Omar Wisyam

Il soldatino

C’è qualcosa di disturbante nelle versioni italiane del “Soldatino di Stagno” (del 1838) di Hans Christian Andersen. Prima di tutto, senza leggere l’originale, non si capisce se è fatto di stagno o di piombo (tinsoldat vuole dire soldatino di stagno in danese, zinnsoldat in tedesco). Ma si trova pure la traduzione in cui il soldatino è di latta. La latta è un lamierino di ferro dolce con uno strato protettivo di stagno sulle due superfici. Quindi Omar, il nostro lettore, ha deciso che deve essere di stagno e ha chiuso la questione. Poi il titolo stesso varia da una versione all’altra. Der Standhaftige tinsoldat si trasforma nel coraggioso soldatino di stagno, nel tenace soldatino di stagno oppure nel coraggioso soldatino di piombo. Più corretto tenace che coraggioso. Tenace va inteso nel senso che il milite non arretra, che non vacilla, che è fermo, testardo e risoluto nei suoi propositi. Per una ascendenza etimologica relativa al suo nome anagrafico, Omar simpatizza con il protagonista della fiaba, e trova logico e umoristico il fatto che, sebbene con la gamba amputata, il soldatino sia saldo, stabile e pervicace già dal titolo; insomma per definizione (“malgrado questo difetto, o forse proprio per questo, aveva uno sguardo più fiero, più audace degli altri” si legge in una traduzione). Quanti soldatini aveva ricevuto in dono per il suo compleanno il bambino di Andersen? Anche questo è dubbio: in una versione sono “una ventina di soldatini di piombo allineati come in una parata”, in un’altra “venticinque soldati di stagno”, figli di un unico cucchiaio di stagno. Omar, testardo come il personaggio di stagno, verifica nell’originale danese che sono venticinque. La gamba mancante dell’ultimo era conseguenza della finale carenza di stagno: il vecchio cucchiaio non poteva darne di più. In una versione si legge che “il ragazzino lo prese in simpatia e divenne il suo soldatino preferito”. Preferenza inventata, perché, dopo il controllo, non risulta. Ma questo “gioco” ha stancato ormai Omar. Nella fiaba accade che, di notte, il soldatino monco fissa muto ed innamorato la ballerina ritta su una gamba sola di un castello di carta, mentre tutto intorno i giocattoli si animano di una loro propria vita. Però c’è un rivale in amore, “un losco figuro, uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto”, oppure, detto altrimenti, un “troll” (trolden in originale), che, nascosto nella tabacchiera, ne esce e minaccia il soldatino. L’indomani cominciano le disavventure. Il soldatino vola fuori dalla finestra, poi viene imbarcato su una nave di carta, durante la navigazione viene catturato da una caditoia e precipita nella fognatura e poi inghiottito da un pesce in mare, una volta pescato arriva al mercato ed infine acquistato per il pranzo della famiglia da cui era volato via. Ma non è la felice conclusione di tante perigliose peripezie, anzi il ritorno a casa rappresenta la sua fine, “in quel mentre uno dei bambini più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella stufa, e proprio senza alcun motivo, sicuramente era colpa del troll della tabacchiera” (I det samme tog den ene af smådrengene og kastede soldaten lige ind i kakkelovnen, og han gav slet ingen grund derfor; det var bestemt trolden i dåsen, der var skyld Deri). Un altro colpo di vento e anche la ballerina unisce il suo destino a quello del Soldatino, divorati entrambi dalle fiamme. Evidentemente la stufa che brucia i due amanti doveva essere aperta per accogliere la ballerina svolazzante. Ultimo problema è quello di determinare la responsabilità, perché la dizione “uno dei bambini più piccoli” sembra assolvere il bambino del compleanno. In altre versioni c’è un solo bambino, ma la responsabilità del gesto viene in genere addossata all’influenza negativa del troll. Che al bambino semplicemente non piaccia il soldatino storpio non si dice. Il rogo,  attribuito al troll, dovrebbe rappresentare le pulsioni (forse inconsce) del ragazzino. Il quale del resto, quando va a cercare il soldatino volato fuori dalla finestra, non riesce a trovarlo. Eppure non sarebbe dovuto essere così difficile. Pure l’azione di un vento capriccioso che prima spinge fuori dalla finestra e poi spinge dentro la stufa, uno dopo l’altro, i due amanti dovrebbe essere letta come una sorta di mascheratura. “Io sono il vento, sono la furia che passa e che porta con