Francesco Rognoni

Shakespeare postcoloniale

 

 

Anche se il titolo, così accademico e minacciosamente in inglese, lascia un po’ sospettosi, Postcolonial Shakespeare (a cura di Masolino D’Amico e Simona Corso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 277, euro 34,00) è un libro agile, di piacevole e proficua consultazione. Dedicato a Viola Papetti in occasione del suo ritiro dall’insegnamento (che le lascerà più tempo per scrivere, anche sulle pagine di Alias!), il volume raccoglie gli interventi dell’omonimo convegno, svoltosi all’Università di Roma III, tre inverni fa, e una manciata d’altri contributi aggiuntisi per via: tutti scritti in italiano, salvo un paio. Tenendosi alla larga – grazie al cielo! – dalle disquisizioni troppo teoriche (ma è sempre salutare una puntualizzazione come questa di Franco Marenco: che “Benjamin, Gramsci, Orwell non possono essere dimenticati quando si parla di Said, come di Foulcault, di Jameson ecc.”), i diciannove autori spaziano dentro e fuori molti drammi shakespeariani, anche se, per forza di cose, Otello (soprattutto) e la Tempesta sono i più gettonati.

I singoli saggi s’intitolano spesso con felice e talvolta spiritosa suggestività geografica: Desdemona in Mauritania (Papetti), Amazzoni nel nuovo mondo (Marenco), Othello fiorisce a Bollywood (Pennacchia), Hamlet Turn’d Turke (Lupić), Il Moro di Porto Marghera (Luppi). Si discetta di fonti shakespeariane: l’avrà conosciuta, il nostro Bardo, la Descrizione dell’Africa e delle cose notabili che quivi sono di Leone l’Africano (un più simpatico antenato di Magdi Allam)? è solo una coincidenza che il vigoroso nostromo della Tempesta sembri citare – senza pedanteria, s’intende – la Repubblica di Platone? Ma soprattutto si tratta di Shakespeare come fonte, anzi come “palinsesto”: di traduzione, adattamento, appropriazione, reinvenzione – in Irlanda come in Canada, in India come in Sudafrica, nei Caraibi o nei paesi arabi.

Ai nomi celeberrimi di Walcott e Coetzee, e a quelli piuttosto noti di Andrè Brick e Ann-Marie MacDonald (l’autrice di quel bel romanzone Adelphi, Chiedi perdono, qui però in veste di drammaturga), si affiancano i meno conosciuti o affatto ignoti Marina Werner, Frank McGuinness, Sulayman Al-Bassam, Irfan Horozović... Né viene trascurato il cinema (Shakespearewallah di Ivory e Merchant, il Bollywoodiano Omkara); e c’è perfino un balletto di Lar Lubovitch, in scena a New York con un Otello afroamericano e una Desdemona cinese-cinese. Shakespeare letto e interpretato dall’altro, insomma: amato-odiato (“Sono irlandese”, dichiarava Oscar Wilde, “ma gli inglesi mi hanno condannato a parlare la lingua di Shakespeare”), talvolta percepito con sorprendente, “straniante” esattezza. Chi se l’immaginava, per esempio, che Sidney Poitier si è sempre rifiutato di interpretare la parte di Otello, imbarazzato dalla sua credulità? Allora forse è meglio Aaron, il perfido moro del Tito Andronico, che canta le lodi della sua razza: “Nero come il carbone  è il colore più bello / perché rifiuta di mischiarsi con gli altri; / neppure tutta l’acqua dell’oceano / riesce a imbiancare le zampe nere del cigno / anche se si ostinasse a lavarle nei flutti”. 

Ma anche certe riscritture o distorsioni nostrane sono prese in considerazione. Shaul Bassi (autore di un bel commento all’Otello, pubblicato l’anno scorso dalla Marsilio)  mostra come l’ideologia fascista cercasse di appropriarsi di Shakespeare, spingendolo tutto “dalla parte di Cesare” a dispetto del fatto che l’eroe del Julius Caesar è verisimilmente Bruto (e comunque la più orgogliosa dichiarazione di “romanità” di tutto il teatro shakespeariano – I am more an antique Roman than a Dane – è pronunciata da un aspirante suicida!). Se mancano l’Ambleto e il Macbetto di Testori, sono però presi in considerazione i due rifacimenti italiani proposti alla Biennale di Venezia del ’74, Othello, perché? di Memè Perlini e Cassio governa a Cipro di Giorgio Manganelli – quest’ultimo ricordato, oltre che per certe brucianti intuizioni critiche (“Gli eroi non hanno figli. Il loro [di Otello e Desdemona] matrimonio è nato per celebrare la reciproca distruzione”), anche per il racconto Un amore impossibile (in Agli dei ulteriori), straordinaria conversazione epistolare fra Amleto e la Principessa di Clèves. 

Mentre non mi sembra citato da nessuna parte, ed è un peccato, lo struggente corto di Pasolini, Cosa sono le nuvole. In Racine e Shakespeare Stendhal racconta che, a una rappresentazione dell’Otello a Baltimora nel 1822, un soldato a guardia del teatro era intervenuto sul palcoscenico per impedire che il moro strangolasse la moglie, al grido: “Non fia mai che in un negro maledetto uccida una donna bianca sotto i miei occhi!” Che è quel che avviene – ma senza spinte razziste, in rozzo spirito di cavalleria – anche nel film di Pasolini, quando un povero pubblico di bifolchi si scatena in difesa di una vezzosa Desdemona e le marionette Totò-Iago e Ninetto Davoli-Otello, massacrate di botte, malconce ma immortali, sono gettate in una discarica a cielo aperto: un cielo dove, bellissime, trascorrono le nuvole.