Francesco Rognoni

scoprire Alessandro Spina

Da quando, circa tre anni fa, mi è capitato nelle mani I confini dell’ombra (Morcelliana 2006), il “ciclo africano” (o meglio, “cirenaico”) di Alessandro Spina (1927), non smetto di fare opera di proselitismo per questo scrittore così eccentrico e segreto, che scrive e pubblica da più di cinquant’anni con editori anche maggiori, ma – a dispetto di molti attestati di stima (da Moravia a Bassani, dalla Banti alla Campo a Zolla, Citati, Solmi, Magris, Enzo Bianchi ecc.) e di un recente premio Bagutta – resta largamente sconosciuto, anche fra gli addetti ai lavori. A volte ci riesco, a volte no. Scoraggiati dalle 1200 e passa pagine dei Confini (e dir che Spina è maestro della forma breve!), molti rinunciano prima di cominciare; o cominciano di malagrazia e si dan subito per vinti, perdendosi così un banchetto di romanzi e racconti che non sarà per tutti i gusti, ma di certo non ha eguali nella narrativa italiana del secondo Novecento. 

Ho scoperto, ad esempio, che conviene raccomandare all’amico di turno di non cominciare dall’inizio, cioè dal Giovane maronita (Rusconi 1971), ambientato a Bengasi fra il 1911 e il ’15, nei primi anni dell’occupazione coloniale. A me questo romanzo (molto amato da Sergio Solmi) è apparso subito un capolavoro; ma vedo che c’è chi trova un po’ meccanico il montaggio dei documenti d’epoca nella narrazione, e crudo il melodramma dell’intreccio. Se si sono riviste o riascoltate di recente le Nozze di Figaro, allora si può iniziare dalle Nozze di Omar (ibid. ’73), innamorata rivisitazione dell’opera mozartiana, che bruscamente vira in tragedia. Altrimenti si entri nel librone per la porta di due novelle simmetriche, Il visitatore notturno (Scheiwiller 1979), raro esempio di come da Borges si possa imparare senza esser sopraffatti, e La commedia mentale (ibid. 1991), che è più difficile scoprir da dove venga: forse dai salotti dell’ancien régime, o da quello, in Piazza S. Anselmo, di Cristina Campo – cui non a caso la Commedia è dedicata.

O si può cominciare dalle Storie di ufficiali (Mondadori 1967), magari dall’ultima, Giugno ’40, che alla Campo, incontrandola nelle pagine di “Paragone”, sembrò – come scrisse a Leone Traverso nel maggio del ’61 –“di straordinaria intelligenza. L’autore, Alessandro Spina, si chiama in realtà B*** K*** – ed è un siriano che vive a Bengasi, facendo il capo d’industria dopo aver studiato a Milano. L’ho visto per 3-4 giorni qui a Roma. Questi stranieri (in senso lato) [l’altro era Gustav Herling], solitari come stiliti, sono le sole persone che io sopporti ormai” (Caro Bul, Adelphi, 2007).

Conversazione in Piazza Sant’Anselmo (Scheiwiller 1993, ed. accresciuta Morcelliana 2002) è il racconto di questo e altri incontri romani, da Spina anticipati con la trepidazione con cui Peter Walsh saliva le scale di Clarissa Dalloway: ritratto e omaggio all’amica che, col suo “orecchio assoluto”, aveva sorvegliato, e forse in parte guidato, per una decina d’anni, le sue prove narrative. Il loro Carteggio (Morcelliana 2006) – oltre a dettagliare l’avventura comune della Città di rame, la 556a novella delle Mille e una notte, che Spina tradusse dall’arabo e la Campo introdusse (Scheiwiller 1963; ora L’obliquo [BS] 2007) – permette di seguire il divenire di diversi racconti e due romanzi, e di cogliere quasi sul nascere il temerario progetto del “ciclo africano”.

A questo bellissimo documento umano e letterario, Spina affianca ora i suoi Diari di lavoro (Brescia, Morcelliana, 2010, pp. 233, euro 16,50), che ammettono ancor più direttamente nell’officina di un autore che considera “il lavoro di revisione altrettanto importante dell’opera nuova”. Anche se “direttamente” non è l’avverbio più azzeccato per un libro così inclassificabile, arditamente manierista, artificioso: perché “solo con premesse artificiose (compresi i dodici suoni) si può arrivare a risultati reali”. Diario sì, ma anche “diario di un diario”, “parodia di Bildungsroman” (come lo stesso Spina definisce il primo capitolo), fascinosa conversazione del romanziere con se stesso e i propri “doppi”, con interlocutori illustri o anonimi, con gli autori più amati (i tedeschi da Kleist a Mann, moralisti e memorialisti francesi, il grande storico arabo medioevale Ibn Kaldun) e, soprattutto, coi suoi personaggi: inseguiti nelle loro varie “metamorfosi”, che talvolta non smettono neanche a romanzo pubblicato (Ingresso a Babele e Le notti del Cairo sono – nei Confini dell’ombra – romanzi affatto nuovi rispetto alle edizioni Rusconi 1976 e Scheiwiller 1977).   