sé” sembra cantare l’Es, a meno che non sia l’Ich (la canzone, invece, è del 1959 e fu cantata, tra gli altri, da Mina, ed esordì al Festival di Sanremo nell’interpretazione di Arturo Testa). D’altronde la fiaba non fa cenno di un rimpianto del bambino per il suo valoroso militare di stagno. È un viaggio mitico quello del soldatino. Simile a quello del profeta minore Giona e di tanti altri personaggi letterari (Pinocchio ne farà uno dei genere quarantacinque dopo – un copione quel Collodi? Oh no! Soltanto arrivato un po’ in ritardo). Avrebbe dovuto essere decorato dal suo bambino un veterano mutilato così legato alla casa e alla causa. Che ci sia in questa fiaba l’incombere della mentalità funesta che un secolo dopo avrebbe travolto l’Europa? Un’anticipazione della dottrina della purezza della razza? Che il rogo nella stufa ci avvii lungo i binari che portano ai forni crematori? E infine, oggi che tutti i giocattoli sembrano obbedire a un rigido codice etico, in base al quale è interdetto, in ogni modo, alludere alla violenza reale del mondo, e dunque dalle vetrine sono scomparsi, vietati da questo bando vagamente ipocrita, i fuciletti, le pistole e i soldatini dell’infanzia del nostro Omar, questo soldatino di stagno, che ci fa condividere tutti i suoi pensieri, ci ha fatto scoprire che esso ha vissuto solo d’amore, di un amore puro, sublimato letteralmente in cielo, smentendo ogni sospetto di coltivare glorie guerresche di sangue e di suolo. Omar, cuore tenero, ritiene che Andersen, che già da bambino gli aveva fatto compiangere le sorti del piccolo milite fino alle lacrime, non possa essere sospettato (l’autore del Brutto Anatroccolo, di Scarpette Rosse, della Piccola Fiammiferaia! un autore il cui tema principale è la “diversità” - e la sua scarsa accettazione - e che poco indulge al lieto fine). Ma la famiglia borghese che il bambino della fiaba rappresenta? Che idee cominciavano a circolare a partire dalla seconda metà dell’Ottocento? Joseph Arthur de Gobineau pubblica il suo “Essai sur l’inégalité des races humaines” nel 1853-54. Forse è interessante seguire la traccia dell’eugenetica, a partire dalle “Inquiries into Human Faculty and Its Development” del 1883 di Francis Galton (in questo saggio avviene l’esordio del termine “eugenetica”,  preferito a quello usato in precedenza, “viricultura”, che però chiariva meglio la questione). I problemi sociali e sanitari legati al proletariato (tubercolosi, sifilide, alcolismo), manifestazioni di una contaminazione della specie, diffusa dagli strati più poveri della popolazione, dovevano essere eliminati. L’eugenetica si presentava come una teoria difensiva allo scopo di proteggere l’élite sociale dalla minaccia di regressione. Negli Stati Uniti, il ginecologo William Goodell (1829-1894) propose la castrazione e l’eliminazione degli “insani”, cioè dei matti. All’inizio del XX secolo fu coniato il termine “igiene razziale” dal dottor Alfred Ploetz. Ovviamente le dottrine della razza si servirono dell’eugenetica. Nel corso del Novecento le idee sono state attuate, sono diventate politiche di sterilizzazione obbligatoria in Germania, negli Stati Uniti e in tutta la Scandinavia, compresa la Danimarca (durante il processo di Norimberga i nazisti giustificarono le sterilizzazioni nel loro paese – oltre 450.000 – dichiarando di essersi ispirati agli Stati Uniti). Questa sorta di retrogusto amaro turba un po’ Omar, ma gli permette di apprezzare ancora di più il “diverso” Hans Christian Andersen.

 

Un altro “soldato”

Un pensiero turba il nostro lettore Omar. Da quando ha riletto la fiaba di Andersen si chiede cosa pensasse Enrico Toti quando pretese più volte di essere arruolato e aggregato ai reparti combattenti. Morì nei pressi di Monfalcone nell’agosto del 1916. La sua biografia è straordinaria e ben poco conosciuta, soprattutto oggi. Invito chi sia curioso a dare un’occhiata ad essa. Fu immortalato in una copertina della Domenica del Corriere, disegnata da Achille Beltrame e la fama che gli diede gli rimase appiccicata addosso. La retorica militarista non poteva che approfittarne. “Quante volte di notte i nostri proiettori sono serviti unicamente per far luce ai nemici usciti per soccorrere i feriti e seppellire i morti; potevamo annientarli, eppure un senso di pietà ci spingeva ad aiutarli”. Forse questa frase, tratta da una lettera a casa, ne dà un’immagine meno falsa.