Lo mostra bene Massimo Bacigalupo nella pur intensa “Cronologia” che, con l’effervescente “Introduzione” (“Uno o due Martini e poi astice in umido”), apre l’accesso a Tutte le poesie del poeta di Hartford (Connecticut), ora disponibili per il lettore italiano in un corposo, e magistralmente curato, Meridiano di Mondadori, accresciuto, rispetto all’edizione ufficiale dei Collected Poems (1954), da parti degli Adagia e altri materiali di Opus Posthumous (1957).

Cronologia intensa, sì, ai fini del rendiconto di una carriera poetica accuratamente chiosata, e – di coté – di minuti dettagli di vita “ordinaria” (parola che piace a Stevens), spesa lungo i ritmi della routine lavorativa di tutti i giorni (come avvocato presso una compagnia di assicurazioni); di un ménage famigliare in apparenza senza scosse, condiviso con la moglie, Elsie, e la figlia Holly, giunta tardi nel matrimonio, un po’ ribelle nell’adolescenza, ma poi amorevole custode dell’eredità paterna; una vita vissuta, infine, lungo la consueta vicenda stagionale: inverno, primavera, estate, autunno. Proprio così, banalmente e ciclicamente: le stagioni, nelle loro differenze umorali, coloristiche, sceniche, esistenziali, generatrici di esuberanza solare o di mera nudità del reale. Non si pensi a nostalgie, o inclinazioni bucoliche, in Stevens, piuttosto a un rispecchiamento empatico di atmosfere climatiche e la vita della mente. Una “visione non ufficiale dell’esistere”, egli definì la poesia in The Necessary Angel (1951), rispetto alla “visione ufficiale dell’esistere” di pertinenza della filosofia (L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, trad. di Gino Scatasta, Milano, Se, 2000, pp. 42-43). E, di contro all’ufficialità biografica, del suo “esistere” in versi, della sua vita pensante, in questo volume dà conto un denso “Commento” (oltre 200 pagine) che, con la traduzione, costituisce il primo completo e fondamentale contributo italiano alla storia di un poeta canonizzato come ‘difficile’ (ma è giusto ricordare anche gli altri ‘stevensiani’: Renato Poggioli, Glauco Cambon, Nadia Fusini).     

Era un uomo di parvenze ordinarie, il corpulento Stevens, un dandy in maschera travet, quasi egli stesso un umile shearsman of sorts (termine raro per indicare una specie di “sarto”), come il suo The Man with the Blue Guitar (1937), intento ai mutamenti delle “cose come sono” ma per le vie dell’occhio metamorfico – e del suono – dell’immaginazione. Quest’ultima, accompagnata all’estro delle stagioni, nutre la vita segreta di Stevens, uomo di provincia e di affari, devoto osservante del pragmatismo americano (uno dei suoi maestri è William James), che però nei suoi versi (ecco il sorprendente) del comune ordinario rifletteva ben poco, veramente poco: nello sguardo al mondo, nel pensiero, nella scrittura, nel rapporto con l’eredità poetica e nella provocazione edonisticamente estetica, soprattutto durante la fase iniziale, quella di Harmonium (1923), la più acrobatica e piroettante.

Postura davvero dirompente nei primi anni del Novecento in America – dove per interpretare quella parte era necessario emigrare –, tanto più per uno nato in ambiente puritano, da famiglia di lontane origini germanico-olandesi di professione luterana, radicate nella Pennsylvania rurale, e teso invece, egli, Stevens, nel corso della sua esistenza d’artista, a rovesciare gli universi consegnati dalla tradizione e inseguire la fede in una rutilante divina ‘commedia’ della “terra”: non del “cielo”. Un suo eterodosso neo-umanesimo americano. “Nota: la sua terra è l’intelligenza dell’uomo. / Così è meglio, scoprirlo valeva una traversata” (di Colombo?), si legge a metà strada di The Comedian as the Letter C (1922), il suo primo poemetto di sostenuta lunghezza (573 versi), a correzione della giocosità dell’incipit, ironicamente consenziente al dettato di un Dio che delega – si fa per dire – la sua sovraintendenza sul mondo: “Nota: l’uomo è l’intelligenza della sua terra / il fantasma sovrano. In quanto tale, il Socrate / delle lumache, musico delle pere”.  

