Al riparo dal frastuono della città, in un piccolo cortile trasformato in giardino, quella di Arturo Schwarz è una straordinaria casa della vita nel cuore della vecchia Milano. Dietro la grande parete di vetro, un vecchio padiglione industriale è diventato un guscio luminoso su tre piani che lascia senza fiato. Come altrettante presenze e numi tutelari, quadri, sculture, oggetti rari tappezzano muri e ripiani: Duchamp e Max Ernst, Dorothea Tanning, Jacques Hérold e Baj, maschere e totem, sculture papua e scudi africani. Non meno sorprendente è l’ala della casa riservata ai quarantamila volumi di una biblioteca frutto della varietà d’ interessi e della sete di conoscenza del padrone di casa, dedito a una ininterrotta investigazione sul rapporto tra libertà dell’uomo e mondo con l’obiettivo di un umanesimo che lo migliori. Lo rivelano i suoi saggi e i suoi versi.
Figura eccentrica e cosmopolita,
Arturo Schwarz è apprezzato a livello internazionale come storico dell’arte,
saggista e poeta. Lui ama definirsi un ateo-anarchico, un surrealista e un ebreo, anche, come recita il titolo
duchampiano del suo ultimo libro, nove riflessioni di carattere
storico-filosofico in cui, sul filo della Bibbia e del Talmud, di Spinoza e di
Freud, propone la sua visione del mondo e il suo senso della vita. Spaziando
dalla Cabala al tantrismo,
dall’arte tribale e preistorica a
quella d’avanguardia, dall’alchimia al marxismo, ha pubblicato una cinquantina
di testi e celebri sono le sue monografie su Breton, Duchamp e Man Ray di cui è
stato amico. Ma non è tutto. Grande esperto e collezionista di dada e del
surrealismo, movimenti che ha fortemente
contribuito a far conoscere in Italia, ha costruito con ostinato rigore una
prestigiosa raccolta di opere che in grandissima parte, quasi 450 pezzi, sono
finalmente approdati alla Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma mentre la
biblioteca che comprende le preziose e assai rare collezioni di riviste ed edizioni
dell’avanguardia storica sono destinate ad Israele.
Perché dividere un patrimonio così importante, soprattutto per la documentazione dada e
surrealista che in Italia è davvero unica?
E’ anche la più completa al mondo, lo scriva! La storia è lunga. Una ventina d’anni fa, ho cercato di donare allo Stato Italiano tutte le mie raccolte d’arte e la biblioteca ma l’allora ministro dei Beni culturali, Bono Parrino, mi fece scrivere da un avvocato chiedendomi come osavo proporre allo Stato una raccolta pornografica, anticlericale, e sovversiva. Allora, ho pensato a Milano ma alla mia sollecitazione il sindaco Borghini non ha neanche risposto. E così mi sono rivolto a Israele che mi ha steso un tappeto rosso, accogliendo tutto. Solo allora l’Italia si è mossa ma, nonostante l’interesse di due galantuomini come Ronchey e Paolucci, con cui avevo concordato di dividerla con Israele, due cadute di governo hanno rallentato la trattativa andata in porto soltanto nel 1997. E poiché i libri li hanno rifiutati, invece di darli al Getty museum che mi ha offerto due milioni di dollari, li ho donati a Israele.
Il suo definirsi ebreo è un po’ paradossale. Oltre all’interesse da
studioso, che legame ha con i testi sacri?
Ho ricevuto un’educazione molto laica, sono un laico, ma non rinuncio né al Rosh Hashana, il Capodanno ebraico, né allo Yon Kippur. Si tratta di una presenza fisica, la testimonianza della mia appartenenza a un popolo e a una cultura. Mi interessa la conclusione della festa, il discorso finale del rabbino, che non ha nessun carattere teologico ma è una riflessione sulla situazione attuale. Mi piace anche la musica, il suono dello shofar che evoca molti ricordi, e soprattutto un archetipo: l’inizio è dato da un suono, come nella mitologia indù. Lo sento come un segno di rinnovo e di continuità. La Bibbia è diventata una mia lettura molto tardi, tra il 1945 e il 1946, quando ho cominciato ad interessarmi della Cabala, un’interpretazione di carattere esoterico della Torà , i primi 5 libri della Bibbia.
