Eric
Stark
muse riluttanti
Fosse
vero che in molte fonti di ispirazione le muse si sono lavati i piedi, già al
Novecento è toccato di verificarlo.Non sembrano tempi, i nostri, per discorrere di muse. Per una Gala Dalì
tutto sommato rassicurante, quante Edie e Nico warholiane e tossiche, che
nessun poeta ha potuto strappare e richiamare dalle orbite infernali. Né si
vede alcuna Nicarete la quale, si dice, concedeva i propri favori a chi le
risolvesse quesiti matematici. Per questo ogni tentativo di evocare
quell'immagine classica, sinonimo di ispirazione, si affaccia in uno
sconfortante territorio di macerie e figure scomposte. Scontata l'impossibile
omogeneità delle indagini, questo volume di autori vari Muse ribelli ( a
cura di A. Morrone e U. di Toro, editore Ombre Corte, 2012) raccoglie una
manciata di scritti (di provenienza perlopiù universitaria e di diseguale
valore) intorno a donne degli ultimi due secoli (pur non mancando un excursus
sulla Grecia antica) che hanno incrinato la tradizione consolidata delle
inoperose compagne di uomini illustri, oscurate dal successo del partner
maschile (poeta, filosofo o scrittore). Ribelli al ruolo di fedeli e silenziose
ispiratrici di opere cui sarebbero di per sé impossibilitate, occupate, secondo
la vulgata, a vivere nell'ombra più che ad immortalarsi e trascendersi nella
sfera estetica. Alcune delle figure su cui gli autori si soffermano hanno
comunque goduto di indagini dettagliate, prima ancora che gli studi di genere
dessero un tocco accademico a quanto già detto decenni prima dalla critica
femminista e non, ma
mentre
su Lou Andreas-Salomé, Aurora Rümelin ( Wanda
Sacher -Masoch) o Mary Shelley esiste una vasta bibliografia, altri nomi
dicono poco al lettore non addentro alle biografie dei vari Lukàcs, Bataille o
Benjamin. Donne la cui notorietà è oscurata più che dalla volontà maschile, da
una letterale assenza d'opera, consistente spesso in sole lettere e frammenti,
accessibili solo dopo la morte delle stesse protagoniste e talvolta
fortunosamente conservati, va detto, grazie alla notorietà dei rispettivi
compagni. I curatori, per motivare un persistente interesse, ricordano come al
proposito si sia parlato, per queste ed altre personalità, di anti-rivoluzione
sessuale attraverso un'accensione passionale entrata in competizione con i
rispettivi compagni sul piano creativo, per quanto sporadiche siano le tracce
lasciate. Complesso e contorto, l'agire e sentire delle muse ribelli manifesta
il ritorno del desiderio e della seduzione, dopo una rivoluzione sessuale
avviata per la china compromettente incarnata dal fiuto affaristico delle
schiave industriali (starlets, dive, modelle...). Le emozioni che suscitano non
discenderebbero dal valore di scambio e tanta sarebbe l'eccitazione del loro
sentire o la ricerca scomoda del desiderio che il godimento ne risulterebbe
spesso negato (per non dire della tragica fine loro toccata in numerosi casi).
È
l'ultima torsione (tanto da farcela credere sparita) assunta dalla musa,
l'ispiratrice o l'anima, cui comunque è riservata una vita, dopo la morte,
nell'opera del maschio creatore. Ispirazione pur sempre proficua e produttiva,
anche dopo la sparizione, nella “seconda vita” della scrittura. Perlopiù vita
quotidiana di riflesso, quella della moglie di Pierre Klossowski. Se questi,
imperturbabile, è il genio che pensa mentre il figlio piange nella culla, la
moglie Denise si sente “estranea all'esistenza”, emotivamente distaccata dal
mondo erotizzato del marito. Quietamente
negandosi ogni pratica di scrittura creativa, più moglie borghese che musa ed
impossibilitata a riconoscersi nei comportamenti liberi dell'ospitale Roberte
inventata da Klossowski, Denise discretamente è pronta a coprire le sbandate
del consorte. Secondo M. Perniola, il loro legame va posto sotto il segno dell'estetico
inteso come distacco dal quotidiano, dal volgare e dalla miseria.
Maggiormente inserita in un circuito di
intellettualità fu un'altra “sorella di Zarathustra”, l' Asja Lacis, compagna intermittente di
Walter Benjamin (cui presentò Brecht); i due si conobbero nel 1924 a Capri,
scrissero un piccolo saggio su Napoli, ma tracce dell'influenza della regista
lettone si trovano, oltre che nel Diario moscovita, in Strada a senso
unico e nel Programma ispirato all'esperienza del teatro per bambini
condotta da Lacis nei soviets.
