Eric Stark

limitazione di Marien

È stato ripetutamente sostenuto quanto fosse difficile per un cinema di “area surrealista” restare all'altezza degli incunaboli buñueliani. Forse inutile, pena la ripetizione farsesca e prevedibile di bagarres e scomuniche. Quando lo scrittore belga Marcel Marien (1920-1993) vi si cimentò con L'Imitation du Cinéma, poco gli valse l'essere stato preceduto in patria dalle rare opere di d'Ursel e Moerman (il cui M. Fantomas risaliva al 1937), un poco più gli giovarono le frequentazioni parigine, il Traité di Isou o gli Hurlements di Debord, pur non sposando in toto, a cose fatte, né il montaggio discrepante o la poetica degli scarti del primo né il rifiuto narrativo del secondo (Cfr. il corto Opus Zéro del 1958 concepito come montaggio di girato ready-made, cronaca politica, streap-teases ecc). Un partito preso di apparente facilità di fruizione e scorrevolezza gli attirò la condanna prima e la clandestinità (l'invisibilità) poi (lo stesso Kinsey Institute interessato dallo “scandalo” non riuscì ad organizzarne la prioiezione negli USA). Bollato come film ignobile da chi copriva ben altre porcherie inscenate al riparo di confessionali e sacrestie, l'opera di Marien con spirito lieve ed ironico distacco interrogava il simbolismo religioso distribuendo scappellotti all'aura magica degli oggetti sacri. Puntando a tenere ferma la distinzione fra cosa e segno, oggetto e simbolo, lo scrittore-regista si serviva di oggetti della tradizione cristiana per fini umoristici, indicando l'osceno nella mente dello spettatore.

Un giovane seduto in un parco si vede sottrarre da un prete  la rivista sexy che sta sfogliando per averne in cambio L'Imitazione di Cristo:  intrapreso un cammino di vittima derisoria durante cui un falegname gli fornisce una croce difettosa e inadatta allo scopo e il prete si dimostra incapace di ripetere il sacrificio in cui dice di credere (per tacere di una prostituta che, acceso il fuoco pirotecnico dello scontato simbolismo psicanalitico, parrà ingenuamente sospendere la ricerca) il ragazzo sceglie infine di morire, posando con le braccia “in croce”, asfissiato dalla stufa a gas, unico oggetto “drammatico” disponibile.

Questo sintetico argomento o soggetto, trattato da Marien, diviene il casus belli che si sa, una volta applicata la lezione dell'amico Magritte secondo cui non bisogna confondere il segno e l'oggetto, la rappresentazione e la cosa, la “pipa dipinta”e la pipa. La croce, ricorda il factotum delle “Lèvres Nues”, non veniva percepita dagli spettatori come oggetto fra gli altri ma sempre come simbolo. Nessuno pareva in grado di fare tabula rasa percependo la croce come oggetto “insignificante”, semplice attrezzo di legno e metallo. A propria discolpa Marien annotava che il credente, indignato, vedeva sempre e soltanto il simbolo, perdendo la cosa, pur se in altre situazioni (come un negozio di articoli religiosi) operava la distinzione accettando che lo stesso oggetto fosse prezzato e venduto diversamente a partire proprio da una materialità che azzerava la funzione simbolica. Il non credente “peccava” al contrario e qualunque offesa al simbolo “croce” riscuoteva la sua approvazione.

L'iconoclastia dell'autore venne subito percepita come antireligiosa; qualificando il film come ignobile e infame, accusandone il tono parodistico-sacrilego, l'organo cattolico belga preposto alla bisogna non sapeva di rendergli l'omaggio più sentito sottolineandone il lato “illuministico” di depurazione dell'elemento sacro rispetto alle misere concrezioni della routine religiosa.

Imitazione di una passione e redenzione all'interno di un'opera che, per povertà di mezzi e indisponibilità di risorse adeguate, imita il cinema, il cortometraggio evitava ogni motivo d'immedesimazione ed incantamento anche nel commento sonoro affidato all'amico André Souris e costituito da musiche prelevate dalla discoteca privata, con il “Parsifal” wagneriano in bella evidenza.

Quel che oggi pomposamente i nostri autori parastatali chiamano “project financing” fu ottenuto da Marien truccando le estrazioni di una lotteria e dirottandone le vincite ad amici che poi ritornano nella distribuzione dei ruoli: la somma, pur sempre irrisoria, obbligò quasi ad adottare una struttura per brevi sequenze, richiamando nella costruzione generale del  film e dei singoli piani la storia del collage surrealista. Il film era “affare di assemblage, di soppressioni e inversioni” ( M. Marien, Un Autre Cinéma, 1955) e lo stesso comico degli incongrui accostamenti era parte integrante della distanziazione cercata da Marien. Il filo del racconto lineare veniva tagliato senza perdere la “fisionomia dell'evidenza”: da qui gli innesti e le rotture che disturbano e sospendono la percezione lineare “classica” tenendo lo spettatore fuori dall'immersione nel racconto, distanziandolo dallo spettacolo e dagli automatismi identificativi. E' come se un altro film di inserti e brevi piani intervenisse ad intermittenza nell'imitazione di una struttura classica ricordando tecnica e gesto del collage,  abbondantemente praticati dall'autore.

La sostanziale adesione del pubblicò alle prime scelte “visioni” (inverno-primavera 1960) furono motivo d'incoraggiamento per Marien, che vi riconobbe una volontà di valicare l'ostacolo dell'espressione “indigente” pur di entrare nel vivo del soggetto, e un'implicita conferma di una dimessa etica sintetizzata in queste righe:” Tutto quel che faccio, è un modo di passare il tempo, nulla a che vedere con l'arte o la letteratura. E' un'attività particolare poco più eleborata di quella delle formiche e dei ragni. Non potrei immaginare per un solo istante che ciò che faccio è un lavoro. La parola lavoro mi fa orrore”.

L'Imitation du Cinéma, con le sue generose pecche e gli abbondanti extra, è adesso visibile in dvd per le edizioni La Maison d'Â Côté.