Si tratta forse di un interesse mistico? Si direbbe che dalla Bibbia le
derivi un senso religioso della vita…
Sì, ma assolutamente laico! Per me, il primo testo formativo è stato, nell’adolescenza, l’Etica di Spinoza. Prima, ricordo mi avevano molto suggestionato Il tallone di ferro di Jack London, una violentissima requisitoria contro la società e La madre di Gorki. Da bambino leggevo anche i romanzi di Jules Verne, in francese, perché vivevo ad Alessandria d’Egitto dove sono nato. In casa c’erano libri, ma ho cominciato a costruire una mia biblioteca, prestissimo, e l’Etica di Spinoza è stata una scoperta fondamentale perché il concetto sublime della natura naturante-natura naturata dava conferma alla mia indole di ateo. La dicotomia tra creatura e creatore per me era inacettabile, avevo una visione molto monista del tutto, mi ritenevo una goccia di energia coagulata nell’immenso ciclo che chiamiamo universo al quale è destinata a tornare. Più o meno nello stesso periodo, intorno ai sedici anni, ho scritto un saggetto sulla Critica della ragion pura di Kant, esaltandone le antinomie che provano la non esistenza di dio, ma più che ammiratore di Kant mi sento un post-hegeliano. L’anno dopo ho scoperto e letto Il Manifesto di Marx. Mi ha colpito per il rigetto di un tabu che allora era universale, l’idea “lavoratori di tutti i paesi unitevi”, il rifiuto del sistema di oppressione capitalista e della necessità di arrivare a una società nuova di eguaglianza e fratellanza per me era fondamentale. Più tardi mi sono interessato a Plotino, ma i tre filosofi veramente formativi per me sono stati, oltre a Spinoza, Eraclito e Lao Tze. I loro libri li andavo scovare in una libreria dove passavo ogni sabato, ed è lì che più tardi ho scoperto Breton, attraverso Le revolver à cheveux blancs, una raccolta di poesie uscita nel 1934. A quell’epoca, erano i primi anni anni quaranta, scrivevo già poesie e per me fu una sorpresa perché anch’io mi esprimevo secondo un certo automatismo.
A Breton e al surrealismo ha rivolto un interesse profondo e costante
che spiega anche la scelta di indicare come suoi libri fondamentali, oltre ai Manifesti
del surrealismo, il Manifesto del
partito comunista di Marx-Engels e L’interpretazione
dei sogni
di Freud.
Il surrealismo mi dava conferma delle mie idee, del mio modus
vivendi - dalla poesia come strumento di conoscenza alla necessità di cambiare
la vita e il mondo, dall’esaltazione della donna al suo ruolo salvifico. In
quel periodo avevo scoperto un altro libro importantissimo, Il Matriarcato di
Johan Jacob Bachofen, che dimostra quanto essenziale sia stato il ruolo
femminile nelle civiltà: tessitura, agricoltura, farmacologia, astrologia e
altre attività, sono invenzioni legate
alla donna che scrutava il cielo e la natura mentre l’uomo andava a caccia… I Manifesti del surrealismo costituiscono
la dimensione poetica della psicoanalisi freudiana. Ci insegnano che
l’inconscio ha un ruolo considerevole nella nostra vita, che la donna è il fulcro dell’esistenza, che
la poesia non significa fare le rime, ma esprimere il sé interiore e che è indispensabile praticare la poesia e dunque
non avere solamente delle idee politiche ma militare in un movimento politico
nel senso di un umanesimo trascendente con la volontà di migliorare il mondo. Trasformare se stessi per cambiare il
mondo.
Esattamente. Il surrealismo è stato l’unico movimento tra le due guerre a salvare l’onore dell’intelligentia europea antistalinista, antifascista e antinazista. Nel 1935, un documento come Al tempo in cui i surrealisti avevano ragione fa capire che per essere rivoluzionari bisogna essere antistalinisti e antinazisti. Lo stalinismo è stato la lebbra del movimento operaio e i Manifesti del surrealismo per me sono stati fondamentali perché ci insegnano a non disgiungere la nostra filosofia della vita dalle nostre azioni.
Mi riferisco all’autentica nozione di anarchia, contraria al disordine e alla violenza perché la sua filosofia si basa sul principio che non si può arrivare a una società fraterna usando un mezzo che nega il fine cui vuole approdare. Anarchia significa voler trasformare l’individuo prché poi trasformi la società. Il marxismo predica il contrario. Mette il carro davanti ai buoi, prima pensa alla società e poi all’individuo. Per rivoluzione intendo la trasformazione dell’individuo attraverso la conoscenza di sé e l’amore, gli unici strumenti per farci capire chi siamo veramente, nel nostro miscuglio di animus e anima, maschile e femminile, per usare i termini di Jung. Ha a che fare con l’uguaglianza e il rispetto dell’uno per l’altro. Peter Kropotkin, un grande teorico dell’Anarchismo, nel bellissimo Il mutuo appoggio dimostra che se la società è andata avanti è stato non secondo il principio capitalistico della competizione ma grazie a quello della collaborazione.
