Carlo Romano
Sartrearon
Da qualche tempo
“ragione” e “torto” hanno in Italia due nomi precisi. Se qualcuno, sulla scorta
di qualche filosofo “analitico” o anche “decostruttore”,
aveva pensato di mettere le due parole fra quelle sospette e prive dell’autoevidenza che il senso comune le attribuisce, deve ora
ricredersi. A far chiarezza hanno badato in gran numero gli opinionisti
politici e i letterati a tutto campo, quelli che il giusto e lo sbagliato lo
maneggiano come i calzini, un giorno l’uno e un giorno l’altro. Non è dato
dunque sapere cosa saranno domani, ma oggi ha sovranità la certezza: “ragione”
è l’altro nome di Raymond Aron, “torto” quello di Jean Paul Sartre.
Una doppia commemorazione nel centenario della nascita che ha costretto nel più
pavloviano dei riflessi i già prevedibili chierici
dell’aria che tira. Il duo di amici-nemici poteva (aveva da) essere un trio, ma
per non complicarsi la vita i metereologi della
correttezza celebrativa hanno tenuto ad opportuna distanza Paul
Nizan e i suoi passaggi dal sindacalismo al partito
comunista, da questo a Valois (il discepolo di Sorel fondatore del primo movimento fascista francese,
scomparso poi a Buchenwald) e di nuovo al comunismo
come intellettuale di punta, per morire a Dunkerque
fuori dal partito. C’era da rompersi la testa, così ai tre virtualmente
centenari amici di gioventù si è semplificata la storia nella contrapposizione
fra due di loro, il signorile e ponderato liberale Aron (ma non tutti i veri liberali
sarebbero d’accordo nel dirlo tale: socialdemocratico piuttosto,
variante gollista) e lo scriba sciocco Sartre
inviluppato dalla Ghepeù ai tavoli del caffè. I conti
sono stati regolati, Sartre è demodé, Aron ha vinto:
fine. Mi chiedo se ci sia solo la fretta dietro tanta sicumera. Sartre avrà anche avuto torto marcio, ma è solo questo l’importante?
Si chiede forse a Cèline di esser men
che perfido? Il guaio è che tutti questi a sentir loro liberalissimi
commentatori hanno solo la politica in testa. Perlomeno il compianto Lucio
Colletti – che anche quand’era marxista lo disistimava – argomentando intorno Sartre e alla sua filosofia come “di vecchie banalità” coglieva
involontariamente, pur nella maldicenza, il segno: “manipolatore assai abile,
più che mente rigorosa”. Se lo si fosse detto di Palazzeschi
o di Oscar Wilde sarebbe stato, in qualche modo, un
complimento. E questo è il punto, non potrebbe esserlo anche per Sartre? E per quello più indigesto, aggiungo. Non nego che
le ragioni di Aron fossero buone, dico solo che la lettura è un evento più
intricato della ragione e del torto. Ci vogliono probabilmente dei romanzi dove
si stringe il mazzo dei giornali. Nel 1968, ai tempi del “radioso maggio”, urgevano
per Sartre le vecchie ruggini personali. Aron, diceva,
ripete all’infinito le idee della sua tesi di laurea, crede “che pensare al
proprio tavolo, e la stessa cosa per anni, sia l’esercizio supremo
dell’intelligenza”. I nostri letterati a tutto campo avevano da chiosare un
campione della malizia - nel variopinto solco francese dei Voltaire e dei Leon Bloy, cosa peraltro ben
capita dallo stesso Aron - ma era fuori dalla “linea” che dettavano, fuori
dalla moda, fuori dalla storia. Nemmeno gli stupefacenti erano più gli stessi.
“Il
Secolo XIX”, 31 marzo 2005