Eric Stark
nel solco di Adorno
Può sembrare abbiano una patina archeologica le “riflessioni sulla critica musicale” del
1967, adesso che non ci è più concesso di scoprire, in rassegna stampa, quel
che ci è piaciuto a teatro (ma pure al cinema) il giorno prima; e non solo
quelle note: anche gli altri brevi scritti sul manufatto “disco” riuniti nel
libretto Theodor W. Adorno Long Play e altri volteggi della puntina
(Castelvecchi 2012) girano intorno a qualcosa che si allontana velocemente nella
nostra esperienza e che per i supposti nativi digitali sa di curiosità
polverosa. Eppure, oltre che documentare una certa evoluzione nel rapporto del
filosofo tedesco con quello specifico mezzo di riproduzione, vi si leggono
improvvise accensioni tuttora rare, quando non scomparse, nelle tante odierne
declinazioni della stampa musicale in senso lato.
La critica, vi sosteneva il francofortese, è
motivata e richiesta dall'incompiutezza stessa dell'opera, cui sempre sfugge
l'assoluto. Sono la critica e il commento che, argomentando sul contenuto di
verità (o contenuto spirituale) di un opera, la mettono al riparo dalla
casualità del favore del pubblico e degli accidenti storici. Posto di fronte ad
un contenuto di verità che, immediatamente, è incomprensibile ed immergendosi
lealmente nella cosa di cui si occupa, il critico mostra come accidentalità e
casualità della critica siano solo apparenza. Ma distinguere tra contenuto
spirituale ed effetto sociale richiede di partire sempre dalla costituzione
musicale dell'opera e dalla necessaria analisi tecnica in grado di far emergere
i processi immanenti della composizione, a costo di scoprire problemi dove “la
coscienza comune è sicura del suo stesso errore”. Perciò il marcio della musica
popolare giovanile, per esempio, va scoperto proprio mettendone in luce
“precisi errori compositivi”. È noto come il metodo (guidato da una logica
hegeliana) applicato alla beethoveniana Missa Solemnis procurasse non pochi
grattacapi ad Adorno e questo eventualmente lo esentasse dal provarne la bontà
su prodotti culturali meno stagionati. Sempre comunque egli ricordò al critico
di non ricorrere alla sfilze di cliché o “spettri verbali”, evitando giudizi
tipo “x è y” e rinunciando ad etichettare un artista senza entrare nella cosa
stessa; altre volte l'esortò a smettere
l'abitudine di utilizzare “avanzi culturali” invece della competenza oggettiva,
sapendo oltretutto quanto il ricorso al disco faciliti da una parte il ripetuto
e ravvicinato confronto con la cosa musicale e dall'altra renda controllabile
la moralità della critica. Questo carattere di attestato se non di test del
“disco” risulta dalla storia della registrazione e delle riflessioni adorniane
che, grazie soprattutto all'introduzione del long playing, vanno dall'iniziale,
un poco scontata, diffidenza all'apprezzamento degli anni cinquanta. Proprio
come il manufatto discografico presto si libererà della camicia di forza che lo
confinava al ruolo di testimone e documento, Adorno intuirà nell'incisione un
destino diverso dal semplice rispecchiamento del carattere ripetitivo ed
autistico della musica popolare, in cui l'assenza di logica compositiva o
costruttiva non poteva che spingere al ritorno dell'identico e standardizzato
(e ancora brucia la sentenza “intollerante” sul jazz come moda senza tempo,
sussunto nella categoria dell' ornamento, cui si contestava perfino il diritto
all'esistenza artistica).
Già negli anni venti il giovane Adorno sveltamente
riconosceva nella scrittura “finemente increspata” dello “schall-platte” un
risultato della tecnica emancipata dai “bisogni umani” prodotti attraverso la
pubblicità. Constatando la mancanza di una specifica musica per il grammofono
ne denunciava la penuria di “dimensione artistica”, il suo essere rimasto allo
stadio di fotografia acustica, secondo modelli di realtà bidimensionale,
facilmente spostabili e scambiabili. I dischi allora conservano, depositandolo,
quel che già c'era (in meglio e con più altezza e profondità); raccolti in
album, sono pronti ad evocare, come “erbari” aggiornati, la caducità e il
ricordo, resi ovvi e maneggevoli. La “vivente produzione” dell'esercizio
musicale viene conservata nel lavoro “mortale” del disco riprodotto. In tali
giri di frase possiamo ritrovare, aggiornati, echi e motivi platonici di una
condanna della scrittura come tradimento della viva voce, ma Adorno provava già
a strapparsi a questa presa bimillenaria proprio rilevando nel disco i segni di
una rinnovata esperienza del rapporto smarrito con la scrittura. La musica nei
solchi può riconoscersi scrittura, scrittura spiraliforme, svincolata
dai segni sulla carta, lingua legata a “questa” determinata incisione. E se il
processo disumanizza e reifica la musica, esso lascia pure intravedere la
possibilità di disegnarla e nuovamente inventarla (senza citare i successivi
dischi d'artista, pensiamo solo alla Grammophonmusik di Hindemith, a
Moholy-Nagy, a Varese o ai contemporanei sogni ed esperimenti sovietici
futuristi e costruttivisti di cui Adorno era probabilmente all'oscuro, che
Stravinsky intuì scrivendo di una musica inventata “specificamente per la
riproduzione fonografica, una musica che raggiungerebbe la sua vera immagine-il
suo originale suono- attraverso la riproduzione meccanica” e che forse il
Benjamin moscovita intravide).
Che ci sia stato accompagnamento pensante di
un'evoluzione tecnologica emerge da un pur superficiale confronto tra lo
scritto del 1934 La Forma del Disco (uscito in origine con lo pseudonimo
di Hektor Rottweiler) dove ancora si accusa una
mancanza di forma ed il testo del 1969, Opera e long-playing, che
l'ammetterà, attribuendo al non più nuovo medium la capacità di consentire alla
musica un recupero di forza ed intensità perdute nei teatri (è soprattutto al
genere operistico che pensa l'autore). Se Proust è rimasto al tempo delle
canzoni (e alla durata di O sole mio)
incapsulate nei dischi di corto respiro suonati in saloni stuccati, con
l'ellepì l'incisione attinge una sua essenza proprio quando un'altra forma
compositiva, l'Opera (forse la musica stessa) è al tramonto. Essa prova a
risvegliarsi in un confacente formato sfilando nel personale museo del singolo
ascoltatore. Ritornanti e rieseguibili a piacere, le figure sonore del disco
permettono quella concentrazione sulla musica che va persa per e nella decadenza dei teatri; l'Opera può
tornare ad essere familiare oltre ogni distanziazione stilistica e sulla sua
scia, azzardava Adorno, l'intera letteratura musicale potrebbe diventare accessibile
nella forma più autentica, recuperando la dimensione temporale (di “viaggio
dell'anima”) fino ad allora sacrificata dalla breve durata del vecchio 78 giri:
possibilità di una diversa organizzazione del tempo e dei riti
individuali. Ultime cerimonie rituali,
come le definì Evan Eisenberg, rese possibili dal carattere
costruito-orchestrato di qualunque registrazione allorché, oltre la
testimonianza-documentazione di un evento live, essa tende, per sua
forza interna, a produrne uno ideale ed innaturalmente mostruoso. Ma, su questa
china, non è sportivo chiedere all' Herr
Professor di passare, come Michel Simon nell'Atalante, le dita-puntine
sul disco ed allucinare un suono di fisarmonica.
“Fogli di Via”, marzo-luglio
2013