Jean Montalbano
(Not) all covered in dust
Quando sul finire degli anni
cinquanta Alan Lomax profetizzò un grande futuro, per l’allora ventenne Shirley
Collins, solo attraverso la padronanza (di là da venire) di quel che gli
irlandesi chiamano blas (la maestria
completa del cantante in grado di ricreare intimamente quanto gli viene
tramandato) non sospettava forse che già all’ingresso nel successivo decennio
la sua ex compagna si sarebbe imposta come figura guida, spingendosi oltre la
pur notevole riproposta del passato: la firma, assieme a Davey Graham, in calce
all’album Folk Roots, New Routes
(1964) che stringeva nell’urgenza di pochi minuti decenni di pericolanti
tradizioni per consegnarli alterati da umori jazz/blues/etnici alla folk
renaissance in pieno rigoglio, avveniva dopo anni di skiffle (dalla cui
impurità presto la Collins si era distolta) e parallelamente al consolidarsi
dei nuovi tribalismi rock, testimoniando inoltre, accanto all’assimilazione dei
vari Copper o MacColl, una certa aristocraticità nelle scelte dell’ex cameriera
del Troubadour. Il canto tramandato usciva dalle trasmissioni domenicali della
BBC e dai polverosi fogli degli archivi per essere disinvoltamente
tradito/compromesso (dissipato, avrebbero mormorato altri, scuotendo il capo)
dalla prensile sensibilità dello strumentista Graham, quasi a sancire
l’impossibilità per la tradizione di darsi come
tale. Forzatamente e fortunatamente le folle non se ne accorsero, ma quando
dieci anni dopo si pubblicò il cofanetto quadruplo The electric muse, la fonte segreta di molti riffs più o meno
elettrificati (da Jansch e Renbourn a Page e Thompson) fu riconosciuta in quei
solchi: tardi perché sia Graham che Collins potessero capitalizzare in termini
di visibilità tanto prestigio iniziatico.
La cantante, in coppia con Dolly,
sorella maggiore ed arrangiatrice, si era volontariamente costretta alla
custodia maniacale di un repertorio di musiche ed esperienze (avvertito in via
di sparizione durante le ricerche condotte in patria e nelle ex colonie)
bisognoso di essere “salvato” disdegnando le facilità dei gruppi folk rock,
Graham oramai svuotato da una bruciante ansia di sperimentazioni vivacchiava
nel ricordo di pochi: per entrambi quel disco fu, spesso ad oltranza,
considerato pietra di paragone d’ogni ulteriore mossa creativa.
In effetti, non mancarono alla Collins altre avventurose
collaborazioni come la tangenza con la musica
antica di Munrow o Hogwood (Anthems in Eden 1968) o l’Incredible
String Band a virare verso l’acido il puro latte della memoria, ma in quegli
anni ogni suono, per quanto eccentrico o barocco, pareva dovuto, facile ed
inevitabile come il destino che troncava i sogni delle eroine o necessitava il
crimine dei poveracci da lei cantati.
Ha dunque un sapore di definitiva
consacrazione e non di muffa archeologica il cofanetto Within sound di quattro
compact disc da poco pubblicato dall’etichetta Fledg’ling, dove, accanto agli estratti da album per molto tempo
scomparsi dalla circolazione, si propongono quelle rarità (soprattutto live)
che ne motivano l’acquisto, il tutto accompagnato dalle note scritte per ogni
brano dalla cantante inglese (va detto comunque che l’epoca d’oro resta grosso
modo il decennio sixties): vi si
troveranno versioni struggenti e “di riferimento” di Bonny Labouring Boy, Geordie, Pretty Saro,Over The Hills And Far Away,
The Blacksmith oppure Polly On the
Shore apprese dagli ultimi grandi interpreti viventi (Harry Cox e Gorge
Maynard tra gli altri), dalle ricerche di Vaughan Williams o intuite nei versi
incerti di più accademiche raccolte.
Di famiglia socialista, stabilita
nel Sussex, Shirley ricorda ancora le canzoni intonate con i familiari alle
riunioni labour prima degli inni in
chiesa e l’elezione della biblioteca londinese dell’English Folk Dance and Song
Society come seconda casa: pur se da adolescente visitò, invitata, i paesi
oltrecortina, quelle frequentazioni l’avrebbero portata a privilegiare comunque
il repertorio rurale, più vicino al cuore
nero dell’Inghilterra, lasciando ad altri, più seriosi e spregiatori di
love songs contadine, il coté industriale e urbano. Alle spalle, il nonno,
scusato per le frequenti visite ai pub del circondario in quanto archivio
vivente, ma sempre da aggiornare, di un patrimonio in via di sparizione, la
nonna a trasmettere, con l’improbabile sonno, quella vena di canto sventurato
che, anche quando le notti passate nei rifugi antiaerei furono un ricordo,
continuò a scorrere nei momenti più leggeri dell’Albion Band. Esperienze che
avrebbero segnato le scelte di repertorio oltre che stilistiche di Shirley
Collins, sostenuta dalla sottile vena di eccentricità irlandese della sorella
Dolly disposta, nei suoi momenti gitani (e in mancanza del caravan d’ordinanza)
a trasformare un vecchio bus a due piani, arenato nella campagna, nel posto
giusto per vivere e suonare.
Questa fedeltà alla terra, che
altri videro come limitazione, le ha permesso di restare vicino, secondo la
rima ground/sound, ad un suono tanto
disincarnato da rischiare la sparizione (che avvenne traumaticamente negli anni
ottanta) e che solo l’ostinata stima di vecchi e nuovi ammiratori ha consentito
di preservare per i tempi perlopiù grami del compact disc. Come a chiudere e
rilanciare quel circolo di scoperte e ritrovamenti che per un felice caso aveva
portato la giovane Collins a stanare nel 1959 insieme a Lomax, da una boscaglia
del Mississippi, un allampanato Fred McDowell.
“we
know by the sky that we are not too high
we know by the moon that we are not too soon
we know by the stars that we are not too far
and we
know by the ground that we are within sound”.