E quale giorno più sacramentale per restituire il mondo all’uomo (non al “fantasma sovrano”) se non il giorno dovuto al Signore? “Detesto l’aspetto di una Bibbia”, annota Stevens nel suo diario del 1907, “Mi fu data per essere andato a scuola di religione tutte le domeniche dell’anno. Sono contento di essermi liberato di quella scempiaggine” (cfr. “Cronologia”, p. lxvi). Il gesto – che ha del teatrale, perché finge un’improbabile libertà genetica da quel cibo – si poetizza in termini seri qualche anno dopo. In Sunday Morning (1915), il peana apollineo di otto stanze in versi sciolti che segna il primo culmine degli anni di esordio, una donna nel suo “peignoir” indugia al sole mentre consuma una tarda (eucaristica) colazione: caffè e arance composte in natura morta si coniugano paganamente con “la libertà verde di un cacatua / sul tappeto” per “dissipare / il sacro silenzio del sacrificio antico”, compiuto un tempo in Palestina (le sibilanti più aspirate nel nodo accentuante sono nell’originale: “to dissipate / The holy hush of ancient sacrifice”). È voluttuosa disobbedienza all’osservanza religiosa, provocazione blasfema, perseguite in un sensualismo alla Matisse, in cui si insinuerà, tardivo come la colazione, il rimorso della trasgressione. Intanto, si chiede:

Perché dovrebbe dare le sue ricchezze ai morti?

Cos’è la divinità se giunge solo

nei sogni o in ombre silenziose?

Non troverà forse nei conforti del sole,

in frutti fragranti e ali verdi, luminose,

o in ogni balsamo e bellezza della terra

cose da amare come il pensiero del cielo?

La divinità deve essere viva in lei:

passioni di piogge, affetti di nevicate …

 

Sette punti di domanda drammatizzano in toni problematici la meditazione sul senso del sacro “sepolcro” e cinque volte ci viene ricordato il “paradiso” che esso ha restituito. Una grande tentazione. La rêverie di Domenica mattina rischia il naufragio sulle secche del ravvedimento. È la ricchezza solare del mondo (“Viviamo in un antico caos del sole”) a decretare, per Stevens, il superamento del Cristianesimo (come di altri miti religiosi), e della promessa di un paradiso imperituro che non può che darsi come ‘non umano’, non naturale, un’immortalità in cui il frutto maturo non cadrà mai dall’albero, e non sarà mai consumato (c’è l’ombra di Milton qui fra le quinte). “Death is the mother of beauty”, sentenzia il poeta che riporta la mente della sua ‘peccatrice’ all’esperienza dei sensi, alla mutevolezza del reale e all’elogio della terra, quali giuste “misure” e retribuzioni per la sua “anima”, cui s’addice di incurvarsi verso i suoi aneliti come nel volo “con ali estese” di un uccello che si immerge giù nell’oscurità. “La morte è madre della bellezza: dunque solo / da lei verrà il compimento dei nostri sogni / e desideri”. Senza l’ombra della morte, della precarietà, come insegna l’andamento stagionale, non c’è desiderio da inseguire o sogno da realizzare, attesa di primavera, parabola vitalistica da conchiudere: un subdolo sovvertimento del disegno intarsiato, e per sempre marmorizzato nella sospensione, sull’“urna greca” di Keats. 

“La poesia, madame, è la finzione suprema. / Prenda la legge morale e ne faccia una navata / e da questa costruisca un cielo di fantasmi. / Così la coscienza è convertita in palme”. E così gnomicamente si apostrofa il personaggio eponimo di A High-Toned Old Christian Woman (1922). Le “palme” della coscienza (si evince per gradi a conferma della proverbiale “oscurità” di Stevens!) sono quelle che, in un’altra domenica, salutarono l’entrata di Gesù a Gerusalemme e, poco oltre, quelle più impudenti della “nostra licenziosità” come espressa in una masque recitata in una terra calda (la Florida ?) al suono carnevalesco dei ritmi jazz che azzittiscono gli inni delle cetre: è “convertita” (anche in senso religioso), la nostra licenziosità, “in palme, / sguscianti come sassofoni” (“Squiggling like saxophones”).

