Massimo Bacigalupo
Savage. Il mio stellare Idaho
Thomas Savage (1915-2003) è un narratore del Montana che ebbe un
certo seguito in vita e fece appena in tempo a vedere rilanciati nel XXI secolo
due suoi romanzi, Il potere del cane
(del 1967) e La regina delle greggi,
che era uscito nel 1977 col titolo Ho udito mia sorella pronunciare il mio
nome. Questa volta l’accoglienza critica è stata migliore, i due
romanzi sono arrivati in Francia e in Italia, dove è recente la pubblicazione
di La regina delle greggi in
una calibrata traduzione di Stefano Beretta (Ponte
alle Grazie, pp. 265, €15,00). Già nel 1995 Savage si
era guadagnato una voce nell’Oxford Companion to American Literature, ottimo dizionario di cui esiste una
meritoria edizione italiana del 1993 (Gremese), che
dunque ancora ignora la riabilitazione di Savage. Nel
nuovo Oxford si dice che i suoi romanzi sono “non meno potenti di quelli
di qualsiasi altro romanziere americano del Novecento”.
La regina delle greggi conferma che si tratta di uno
scrittore notevole, che sa evocare un mondo corposo e preciso, quello favoloso
del Nord Ovest USA, con il suo Spartiacque Continentale e i suoi boschi, ranch,
allevamenti, villaggi, saloon, bordelli, capitali di stato con le loro brave
cupole neoclassiche in mezzo a un territorio estremo, che passa dal deserto
alle montagne, dai rodeo ai fiumi impetuosi. Savage
sviluppa materiale autobiografico componendolo in una struttura narrativa i cui
artifici rivelano il mestiere più che l’ispirazione. Segreto del narratore, si
sa, è fare aspettare, e non c’è capitolo che non si chiuda con una sorpresa, di
solito una lettera con un dato che ci serve a ricomporre il collage della
vicenda. Per certi versi La regina
delle greggi potrebbe definirsi un romanzo epistolare.
Infatti quasi tutti i
fatti principali passano per l’ufficio postale della cittadina del Maine dove
vive Tom Burton, uno
scrittore soddisfatto di sé che ha lasciato il natio Montana per divenire
spettatore ironico del mondo della Nuova Inghilterra, e visita l’ufficio
postale quotidianamente e osserva le immagini dei ricercati che vi sono
esposte. Una lettera di una zia materna rimasta nel West lo avverte che un
avvocato di Seattle s’è fatto vivo con l’informazione che la sua cliente Amy Nofzinger è una sorella di Tom, partorita in segreto e data in adozione dalla madre,
la bella e impulsiva Beth. All’incredulità delle zie
e di Tom a poco a poco si oppongono prove
irrefutabili: Beth era incinta quando nel 1911 sposò
il marito Ben, bello quanto inaffidabile, e decise di nascondere il parto e
abbandonare la bambina anche perché poco prima aveva perso un amato fratellino,
Tom-Dick. Abbandonata dal farfallone Ben, torna a
vivere dai genitori e si risposa con il proprietario di un ranch vicino, da cui
ha una figlia, ma ha una vita infelice soprattutto a causa del cognato Ed, che
la perseguita e le mette contro il marito e la bambinaa.
Questa vicenda era già quella centrale di Il
potere del cane, e sorprende che Savage
l’abbia di nuovo sfruttata – anche se più brevemente - in un secondo romanzo a dieci anni dal
precedente. Ma era una storia dai risvolti autobiografici, e dunque Savage aveva la giustificazione dell’ossessione. In Il potere del cane è il figlio
adottivo che giunto nel ranch del patrigno riesce a uccidere lo zio carogna;
qui lo zio muore dello stesso morbo rarissimo ma per ragioni naturali, non
prima di aver rovinato la vita a Beth e al fratello,
e Tom diventa uno scrittore sconfessando l’eredità di
allevatore e proprietario terriero.
