L’articolo di Sorel
su “Il dolore” è di quelli
espressamente concepiti per la proficua attività italiana che si sarebbe
estrinsecata, fra l’altro, nelle collaborazioni giornalistiche al “Resto
del Carlino” per gli auspici di uno dei
suoi maggiori corrispondenti nella penisola, Mario Missiroli,
direttore del giornale. Fu poi lo stesso Missiroli ad
ordinare diversi articoli degli anni che vanno dal 1910 al 1920, fra gli altri,
in un volume dell’editore Corbaccio dal quale preleviamo
“Il dolore” (L’Europa sotto la tormenta,
l’edizione è la seconda del 1941). Gli
anni di questi articoli sono quelli che vedono Sorel
porre attenzione all’attività dei nazionalisti francesi, intanto che alcuni dei
suoi numerosi discepoli italiani, sulle orme di Paolo Orano, facevano
altrettanto con quelli di casa propria, traghettando di fatto diversi soggetti
già votati al “sindacalismo rivoluzionario”, all’”azione diretta” e alle
libertà economiche, in prossimità (ma non fu il caso, ad esempio, di Enrico
Leone) di quello che sarebbe diventato il “corporativismo fascista”. Si tratta
dunque di un momento di grande importanza per delle tensioni ideali (e per le loro
conseguenze) troppo spesso giudicate con superficialità. In questo articolo,
nel quale – dal misticismo alle droghe agli spettacoli - si passano in rassegna
vari lenimenti, viene altresì posta l’arte quale alternativa alle afflizioni
del lavoro quasi nei termini che si sarebbero detti molto più tardi “marcusiani”.
Georges Sorel
il dolore
Quantunque la letteratura sui “sentimenti” sia assai considerevole, credo che nessuno sia ancora riuscito a far accettare ai pensatori moderni una teoria generale del dolore. Questa lacuna ha reso sterili le ipotesi metafisiche proposte per spiegare l’attività dell’anima. I pessimisti sono stati i soli filosofi che abbiano avuto delle vedute profonde su quest’argomento, perché hanno proclamato che il dolore è avvinto alle radici stesse della vita. Una volta si diceva che l’anima, mossa da una percezione e da un’idea, dava gli ordini al corpo perché manifestasse lo stato affettivo provocato. Ora, invece, si vede l’essenziale dell’emozione nelle modificazioni corporali, mentre l’anima si limita a prendere coscienza di questi fenomeni materiali. Quando ci si pone da questo punto di vista, occorre chiedersi quale dovrebbe essere il processo fisiologico corrispondente al dolore. Ribot ritiene che l’ipotesi più verosimile consista nell’attribuirlo a “modificazioni chimiche sopravvenute nei tessuti e nei nervi, e, principalmente, alla produzione di tossine locali o generalizzate nell’organismo”. Così stando le cose, il filosofo sarà condotto ad ammettere che il dolore corrisponde a una morte parziale di elementi viventi e, allora, come meravigliarsi che il dolore fisico e il dolore morale manifestino un’identità fondamentale, quantunque questa identità sembri ferire i pregiudizi della gran maggioranza degli uomini di mondo? Noi ci meravigliamo di vedere i pessimisti affermare che il dolore è essenziale ad ogni forma di vita, poiché non vi è punto vita senza morte parziale degli organi.
Si potrebbe dire che tutta la psicologia si svolge sulla lotta dello spirito inventivo contro le necessità organiche imposteci dal dolore: l’attività umana non cessa di inventare delle astuzie destinate ad introdurre nel mondo dei dolori. È assai probabile che le civiltà potrebbero venire classificate secondo la scelta delle invenzioni, che opponiamo a questo sentimento della morte progressiva, che risentiamo immanente al dolore. Voglio dare, qui, in compendio, un ragguaglio delle astuzie del piacere, senza, però, avere la pretesa di classificarle in modo sistematico. Intendo soltanto mostrare quale sia la strabiliante varietà delle risorse di cui l’umanità dispone per nascondersi la legge del dolore universale. In epoche molto arretrate, gli asceti orientali realizzarono degli stati di estasi, che colpirono gli antichi. Fondandosi su quelle esperienze, si poté affermare che il male proviene dalla materia e che l’anima subì una decadenza penetrando nel corpo. I mistici cristiani hanno escogitato discipline assai meno barbare per raggiungere il perfetto riposo della coscienza; ma tutti i teologi sanno che è molto dannoso ai fedeli lasciarsi trascinare dall’orazione contemplativa, che può determinare un forte squilibrio delle facoltà; d’altronde bisogna passare per prove lunghe, dolorose, a volte atroci, prima di giungere alla pace. Non è che in casi eccezionalissimi che il misticismo può essere considerato come un mezzo di vivere al di sopra del dolore.