Al di là del nuovo gesto di irriverenza, un passo cruciale e non giocoso nel divenire poetico di Stevens, nasce qui – nel confronto con l’“arcigna” signora del titolo, e nei confronti stridenti che le pone – l’idea, dominante nello Stevens più filosofico degli anni a venire, della poesia come massima “finzione”, degna di sostituire – e in meglio perché essa centra nell’uomo la “divinità” – tutte le antiche finzioni che questi ha ricevuto, incluso il Cristianesimo. Una rielaborazione più assolutistica (e più da poeta) delle teorie espresse dal filosofo George Santayana, maestro di Stevens a Harvard, in Interpretations of Poetry and Religion (1900), l’opera che lo avvia verso letture filosofiche sempre più elaborate. Dismesse le religioni canoniche (e Stevens, figlio di puritani/luterani, deve farlo se vuole riconoscersi poeta della vita e della terra), in quanto anch’esse fiction, è necessario spostare la propria religiosità, la propria – e degli altri – possibile salvezza, nella poesia che è capace di “intervenire nella vita” (Santayana), mitigandone il disordine, e conferendole senso e “piacere”. “Voglio ribadire”, scriverà Stevens nel saggio “The Noble Rider and the Sounds of Words”, raccolto nell’Angelo necessario, “che il ruolo del poeta è quello di aiutare gli altri a vivere la loro vita. Egli ha avuto una parte immensa nel dare alla vita quel po’ di sapore che ha. Ha avuto parte in tutto ciò che i sensi e l’immaginazione hanno ricavato dal mondo. In effetti ha avuto parte nella vita stessa” (op. cit. p. 34).

Un poeta come Stevens, che si propone di intervenire nella vita offrendo festose “novità del sublime”, può in effetti “provocare / un gioviale guazzabuglio fra le sfere”, si legge ancora in Una vecchia cristiana arcigna e, nel restituire “palme per palme” – ma si può anche equivocare su “palms” e “psalms” –, contribuire con un “po’ di sapore” all’ordinaria esperienza della realtà. Quanto alle palme, quelle più mondane, che avranno almeno un’occasione altamente emblematica nel finale dei Collected Poems, si sarebbe portati a pensare che, fuori da ogni fiction, Stevens le abbia apprezzate nel paesaggio della Florida, impossessandosene per l’archivio del suo universo sensualmente simbolico.

La Florida segna un passaggio essenziale nelle coordinate del suo mondo poetico. Egli la visita per la prima volta nella Pasqua del 1916 (e forse l’apostrofe all’arcigna puritana non ne è estranea: cfr. i “flagellanti” in Letters, p. 193; “Cronologia”, p. lxxiv). Vi tornerà spesso nei due decenni successivi per soggiorni di lavoro e di svago. Nel 1922 così scrive alla moglie: “Il posto è un paradiso: clima di mezz’estate, cielo brillantemente terso e intensamente azzurro, il mare è di un blu e di un verde come non l’hai mai visto” (“Cronologia”, p. lxxvi). E nel 1923 da Key West aggiunge:

La bellezza di questo luogo è indescrivibile. Questa mattina il mare era oro luccicante e azzurro intenso e profondo. In seguito, quando il cielo si è rannuvolato, è divenuto verde e nero. […] Stanotte il cielo è perfettamente sgombro e la luna è piena. Le palme mormorano nella brezza incessante e, come dice il giudice Powell [un amico], anneghiamo nella bellezza. (“Cronologia”, p. lxxviii)

Nel suo rigoglio epicureo la Florida – e le Keys care a Hemingway, col quale Stevens avrà qualche battibecco – si configura come un fabliau (cfr. Fabliau of Florida, 1919), come l’alternativa ‘favolistica’ all’algida essenza del Connecticut. Ma soprattutto egli trova concretato nella sua atmosfera quel metafisico “antico caos del sole” intravisto in Domenica mattina; e nel mare i colori che, nel suo sistema simbolico, vorrà attribuire all’immaginazione e alla luna per un verso (il blu: si ricordi L’uomo con la chitarra blu) e al sole e alla realtà per un altro (il verde). La Florida interpreta per lui il paganesimo del Mediterraneo che sdegnosamente, con l’Europa, egli non volle mai conoscere, e al contempo si offre come spazio esotico e libertario, molto rispondente alla “libertà verde di un cacatua” in cui la donna di Domenica mattina si specchia. “Poche cose per sé sole, / convolvolo e corallo, / poiane e muschi pendenti, / tiestas dagli atolli, / poche cose per sé sole, / Florida, terra venerea, / dischiudi all’amante”, esclamerà il poeta in O Florida, Venereal Soil (1922), eleggendola a musa intossicante (ma “venereal” va inteso per etimologia come ‘di Venere’: un pun ardito) del suo discorso estivo che essa nutre anche lessicalmente.