Il titolo originale del
romanzo, Ho udito mia sorella
pronunciare il mio nome, sottolineava la vicenda dell’adozione, della
sorella inaspettatamente ritrovata con commozione, perché essa rivela il
segreto che assillava la bella Beth. Il titolo della
nuova edizione mette invece l’accento sul personaggio della nonna del
narratore, Emma Sweringen, che crea un impero di
greggi partendo dalle due pecore che il marito accomodante le regala per il
compleanno, divenendo la “Sheep Queen
of Idaho”. Ad essa è dedicata tutta la parte II del
romanzo. La vediamo lasciare la sua casa in Illinois per il West, scendere in
un posto sconosciuto dove il treno si ferma, attratta dai milioni di stelle che
vede in cielo, sposare il figlio di un fortunato e determinato cercatore d’oro,
mettere al mondo una nidiata di figli, diventare una proprietaria di sterminati
terreni e una astuta conoscitrice delle leggi dell’economia che alla vigilia
della I guerra mondiale sente l’aria che tira e investe nella lana che servirà
sia a Tommy che a Fritz,
cioè sia agli inglesi che ai tedeschi. C’è anche un pizzico di passione
insoddisfatta in questa Emma dominatrice, e Savage si
diverte a narrare del treno che attraversa per ore le sue proprietà, su cui
Emma e Beth incontreranno il tentatore Ben, e ha
accenti toccanti quando riferisce nelle ultime pagine la perdita del
figlioletto dovuta in qualche modo all’ostinazione di Emma.
Ora questa nonna
leggendaria non è che la nonna di Savage, Emma
(appunto) Yearian (c.1880-1951), la vera “Sheep Queen of Idaho”, che tirò su sei figli e fu deputata repubblicana
nel parlamento dello stato nel 1931-32 (e infatti Savage
racconta che Emma dissente in politica dal tranquillo marito, democratico
convinto). Questa figura di donna imperiosa ricorda il Canto delle pianure di un altro scrittore del West coetaneo
di Savage, Wright Morris, e a monte la figura poderosa di Alexandra
in O pionieri! (1913) di Willa Cather, che va detto
precorse con grande anticipo e sensibilità questo tipo di evocazione (la donna
che si identifica amorosamente con la terra, tanto da essere praticamente una
grande madre autonoma rispetto al mondo dei maschi). Ma la Cather
è una scrittrice di maggior calibro, che costruisce le sue opere su intuizioni
liriche e non su un canovaccio narrativo. Un recensore della prima edizione di La regina delle greggi lamentava
uno scollamento fra le varie parti: la storia della figlia abbandonata, dello
scrittore che ha vissuto col patrigno e il suo fratello-mostro, della bella
moglie infelice, non ha un legame
essenziale con l’ammirevole Emma che va a Boise nell’Idaho a dettar legge e tratta con i grossi banchieri
mormoni di Salt Lake City.
Dunque La regina delle greggi non è un’opera di immaginazione ma di fantasia, per usare la distinzione cara ai romantici: non tanto creativa quanto costruita. Ma i suoi materiali sono genuini, e il vecchio trucco del narratore non manca di funzionare. Cosa dirà la formidabile Emma scoprendo che per la prima e ultima volta il marito e la figlia hanno contravvenuto alla sua volontà permettendo al bellimbusto Ben di deturpare con una scritta pubblicitaria quel magnifico fienile bianco? Mentre ce lo chiediamo e Savage dilaziona esasperatamente la risposta, ogni dettaglio del ranch, anche i tredici scalini da un piano all’altro, si ingigantisce, e respiriamo l’aria corroborante dell’Idaho. Dove i rodeos si aprono invocando la benedizione di Dio sul “più grande paese del mondo” e il sole tramonta su monti rossi e glabri. E appaiono milioni di stelle.
“Il Manifesto-Alias”,
5 giugno 2004