CarloRomano
sconfitte
A Hiroshima, dopo lo scoppio della bomba atomica, fra i ricoverati
degli ospedali fece capolino una sorta di allegria allorquando prese a
diffondersi la diceria che un’analoga esplosione l’avesse provocata il Giappone
colpendo le città americane. Nello stesso periodo, alcuni membri ebrei della
resistenza polacca ebbero in progetto di avvelenare le riserve d’acqua della
Germania, così da provocare la morte di milioni di tedeschi. Quello della
vendetta è uno dei sentimenti che, insieme ad altri, come la revanche o
l’emulazione del vincitore, soggiace all’analisi che Wolfgang Schivelbusch ha
dedicato al tema della sconfitta, prendendo in esame, ne La cultura dei
vinti (Il Mulino), le rappresentazioni suscitate dalla guerra di secessione
americana, dalla Francia di Sedan e dalla Germania nel 1918.
Il primo di questi conflitti,
benché la sua localizzazione ne limitasse il raggio delle dirette
conseguenze, riveste un’importanza particolare non soltanto per il durevole
ricordo che segna ancora una differenza di costume civile fra gli americani, ma
per l’essere spesso riconosciuto come il primo dei conflitti moderni, sia per
la sperimentazione delle tecnologie che per la teorizzazione, da parte dei
militari unionisti, del coinvolgimento delle popolazioni civili. Alla fine
della guerra, il generale Sheridan, in uno scambio di vedute con lo stato
maggiore prussiano, si stupì dei metodi tradizionali impiegati dai tedeschi e consigliò
di fare come avevano fatto lui e Sherman, di causare cioè tante sofferenze alle
popolazioni in modo da costringere i governi a chiedere la pace.
Il comportamento in guerra era soltanto l’ultima delle differenze fra
il Nord e il Sud degli Stati Uniti. Presso alcune famiglie meridionali, refrattarie
al puritanesimo degli yankee, erano
coltivate persino delle fantasie concernenti ascendenze meno scontate di quelle
anglosassoni. Fra i gentiluomini, perdurava inoltre l’influenza dei romanzi
cavallereschi di Walter Scott. Quanto al problema della schiavitù, si
rimproverava il Nord di averla impiegata in termini inaccettabili tanto che il
suo superamento era avvenuto attraverso il disumano sistema del lavoro
salariato (fra l’altro, il massimo studioso novecentesco dell’economia
schiavistica, Eugene D. Genovese, marxista ortodosso, sarebbe stato via via
sempre più indulgente e solidale col mondo meridionale, mentre William Faulkner
avrebbe sostenuto che il razzismo erta stato portato nel meridione dai “bottegai”
yankee). Fra i sostenitori del Sud c’era per giunta chi assimilava
l’organizzazione schiavista ai falansteri socialisti di Fourier. Per un altro
verso, il libero inserimento dei propri prodotti nei mercati – pregiudicato dal
protezionismo nordista – si voleva coniugasse l’individualismo a un’idea
comunitaria sconosciuta ai capitalisti dell’Unione (tema che in qualche modo
sarà riecheggiato decenni dopo nei documenti del gruppo politico-letterario dei
Southern agrarians) cosicché politici liberali quali John C. Calhoun,
giustificavano insieme la libertà economica e lo schiavismo.
Con la vittoria degli unionisti, l’auto-rappresentazione dei
confederati dovette fare i conti con un nuovo processo di nazionalizzazione, vale
a dire con l’auspicio di una ritrovata “fraternità”. Se da una parte si
chiedeva una qualche forma di purificazione e di ricostruzione morale,
dall’altra si esigevano rispetto per la nobiltà della sconfitta e, schiavismo a
parte, riconoscimento per il valore delle proprie tradizioni, elementi che
entravano in una nuova rappresentazione di sé sintetizzata dal giornalista e
avventuriero Edward A. Pollard con parole che hanno effettivamente qualcosa di
profetico: “non ci sarà forse un Sud politico, ma potrà esserci un Sud
intellettuale”.
Wolfgang Schivelbush – la cui fama di saggista è affidata a temi
speciali come i viaggi in ferrovia (Einaudi) e la storia dei generi voluttuari
(Bruno Mondadori) – nell’affrontare questo e gli altri casi del libro, ha in
cuore soprattutto le largamente inesplorate ricadute psicologiche e culturali
delle sconfitte, ma si attiene più al registro dei dati che a quello delle
interpretazioni, il che conferisce tuttavia indubbia agilità al suo racconto. Diverso
è il caso dell’introduzione alla versione italiana, affidata dall’editore a uno
degli studiosi della sua ragguardevole scuderia, quel Roberto Vivarelli, legato
alla sinistra democratica, che qualche anno fa raccontò del suo arruolamento,
quattordicenne, nelle file di Salò (al pari del fratello Piero - autore de Il
tuo bacio è come un rock e regista di vari “musicarelli” nonché di un film
interessante come Il dio serpente – che per parte sua si ritrovò comunista
sfegatato, unico italiano iscritto al partito comunista cubano). Le personali
esperienze di Vivarelli sono un’ulteriore risorsa di penetrazione fra gli
avvenimenti scatenati dall’8 settembre, di cui egli si occupa in questa
introduzione, e ha dunque poco senso ragionare in termini di “auto-assoluzione”
come capita di riscontrare in occasioni del genere. Il fatto è che, almeno a
una prima lettura, questo testo, malgrado le non comuni riflessioni, appare
inconcludente. Dopo tutto, se si parla, in relazione a quegli avvenimenti, di
“morte della patria”, è lecito chiedersi non solo come l’Italia sia “rinata”,
ma perché.
“Il secolo XIX”, 10 aprile 2006