The Idea of Order at Key West (1934) è l’esito più felice del rapporto di Stevens con quella terra. Egli lì trova anche l’occasione per una esemplificazione ‘narrativa’ (non “astratta”, come diventerà suo solito) della funzione “ordinatrice” e conoscitiva della poesia, da lui proiettata nel canto di una ragazza davanti alla forza ruggente del mare: “Lei cantava oltre il genio del mare. / L’acqua mai si formava in voce o mente”. È lei, in quanto figura dell’“immaginazione”, “la sola creatrice del mondo / in cui cantava. E quando cantava, il mare, / qualsiasi natura avesse, diveniva la natura / che era il suo canto, poiché era lei l’artefice”. È lei l’artefice di questi cinquantaquattro intensi versi sciolti, variamente modulati, fino a sfiorare, nella chiusa, il sonetto. È lei la divinità cosmogonica. Non c’è altro Dio alle “nostre origini”, se non la poesia, così come quelle origini si intendono discoprire. 

C’è da chiedersi perché Stevens decise, più o meno attorno al 1940, che la sua storia con la Florida – la sua Circe – doveva finire. E finire in modo tagliente. E che fosse finita davvero, mentre la nave salpa, abbandonando per sempre la sponda (“il passato è morto. / La sua mente [di Key West: l’‘amante’] non mi parlerà mai più. / Sono libero”), lo conferma, e l’annuncia come acqua passata, la posizione di antifona conferita a Farewell to Florida (non a caso allitterante, al pari del fabliau, ci ricorda Bacigalupo, “Commento”, p. 1092) nella sua seconda raccolta, Ideas of Order (1935), che esce a dodici anni di distanza da Harmonium, un vuoto, un silenzio, se non per qualche raro intervento, di cui Stevens non fornisce ragioni.

Il poeta è ormai ben oltre la soglia dei cinquant’anni e decide di far vela, come il vecchio W.B. Yeats quando scoprì che l’Irlanda “non è un paese per vecchi”. Tuttavia, Addio alla Florida segna un percorso inverso rispetto a quello intrapreso in Sailing to Byzantium, è un viaggio di ritorno a casa: dal Sud (la Florida: una Bisanzio della natura non dell’arte) al Nord – e non viceversa –, dalla ricchezza turgida della realtà alla povertà dell’essere, da un uccello sul “ramo d’oro” (Yeats) al ramo essenziale spogliato dall’inverno: “Come sarò contento nel Nord verso cui navigo / a sentirmi sicuro e dimenticare la sabbia calcinante …”. Forse anche in ragione delle problematiche sociali generate dalla Grande Depressione, Stevens è deciso a congedare il suo dandysmo retorico, a cambiare la tonalità del suo discorso sulla realtà e sul conseguente compito della poesia. D’ora innanzi, con qualche eccezione, il suo verso si farà severo, più lento e ponderato rispetto allo “stile sgargiante”, dei componimenti degli anni Venti. Egli ha bisogno ora di “scoprire // l’inverno e conoscerlo bene”, nella sua nudità, quale “portale di una conoscenza cristallina, liberata dall’inganno” (“Commento”, p. 1222), quasi come dagli inganni di una maga falsamente seduttiva.

