Carlo Stagnaro

dalla parte di Lee

 

> Alberto Pasolini Zanelli, Dalla parte di Lee. La vera storia della guerra di secessione americana, Facco, Treviglio 2006

Se la sconfitta ha un fascino, il Generale Lee – il comandante che condusse le truppe sudiste a sfiorare la vittoria – lo incarna fino in fondo. Ed è alla poesia di una causa persa, ma giusta, che Alberto Pasolini Zanelli dedica l’ultima sua fatica, “Dalla parte di Lee”, una cavalcata attraverso le tappe della Guerra di secessione americana. La sua è una lettura revisionista: non liquida con l’etichetta infame dello schiavismo le ragioni dei 13 Stati che dichiararono l’indipendenza da Washington.

Pasolini segue il conflitto battaglia dopo battaglia, colpo di scena dopo colpo di scena. Il destino era in qualche maniera scritto: la bandiera Dixie doveva infine essere ammainata. Con essa, un luogo e un tempo scivolavano lentamente sui libri di storia, sparivano dal qui e ora. E’ vero, la schiavitù era per il Sud la “peculiare istituzione”. Ma la guerra aveva poco a che fare con la schiavitù: lo stesso Lincoln, insediandosi alla Casa Bianca, aveva ammesso che “non ho il diritto legale di abolirla negli Stati in cui esiste, né ho il desiderio di farlo”. Il terreno dello scontro era un altro, più profondo, e riguardava la natura, quindi il futuro, del vincolo che legava le ex colonie in una Federazione. O, meglio, riguardava il fine dell’Unione e la fonte della sua legittimazione: in ultima analisi, il diritto di prendere decisioni apparteneva agli Stati o al governo federale? Il governo federale era un mandatario degli Stati, oppure era il vertice della piramide americana? Chi la pensava in un modo, era portato a schierarsi col presidente Jefferson Davis e barricarsi a Richmond; gli altri, stavano a Washington con Lincoln.

La storia non va mai per il sottile: non dice chi ha ragione, dice chi ha vinto. L’apparato industriale e militare del Nord era più forte, i suoi comandanti più crudeli e determinati e meno cavallereschi. Una contraddizione esemplificata dall’incontro dell’Appomattox Court House che sancì la resa: Lee “si era messo in alta uniforme, la giubba perfettamente stirata, cinta al fianco la spada di gala. Sembrava il ritratto perfetto dell’aristocratico del Sud, l’immagine stessa di un mondo che, quel giorno, tramontava. L’uomo del mondo nuovo, Grant, arrivò coperto di polvere, con gli stivali infangati e una divisa da soldato semplice sulla quale solo le spalline stavano a indicare il grado”. Finita quella che fu la prima guerra moderna, cominciava il nuovo corso: la Costituzione rimaneva la stessa, il senso ne era cambiato. L’America del giorno dopo era un’altra America.

Eppure quel 9 aprile 1865 non è, nella storia americana, un giorno di festa. E’ il giorno in cui “morivano una nazione, un costume, un universo che s’era disperatamente difeso contro la forza e contro il tempo. E cominciava a morire Robert Lee”.

“Il Foglio”, 13 maggio 2006