Nella sua precoce formazione filosofica e ideologica, si avverte un
netto rifiuto del principio d’autorità. Ribellione al padre, alla sua classe
sociale?
Ma non solo. Ero contro tutta la società capitalista, tutta la struttura ideologica e filosofica del capitalismo. Io amavo e rispettavo altri valori. Mia madre era figlia di un generale italiano specialista in telecomunicazioni, chiamato ad Alessandria per organizzare le poste egiziane. Mio padre era un chimico, inventore di un sistema per disidratare vegetali e merci varie, che aveva impiantato una rete di industrie utilissime per l’esportazione di prodotti agricoli. Lo stimavo moltissimo, ma ero la pecora nera della famiglia e le mie prime esperienze politiche le ho fatte organizzando degli scioperi proprio nella sua fabbrica…Ero molto diverso da mio fratello, anche fisicamente, e molto presto ho cominciato a voler organizzare la mia vita in modo autonomo, rifiutando ogni dogmatismo.
Le sezioni della sua biblioteca –letteratura greco-latina, filosofia
moderna, arte-antropologia culturale, musica e gioco, numeri e geometria, Cina
ed estremo Oriente,
psicoanalisi-psichiatria, teologia ebraica, Storia-marxismo, Politica di
Cuba e Cina, Egitto-archeologia, Paesi arabi-Ebraismo, dimostrano un esclusivo
interesse per la saggistica, per i classici e per la poesia, soprattutto
francese, americana e inglese, che riempie gli scaffali del suo studio. Ma il
racconto e il romanzo?
In effetti, è una mia lacuna. Ho letto molto giovane qualche romanzo, ma poi sono stato così preso dai miei interessi e studi di carattere filosofico e psicoanalitico, che per me sono stati formativi. Tra i miei autori, ci sono anche Darwin e Einstein. Sul principio dell’evoluzione delle speci umane c’è un fraintendimento totale che la società capitalista ha sfruttato. Darwin non ha mai detto che sopravvive il più forte, ma il contrario. Sopravvive chi meglio si adatta al proprio ambiente, cioè il più intelligente. Tant’è vero che i dinosauri sono scomparsi dalla faccia della terra. Darwin ha avuto lo stesso ruolo di Galileo, insegnandoci che l’uomo è al centro di tutto, il punto finale di un processo evolutivo e solo gli imbecilli possono ribellarsi all’idea che l’uomo derivi dalla scimmia. Einstein invece col suo principio della relatività ci insegna che quanto succede a livello cosmico nell’universo che ci circonda è anche attuale a livello umano.. Sono stato l’editore italiano del suo Idee e opinioni, specchio di un grande umanista e di un pacifista il cui unico scopo è stato arrivare alla conoscenza più ampia possibile. Ci sono testi come Nadja o L’amour fou, che amo e che ho riletto più volte, ma non sono dei veri e propri romanzi, come non lo è Le rivage des Syrtes di Julien Gracq. Preferisco la poesia, la leggo continuamente, la scrivo. I due poeti cui sono visceralmente attaccato sono André Breton e Benjamin Péret. L’Union libre e Fata Morgana di Breton sono due poesie che mi accompagnano.
Esaltazione della donna e dell’eros, rapporto libero da convenzioni;
filosofia di vita come resistenza intransigente alle restrizioni della libertà,
speranza: surrealismo puro.
Ma è la mia vita! Aggiungo Pierre Réverdy e Réné Char con cui ho avuto una fitta corrispondenza. Può sembrare assurdo, per me i maggiori poeti di ogni tempo sono Breton e Péret. Certo, anche Rimbaud, Baudelaire, Mallarmé, lo sono, ma in fondo non nelle mie corde
Beh,..(esita) confesso che la trovo provinciale. Se debbo scegliere, penso a Giordano Bruno e Tommaso Campanella, o a Errico Malatesta e al filosofo Giulio Preti. Seguo la saggistica italiana contemporanea, stimo immensamente Piergiorgio Odifreddi, di cui ho molto apprezzato Perché non possiamo dirci cristiani. Leggo i poeti, Campana, Caproni, amo Saba e il primo Ungaretti, quello di “Siamo come foglie d’inverno” che considero quasi surrealista. Saba mi piace tutto, è più coerente e ad accomunarmi a lui è il fatto che sia stato libraio per molti anni, come me.
Da ex libraio ed editore, cosa pensa del bassissimo tasso di lettura in
Italia?
Case editrici non mancano. Feltrinelli, Garzanti, Adelphi, Einaudi fanno onore alla cultura italiana con cataloghi di rilievo ma i lettori sono quelli che sono, perché viviamo in un regime clericofascista da quasi un secolo. Adesso, poi…
“La Stampa-TTL”, 13 dicembre 2008