I titoli delle raccolte di questa ripresa – Transport to Summer (1947) e The Auroras of Autumn (1950) – raccontano ancora di un viaggio stagionale, scandito in stazioni di passaggio (o meglio, ormai: stati della mente) diversamente iniziatiche verso il raggiungimento di quella “conoscenza cristallina”. Esse si propongono come più povere nella dizione, interrogative sui temi dell’esistenza e della missione della poesia, dubbiose nelle clausole ipotetiche (“As if …”). È dunque il trasporto umorale verso le astrazioni metafisiche del biancore australe (e della sua “vacancy”, il suo centro di assenze), e delle illuminazioni incandescenti delle aurore boreali, a incurvare la mente nell’attività meditativa. Il poeta vaglia e rivaglia i suoi crucci ontologici, i doveri affidati all’immaginazione, cui si chiede ora di intervenire nella vita per azzerarla e permettere un nuovo inizio, spogliarla – come fa l’inverno con il ramo frondoso – di tutte le metafore morte, le costruzioni mitiche, e svuotarla (de-crearla) fino ad astrarre dalla sua nudità l’“idea primigenia” dell’essere nel mondo e dell’essere nel tempo.

È questo il compito arduo che inizia a porsi il poema Notes Toward a Supreme Fiction (1942): “annotazioni” verso la definizione della “finzione suprema”, della quale il poeta sa per certo che “deve essere astratta”, “deve cambiare”, “deve dare piacere”, e avrebbe dovuto essere infine “umana” (“It Must Be Human”) nel progetto originario, lasciato forse volutamente incompiuto, quando la definizione di quell’idea si sottrae alla mente come un “enigma” (così ammetterà Stevens in una lettera), o come cosa ancora custodita da un “angelo” annunciante che procrastina la consegna del messaggio epifanico, ma che, materializzandosi alla fine delle Note, indica la via: “Trovare il reale, / spogliarsi d’ogni finzione tranne una, // la finzione di un assoluto. Angelo, / taci nella tua nube luminosa e ascolta, / la melodia luminosa del suono giusto”.

Bisognerà tuttavia attendere Angel Surrounded by Paysans (1950) per accorgersi che l’angelo ‘immaginato’ è l’angelo “della realtà”, spoglio di “abito smagliante”, visto e non visto nella sua fugace apparizione. È “l’angelo necessario della terra, / perché, nel mio vedere”, egli annuncia ai paesani, “vedete la terra nuovamente, / spoglia della sua dura e ostinata maniera umana”. La “finzione suprema” confluisce, forse, nel dono della persona dell’angelo al mondo desiderato, o immaginato, da Stevens: il suo Graal. La quête passa per le Note, riconosciute come il vertice di una carriera poetica e, ahimè, anche come il capolavoro che, pur godibile in molte parti per virtuosismi modali e scenette pseudo-pastorali (i corali filosofeggianti degli uccelli), è sentito come il meno accessibile sul piano della fruizione concettuale, una difficoltà più felicemente superata invece in composizioni che, nella stessa vena, risolvono meglio l’impasse conoscitiva: Esthetique du Mal (1944), The Auroras of Autumn (1948) e la glaciale e trionfante An Ordinary Evening in New Haven (1949). Spesso, e tanto più nel caso delle Note, non c’è modo migliore per leggere Stevens che quello di non porsi troppe domande e non cercare risposte. Può servire, tuttavia, ricordare che, al di là delle difficoltà poste da un progetto in elaborazione (si tratta di appunti, note), arditamente e “in senso lato la suprema finzione è una rifondazione della conoscenza, una nuova ateologica visione del mondo” (“Commento”, p. 1187).    

Rifondare, ritornare all’inizio (alla realtà), e sciogliersi dalla mischia. Stevens si tiene in guardia dagli echi della tradizione; ascolta e apparentemente dimentica (o riassesta) la parola dei suoi sodali (al verso libero egli preferisce la fedeltà al blank verse); si mette al riparo dalle lusinghe del nobile orchestrante in una nobile orchestra, e negli ultimi anni confesserà di essersi astenuto dal leggere T.S. Eliot (e gli altri) per non esserne influenzato. La posa solipsistica sembra raccontarsi in forma di parabola, o di satirico débat medievale, nella sesta sezione di “It Must Change” nelle Note, dedicata a un onomatopeico corale degli uccelli e, con una eccezione, alla loro ostinata tonalità di conformismo vocale:

Bethou me, said sparrow, to the crackled blade,

And you, and you, bethou me as you blow,

When in my coppice you behold me be.

