Eric  Stark

ghiandole assassine. Antheil come giallista

Estremo lascito ottocentesco e positivista al nuovo secolo, lo studio degli ormoni come traccia di un destino annoverò tra i tanti adepti il musicista statunitense George Antheil (1900-1959) spintosi, nei momenti di stallo di una carriera povera di massicci riconoscimenti, a scrivere un manuale di criminologia ghiandolare oltre che a tenere rubriche sulla stampa periodica americana.

 In questo racconto, uno dei suoi avatar, l’endocrinologo Stein, illustrando ad un altrettanto bizzarro detective per diletto i propri studi tesi ad ottenere una razza di superuomini da un mazzo stropicciato di scarti umani tenuti sotto chiave, quando afferma: “La più grande speranza dell’umanità langue nelle prigioni” pare riecheggiare motivi già apparsi in Van Dine. Per un momento Stephen Bishop (pseudo di George Antheil) autore del raro La morte nel buio (Shake Edizioni, 2009) ricorda d’essere un ragazzaccio riportando in una dimensione meno soffocante quello che fino ad allora è parsa una stravagante variazione tutta interna alla storia del mistery classico, di cui il delitto della camera chiusa è pietra angolare. Antheil lo pubblicò nel 1930 per l’editore londinese Faber & Faber  del suo conoscente Eliot e rimase forse un unicum in una carriera movimentata da svolte e diversioni al cui cuore è oramai pacifico situare i lavori musicali, cui soprattutto deve la recente rivalutazione della sua figura.

Giocando sulle frequentazioni dell’autore, l’editore italiano azzarda l’ipotesi di vendere questi delitti “impossibili” sotto l’insegna di “noir surrealista” ad inaugurare pure una collana intitolata duchampianamente nnoir sélavy. Va da sé che a scarseggiare qui è proprio quello humour antologizzato da Breton a partire da suggestioni anglosassoni; né nominare Satie o Brancusi può alleggerire la presa modernista su di un  “giallo” tanto consapevole di sé da aver già evocato i nomi giusti al momento opportuno: Rapallo (dove Antheil soggiornò in compagnia di chi già sapete), Parigi e Stravinskij, tutte le figure conosciute e frequentate dall’americano transfuga nel primo dopoguerra (per qualche tempo alloggiò addirittura sopra la libreria di Sylvia Beach). Pound, al tempo massimo facitore di glorie, lo aveva subito arruolato nei suoi ranghi consultandolo per Villon e Cavalcanti e dedicandogli un “Trattato d’armonia” dove, tra richiami ad Einstein, alla quarta dimensione e al tema spazio-tempo, riconobbe nel giovane del New Jersey il primo artista nell’uso delle macchine (Ballet Mécanique, al di là della collaborazione con Léger e Man Ray, datato 1925, tende però a far trascurare titoli precedenti e successivi tutt’altro che disprezzabili).

In quei primi anni concertistici, memore di scazzottate futuriste e dadaiste, il compositore, si dice, portasse con sé una trentadue automatica, da usare in caso di necessità per porsi in salvo da critiche troppo fattuali.

 In questo racconto, però, a dominare è la sequenza inarrestabile che dall’oscuro clic ghiandolare conduce per una catena di automatismi ai colpi di pistola finali; l’automatismo che funziona è il bricolage artigianale che, assecondando l’irreprimibile natura, ne completa la pulsione omicida. Le pistole così inserite in un disegno logico, mosse da molle e perfino nascoste nella Bibbia, sfuggono alla casualità del poeta surrealista, che potrebbe impugnarle sparando sui passanti, per porsi finalmente all’interessato servizio di questioni ereditarie.

Tra le tante dissertazioni estetiche sparse nelle pagine, e piuttosto rivelatrice di uno sconforto che già lo colse prima degli anni trenta, è la tirata che Bishop-Antheil avanza “pro domo sua” e che leggiamo come lamento sull’idiozia dei moderni mecenati, i quali preferiscono dare una mano al solito “artista bulgaro” mentre il “povero compositore” è costretto alla fame, andando a vivere all’estero dove la vita è meno cara, per reggere da “espatriato” non solo l’ostilità dei critici stranieri ma pure “le imboscate dei nostri che si rifiutano di riconoscerlo semplicemente perché è stato scoperto all’estero dopo tanti anni di fatiche”.

Ora il tempo di Antheil è venuto, se pensiamo che per molti anni il suo blasone fu sepolto, anche nel caso di uno storico rinomato come Mellers ( per molti anni nostra sola fonte di conoscenza intorno alla musica americana) nella polvere di tre noticine a piè di pagina.

E, sopra ogni cosa, sempre gli invidieremo l’interesse suscitato in Hedy Lamarr dai suoi studi sulle ghiandole (mammarie incluse) ospitati da “Esquire”, quando già da alcuni anni aveva lasciato l’Europa per sistemarsi ad Hollywood.  La diva, ex moglie di un fabbricante d’armi e l’ex pianista scandaloso brevettarono un controverso e macchinoso sistema di comunicazioni cifrate ad uso militare: come contributo alla causa patriottica poteva bastare.

“la Bava”, ottobre 2009