La società letteraria italiana – da Spina assai poco amata e ancor meno frequentata (“Nessuno mi ha  visto marcire in un caffè di Roma a tessere relazione utili”) – fa ogni tanto capolino. C’è la schietta Anna Banti, ad esempio, che “con quel suo modo brutale di parlare, mi disse una volta: Sa qual è la sua colpa? Di non avere potere!”. E spunta spesso, simpaticamente, Moravia, che “non aveva nulla della prosopopea sacerdotale del potente delle lettere”, e si dimostrò triste ma veritiero profeta quando, cinquant’anni fa, avvisò il giovane Spina che, per un ciclo di romanzi sulla tragedia coloniale (chi vuol sentir parlare di resistenza libica?), in Italia non si sarebbe trovato un pubblico. “Il Giovane Maronita apre (letteralmente nel romanzo italiano: apre) il discorso sul Terzo Mondo, che è il discorso capitale della nostra epoca, come lo era nella Russia di Tolstoi il problema dei contadini”, appuntava Spina nel ’70. Adesso che, volenti o nolenti, viviamo in una società multietnica, e nelle nostre librerie le traduzioni di romanzi “post-coloniali” non si contano, nessuno oserebbe dargli torto. Ma quale altro dei nostri romanzieri se n’era accorto, allora?

E infatti Spina gli italiani suoi confrères – come li chiama con cerimoniosa ironia – li ignora tutti o quasi (ma gioisce all’uscita del Gattopardo: “Il romanzo di un principe in un momento che ci si pigia a sinistra è quasi l’apparizione di un pascià nero”). Piuttosto si misura con gli “ascendenti”, quasi tutti stranieri, che si è scelto. Benché il suo mestiere di industriale sia un “mestiere romanzesco, balzachiano”, sa bene che gli scrittori del novecento sono “i pronipoti di Flaubert e non di Balzac”. Sente “vicini” Svevo e Conrad, “gli scrittori con due patrie, oppure, meglio con origine ed educazione disgiunte”. Rilegge Proust costantemente, ma è con Mann che raggiunge “una sorta di identificazione, anzi di complicità”. Dovesse scegliere il suo critico ideale, sarebbe – molto a sorpresa – il suo “autre ideologico per eccellenza”, Georgy Lukàcs, “lettore eccezionalmente sensibile, che ama dolorosamente la sua vittima (le frasi staliniane, qua e là, nei suoi saggi, non cambiano nulla, come un autocarro rumoroso e puzzolente, non altera la grandiosità e la struggente bellezza di un paesaggio)”.    

Francamente, non so se sia possibile una lettura “autonoma” di questo Diario di lavoro. Che di certo però non è solo un’opera “ancillare”, ad uso esclusivo dei lettori dei Confini dell’ombra, ma anche un’opera che (mi si perdoni il bisticcio!) ne “estende i confini”, spiega sì, ma anche arricchisce e complica il “ciclo africano”, riattivando quello slittamento metaforico che è già in ogni singolo romanzo o racconto: dove azione e riflessione – teatro della storia e teatro della mente – continuamente si scambiano la scena. È questo probabilmente il vero “marchio di fabbrica” di Spina: narratore puro di vicende umanissime e dolenti (“ingenue”, avrebbe detto Schiller), e al tempo stesso autore “sentimentale”, necessariamente autoriflessivo, sublimemente autosufficiente. “Alle volte ho l’impressione di essere un attore cieco, cui nessuno osi dire che il teatro è vuoto: ecco che continua, ridicolo e straziante, la sua elaboratissima rappresentazione. Ma forse è lui che si beffa dei pochi che lo osservano: sa bene che la platea è quasi vuota, ma il cuore è una platea, nella mente c’è il doppio del teatro vuoto, affollatissimo: di grandissimi personaggi, dei suoi maestri, di giovani mai esistiti. Oppure è lui la platea, e si gode la rappresentazione, ridicola e dolorosa, che i suoi personaggi gli offrono: chi non è capace di sostituire o bilanciare il mondo, non conosce le delizie dell’estraneità e la sua tragicità virile”.  “Alias-il Manifesto”, 2010