Quando
Benjamin, dopo la rottura, si stabilì a Parigi, molto probabilmente frequentò
intellettuali incrociati da Colette Peignot, la Laure di Bataille. Il salotto
del martedì di suo fratello, Charles Peignot, era frequentato da Crevel, Buñuel
e Drieu. Mentre nel 1937 Klossowski insieme a Caillois e Bataille fondava il
Collège de Sociologie con l'intento di praticare urgenti flebo al corpo debilitato dell'homo
oeconomicus, Colette, pur malata, già
accompagnava ed elaborava privatamente
le comunicazioni poco meno esoteriche degli studiosi ospiti o conferenzieri
avviate nel solco delle riflessioni di Mauss. Irreligiosa, contro l'ipocrisia
familiare aveva scritto da giovane una dispettosa e sacrilega Ave Maria; quando
il recitarla le si svelò come un ennesimo omaggio, si avvicinò ai circoli
comunisti frequentati da Souvarine, S. Weil e Bataille, collaudando nella
pratica una segreta e insospettata meditazione sulla nozione di “sacro” come
inserzione e rara irruzione dell'eterno nella vita. Alla sua morte, nel 1938,
per tubercolosi, Bataille entrato in possesso di alcuni suoi scritti, non
esiterà a riconoscerle un ruolo paritario (addirittura di anticipazione)
nell'elaborazione di nozioni che allora lo andavano occupando, a cominciare da
quella di “poesia” come violazione di sé e comunicazione.
Dell'anarchica pietroburghese Nadia
Haimowitch Baraden, che nell'esilio fiorentino incrociò C. Michelstaedter,
scrisse già il benemerito Campailla ricordando come la rossa Nadia precedette
di tre anni il goriziano nel punto di maggior persuasione coincidente proprio
con il suicidio. Seppure l'autore di La persuasione e la rettorica
minimizzasse, in una lettera al padre,
l'influenza dell'emigrata parlando di “amicizia puramente intellettuale”, la
scelta del successivo suicidio andò a
depositarsi nel fondo nero di un umore da cui ogni luce poco per volta era
sparita, anche quella di un “socratismo” intellettualizzato e autosufficiente,
un po' vigliacco e incapace di donarsi uscendo dal cerchio narcisista.
Avvertimenti, questi, lanciatigli con disarmata lucidità dalla giovanissima
pietroburghese i cui pochi scritti furono dispersi o distrutti.
Il suicidio fu pure l'esito finale di
Irma Seidler, amica per breve tempo di G. Lukàcs. Sui due scrisse già Ágnes
Heller, soffermandosi sull'intenzione della donna di imprimere alla vocazione
del giovane Lukàcs un ritmo più leggero, meno problematizzante, alleggerendone
le pretese kierkegaardiane e la troppa teoria, fino a rinfacciargli la lontananza
da materia e sangue.
Figura
dell'instabilità, Irma Seidler fece naufragare l'incontro fra l'anima e la
forma con il suo rifiuto di farsi “idea”. Da un lato stava l'amore di Lukàcs
che nel non essere corrisposto si vedeva confermato come via ascetica per
l'autoperfezione, dall'altro il sentire della donna, degradato a
sentimentalismo in quanto gradino inferiore verso la ricerca e conquista
solitaria della forma, laddove i conflitti sono conciliati.
Nell'amore
hegelianizzato, l'uomo scopre la possibilità di riconoscersi, mentre la donna
“non viene disoccultata”, impedita a scomparire e disincarnarsi nella forma
dell'opera. Accettarla così com'è e rispettare allo stesso tempo la
propria vita si rivelerà una soluzione impraticabile: la comprensione totale è
illusione e la solitudine è la sola risorsa, lontano dall'elemento vitale
dell'esistenza e dalla sfera dove vita e morte sono omogeneamente comprese,
dialetticamente antitetiche (e dove
perfino un suicidio è un sì alla vita) ma fuori dal conflitto autentico con la
forma.
Scegliendo
la forma, Lukàcs si rendeva incompatibile la morte, mentre Irma, diventata
fantasma, nel suo ricordo forniva un mattone per l'opera, più efficace
nell'assenza di quanto fosse mai stata in presenza. “Fogli di Via”, Novembre 2012