 

Ah, ! the bloody wren, the felon jay,

Ké-ké, the jug-throated robin pouring out,

Bethou, bethou, bethou me in the glade.

 

There was such idiot minstrelsy in rain,

So many clappers going without bells,

That these bethous compose a heavenly gong.

 

One voice repeating, one silent chorister,

The phrases of a single phrase, ké-ké,

A single text, granitic monotony.

 

(“Dimmi tu, disse il passero all’erba crepitante, / e tu, e tu, dimmi tu mentre sbocci, / quando nella mia macchia mi scorgete. // Ah, che! il sanguigno scricciolo, la vile ghiandaia, / ché-ché, il pettirosso dalla gola affusolata / effondendosi in tu, dimmi tu, tu nella radura. // C’era nella pioggia un concerto così balordo, / tanti sonagli scatenati senza campane, / che questi di’ tu compongono un gong celeste. // Una voce a ripetere, corista instancabile, / le frasi di un sol fraseggio, ché-ché, / un testo singolo, monotonia granitica”. La traduzione è di Glauco Cambon, unica eccezione nel Meridiano).

 

In ragione dell’intertesto qui apertamente evocato, quel “bethou me as you blow” non sarà uno “sbocciare” ma un “soffiare” in italiano. “Be thou me”, sii me, si chiede al “vento occidentalenell’Ode di Shelley: “Be thou, Spirit fierce, / My spirit! Be thou me, imperious one! // Drive my dead thoughts over the universe / Like withered leaves to quicken a new birth!” Pur stravolgendone lo spirito, e mortificando l’individualità del nobile “tu” in un composito “bethou”, Shelley serve bene a Stevens, il quale, nell’invito alla metamorfosi, chiede anch’egli una “nuova nascita”, ma dai vecchi tropi, dalle metafore consunte. Il timbrico “bethou” del passero (un tutoyer: dammi del tu, riconoscimi) si perde nel cacofonico “ké-ké” degli altri uccelli, originando una confusa monotonia di suono, un unico fraseggio della terra “in cui la prima foglia è il racconto / delle foglie, in cui il passero è un uccello / di pietra, che mai non muta”. Il canto è pietrificato in un solo testo che non cambia. Stevens non è tormentato da “ansie di influenza” e liquida il racconto della prima foglia come il racconto delle altre foglie: della Sibilla (e di Eliot), quelle, qui più intertestualmente coinvolte, di Shelley, o quelle duplici di Whitman (foglie/fogli). E se i “bethous” compongono un ironico “gong celeste”, anche il gong, si badi, non rintocca per se stesso, non è ‘originale’, quando lo accostiamo al “cathedral gong” e al “gong-tormented sea” di Byzantiun di Yeats; oppure a quello più demotico di W.C. Williams in The Great Figure: “Among the rain / and lights / I saw the figure 5 / in gold / on a red / firetruck / moving / tense / unheeded / the gong clangs / siren howls / and wheels rumbling / through the dark city”. 

Stevens si espone più volte nel dichiararsi fuori del concerto. I suoi rimandi intertestuali sono deneganti, dissenzienti, decostruttivi. C’è un messaggio sui cigni “metropolitani” in Academic Discourse at Havana: “I cigni… Prima che i loro becchi finissero / per terra, e prima che la cronaca / degli omaggi affettati ingiallisse tanti libri, / custodivano le acque vuote dei laghi”. Le metropoli uccidono i cigni (Baudelaire) tanto quanto le pagine dei poeti (incluso Yeats?). E quanto alla primavera: essa deve essere “ombelicale”, legata alla verità della terra, così è in Holiday in Reality: “Spring is umbilical or else is not spring. / Spring is the truth of spring or nothing, a waste, a fake” (“La primavera è ombelicale oppure non è primavera. / È la verità della primavera o niente, uno spreco, un falso”). Il rimando, per di più preceduto da un altrettanto allusivo “albero di Giuda” (Gerontion), è perfidamente mirato alla ‘crudeltà’ del mese di aprile (un “falso”) dell’incipit di The Waste Land; la parola chiave è “waste”, da Stevens spesso usata in ambiguo ‘omaggio’ a T.S. Eliot. Difficile rispettare in italiano la sottigliezza dell’intertesto, benché una primavera che è “desolazione” può essere un “falso” accettabile.

