Jean Montalbano
soggiorni perduti
Allorchè
i benefici effetti dei trasporti avvicinarono le prigioni mediterranee
(marsigliesi o algerine) l’amministrazione francese, per allontanare da occhi
metropolitani certi spettacoli disgustosi, pensò bene di offrire ai condannati
a lunghe pene un più definitivo viaggio di derelizione
(l’Inghilterra, previdente, si serviva, all’uopo, dell’Australia). La Caienna, stabilita come luogo di detenzione nel 1852 per
accogliervi gli oppositori del golpista Luigi Bonaparte
il Piccolo, vide partire i suoi ultimi ospiti un secolo più tardi quando ormai
le inchieste di un Albert Londres
o le proteste degli stessi indigeni (“cancro schifoso sul volto deformato della
Francia equinoziale” l’aveva definita nel 1937 il deputato Monnerville)
ne avevano stabilito l’inconciliabilità col la grandeur della patria dei
diritti. La studiosa Marion Godfroy ricorda nel suo
recente Bagnards (éditions du Chène 2002, con documentazione fotografica
dell’intricata vittoria vegetale sulla pietra) che già durante la rivoluzione
la Convenzione, fin dal 1792, aveva esaltato la stazione di deportazione della Guiana nella singolare via crucis dei preti refrattari; la
consuetudine, poi, l’aveva fatta progressivamente preferire ad un’Algeria
troppo vicina per compensare l’atto di clemenza che mutava la pena capitale in
ergastolo. Gli insubordinati post-1848 andranno così a costituire quella
manodopera gratuita, necessaria a sviluppare la colonia, che ormai scarseggiava
dopo l’abolizione della schiavitù; ma più che galeotti redenti dai lavori
forzati, la Caienna produrrà sogni di evasioni, nei condannati prima, nei
lettori di feuilletons e nei cinema poi: i vari Vidocq, Valjean, Jacob o Papillon, esseri immaginati o di carne sofferente
ma tutti destinati ad alimentare un’ininterrotta catena di fughe da un regime
infernale, a ricordare quanto deplorevole fosse quel suicidio di ogni istante
chiamato vita tranquilla o vita carceraria, “vita cenobitica da cappuccini, da
lumache e da forzati”. Creature di Hugo, Leroux o Charrière si
sovrapporranno sempre, romanzandone la galera ma anche ricordandone la
minaccia, ai profili, poniamo, degli ex-comunardi spediti laggiù a considerare
l’amara distanza dell’utopia; Alexandre Marius Jacob, il “lavoratore di
notte” che vi “risiedette” malgré
lui per un quarto di secolo (matricola 34777), lo espresse con lucido
disinganno: “Se è permesso sollevare dubbi sull’effetto curativo di questo
regime, dobbiamo ritenere probanti i suoi effetti preventivi. Così, da spartana
memoria, non credo che nessuno sia mai stato sottoposto a sostentamento più
frugale. Si tratterebbe di resurrezione delle idee care a Seneca
sotto forma di stoicismo alimentare? Questo o altro…è certo che la mia salute è
al riparo da ogni accidente dovuto all’acido urico…” e poi, con ancor più
ironico distacco (alla madre nel dicembre 1920): “ come il diavolo, mi sono
fatto eremita e, benché la mia tebaide sia cosparsa di lunghe spine, posso
tuttavia gustarvi grandi e sane gioie intellettuali. Imporsi volontariamente
qualche ’tu devi’ imperativo, ridere dove altri
gemono, sopportare fieramente l’indigenza, ricercarla anzi, vergognandosi di
provare vergogna, ecco ciò che si chiama vivere e, alla bisogna, può
giustificare il saper-morire. Rendersi conto dell’assoluta verità delle cose e
malgrado ciò- a causa di ciò, forse- convenire che è più vano ancora parlare di
vanità. In questo conflitto di pensiero è l’Ecclesiaste
ad aver ragione: ‘Un cane vivo è meglio di un leone morto’.
Su, non tormentarti per niente. Non siamo più al tempo meraviglioso in cui si
abbattevano mura al suono delle trombe. Oggi si adoperano per questo ufficio
obici da mille chili. E’ l’eloquenza del momento…”.