In un articolo su Amiel, che i filistei gli hanno rimproverato tante volte, Renan si domanda se la società per la temperanza, invece di combattere fanaticamente l’ubbriachezza, non farebbe meglio a mitigarne gli eccessi rendendola amabile e piacevole. Non v’è dubbio che per la grande maggioranza degli uomini l’ebbrezza è il modo normale per creare il piacere capace di sopprimere il dolore. Gran numero dei nostri contemporanei si abbandona all’uso dei narcotici più svariati; e pure al piacere dell’ebbrezza si può ricondurre l’uso dei profumi, di cui la nostra civiltà non comprende bene l’utilità. L’uso dei profumi è connesso, quasi ovunque, a delle invenzioni erotiche.
Nelle nostre grandi città i teatri e le riunioni musicali tengono il posto delle danze lubriche degli orientali e non è detto che la morale ci guadagni molto nel cambio. I romanzi non otterrebbero che un successo mediocre, se questo genere di letteratura non fosse adoperato in modo da provocare una vera eccitazione per il desiderio sessuale. Le cose dell’amore tengono dunque un posto enorme nella psicologia e Renan, a ragione, trovava “sorprendente che la scienza e la filosofia, adottando il partito frivolo delle persone di mondo, di trattare la causa misteriosa per eccellenza come semplice materia di scherzi, non avessero fatto dell’amore l’oggetto principale delle loro osservazioni e delle loro speculazioni” (Pagine sparse, pag. 421). Se la psicologia non ha ancora sfruttato questo ricco dominio, si è che ha creduto di potervi raccogliere che delle avventure, buone solamente per i romanzieri. Tengo per certo che la critica letteraria troverebbe di che ringiovanire e rifiorire, se si mettesse a considerare le invenzioni degli autori che prende a discutere, come dei rimedi escogitati nella lotta contro il dolore.
In ogni tempo si è scorto nella musica un mezzo potente per calmare i dolori delle anime afflitte da preoccupazioni e delusioni. L’immensa popolarità, ottenuta, durante il Secondo Impero, delle opere di Offenbach, trova la sua ragione nel fatto che esse corrispondevano ai bisogni di una società turbata da una sfrenata gara di affari borsistici. È probabile che le melodie e le buffonate facili a ritenersi costituiranno per molto tempo ancora il fondo dell’arte teatrale della nostra borghesia. E non sparliamo troppo del caffè-concerto, che offre al popolo delle distrazioni del medesimo genere; dobbiamo solo muovergli il rimprovero di eccitare troppo spesso gli appetiti erotici e di mancare di sana allegria. Il mondo attuale è triste, e, per molti anni ancora, non bisogna rifiutargli i mezzi che sono a sua disposizione per non restare sommerso dal dolore. I poeti ed i musicisti, che lavorano per le masse, potranno essere della più grande utilità alla civiltà, se riusciranno a contenere la grande ondata di dolore che si riversa sull’umanità. Ma non bisogna dimenticare che la musica è suscettibile di essere eseguita da un numero considerevolissimo di persone, mentre i poeti e gli scultori costituiranno sempre delle eccezioni, e che le arti plastiche non offrirebbero, dal nostro punto di vista, una grande utilità, se il lavoro industriale non costituisse una vera e propria forma d’arte.
L’epoca manifatturiera conobbe una spaventosa miseria intellettuale e morale delle classi operaie, perché l’estrema divisione della produzione aveva fatto sparire ogni carattere artistico nel processo industriale. Questa situazione tende manifestamente a cambiare dacché la fabbrica sostituisce la vecchia manifattura. Oggi si reclamano sempre più prodotti che richiedono grande cura nella preparazione e che non possono essere ottenuti che per mezzo di operai, che amino il loro lavoro e che rivelino tanto sentimento d’arte quanto possa rivelarne il prodotto offerto dall’antico artigiano.
Ma si dirà: il lavoro causa fatica e quindi fa rinascere il dolore. Occorre osservare che v’ha una gran differenza fra fatica e dolore. La prima ci avverte che è venuto il momento di riposarci; il dolore, invece, sopravviene solo quando noi non diamo ascolto a questo avvertimento. Gli operai non temono la fatica negli sport e, particolarmente, nelle corse ciclistiche. Gli sport costituiscono, per essi, una forma d’arte. Non c’è, quindi, ragione di considerare il lavoro moderato come doloroso, quando venga eseguito con vivo sentimento d’arte.