La tradizione si sfiocca petalo su petalo nel canone di Stevens, come foglie, o pagine, morte. “I lillà avvizziscono nelle Caroline” (In the Carolinas): il senhal qui è a Whitman (le “Caroline”, North e South, al plurale in Leaves of Grass), il quale ne farà fiore elegiaco, dedicato alla memoria di Lincoln (When Lilacs Last in the Dooryard Bloom’d). Ma sui variegati lillà di Stevens (e di Whitman e Eliot) il discorso costringerebbe a vagabondare troppo fra i meandri dei Collected Poems (cfr. A Last Look at the Lilacs, rivolta a Whitman e ancor più all’Eliot di Portrait of a Lady), fino a The Rock (1954), l’ultima raccolta (“the lilacs came and bloomed, like a blindness cleaned”). Merita invece una sosta l’“usignolo” di Keats, il cuore pulsante e patetico della tradizione che, in “Tradition and the Individual Talent”,  Eliot – l’impersonale, l’antiromantico, l’europeizzato –, all’interno della sua categorica negazione di ogni soggettivismo emotivo, sentì di dover giustificare come esempio di una buona fusione di elementi: di mezzo artistico e “impressioni” o “esperienze”. Eppure, in Sweeney Among the Nightingales egli stesso non seppe sottrarsi a una contro-lettura del “nome attraente” e della “reputazione” – la fama – dell’usignolo. Stevens se ne occupa in Autumn Refrain (1932), in cui, in assenza di un’“esperienza” diretta dell’usignolo, egli fa emergere la bravura del mezzo artistico:

Gli scricchi e gracidii della sera andati via,

e le gracule andate via e le pene del sole,

anche le pene del sole andate via … la luna e luna,

la luna gialla di parole decantanti l’usignolo

in smisurate misure, per me non un uccello

ma il nome di un uccello e di un’aria senza nome

che non ho mai sentito … e non sentirò mai.

 

Puro suono, ma non di un usignolo, un suono fricativo, duro nell’originale, più gracchiante nell’italiano, dove il neologismo fonetico skritter (“The skreak and skritter of evening gone / And grackles gone”) è disambiguato, e concretato, in “gracidii” (piuttosto che, diciamo, in “squittii”) al fine di riprendere, in catena onomatopeica, il suono delle “gracule”, gli uccelli ‘americani’, i nativi, una specie di merli imitatori, uditi dalla voce poetante, e intonatori del suono che si smorza nella sera. Nel rigettare le “evasioni” dell’usignolo (“And grates these evasions of the nightingale”), nell’azzittirlo (“the stillness is in the key”), Stevens sembra voler rivendicare una verità del suolo e dell’“aria musicale” della sua terra, cui l’usignolo, immigrato dall’Europa – come ci ricorda Fitzgerald in The Great Gatsby – non appartiene. Questo è solo un esempio dei modi in cui il traduttore può cercare, e ottenere, una diversa aderenza alla verità del testo.   

Eppure, è destino dei grandi poeti di finire sull’albero dell’usignolo. Of Mere Being è l’ultima poesia di Stevens, rivolta al “mero essere”:

La palma alla fine della mente,

oltre l’ultimo pensiero, sorge

nella scena bronzea,

 

un uccello dalle piume d’oro

canta nella palma, senza senso umano,

senza sentimento umano, un canto strano.

 

Sai allora che non è la ragione

A farci felici o infelici.

L’uccello canta. Le palme splendono.

 

La palma svetta al limite dello spazio.

Il vento muove piano nei rami.

Le piume infuocate dondolano giù.

 

Le piume infuocate guardano giù, alla terra, alla realtà. Stevens non si smentisce nel suo progetto. Ma il tropo dell’uccello d’oro lo riporta in famiglia, accanto a Yeats (“Miracle, bird or golden handiwork, / More miracle than bird or handiwork, / Planted on the star-lit golden bough”); a Pound (“Brancusi’s bird / in the hollow of pine trunks”), a Eliot (“Go, go, go, said the bird: humankind / Cannot bear very much reality”). Sono le ultime epifanie, diverse e convergenti, e tutte intraviste in solitudine “at the edge of the mind”.  

“Soglie”, dicembre 2015