le voci che corrono

John Singer Sargent e l’Italia

 

> Sargent e l’Italia: Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 22 settembre 2002 al 6 gennaio 2003. Mostra e catalogo a cura di Richard Ormond e Elaine Kilmurray

Italiano di nascita e di elezione, pur essendo diventato uno dei piu' amati pittori tra '800 e '900, John Singer Sargent è, nel paese che ha incarnato per lui i più alti ideali artistici, pressoché uno sconosciuto. A colmare la lacuna, arriva ora la mostra del Palazzo dei Diamanti di Ferrara che dal 22 settembre ospiterà le opere di Sargent. La rassegna, intitolata “Sargent e l'Italia, è stata organizzata da Ferrara Arte in collaborazione con il Los Angeles County Museum of Art e curata da Richard Ormond ed Elaine Kilmurray, tra i massimi studiosi del pittore americano, di cui hanno realizzato il catalogo ragionato. Anche se ha dell'incredibile, è davvero la prima volta di Sargent in Italia … Conosciuto soprattutto come raffinato ritrattista del bel mondo internazionale, amato e conteso da artisti, intellettuali, politici, Sargent fu anche sensibile paesaggista, instancabile viaggiatore e sperimentatore in pittura, ancora oggi molto apprezzato dal mercato dell'arte dove i suoi dipinti sono stati battuti nelle aste internazionali a cifre record (11 milioni di dollari per un suo olio nel 1996). L'Italia, che invece, a 77 anni dalla nascita non lo conosce ancora, lo ha visto nascere a Firenze, nel 1856, da genitori americani, il chirurgo Fitzwilliam Sargent e Mary Newbold Singer, donna colta, appassionata di arte e letteratura, proveniente da una agiata famiglia di Filadelfia. Di salute cagionevole, la madre cercava nelle più temperate stagioni mediterranee un sollievo ai suoi mali (e a quelli dei figli) e permise a John e alle sue sorelle di trascorrere l'infanzia nelle più belle città europee, acquisendo un carattere cosmopolita che segnerà tutta la sua arte. Il giovane Sargent cresce infatti tra l'Italia, la Spagna, la Francia, la Svizzera e la Germania, mentre la madre lo incoraggia ad assecondare la sua passione per la pittura. I continui spostamenti, se da un lato, creano ostacoli alla sua formazione scolastica, dall'altro gli offrono suggestioni impensabili per gli altri ragazzi. A Firenze, intorno al 1870, si iscrive infine all'Accademia di Belle Arti, decisione che lo porta presto a trasferirsi a Parigi, all'epoca indiscussa capitale dell'arte moderna. Dal 1874 e' nell'atelier di Carolus-Duran, con cui instaura un profondo rapporto umano oltre che artistico. Diventa amico anche di Claude Monet … ed espone ai primi Salon. La sua permanenza parigina, il vero trampolino di lancio per Sargent, viene inframmezzata da viaggi in Italia, Spagna, Marocco, Tunisia. … L'amicizia con il romanziere Henry James gli apre le porte dei circoli culturali londinesi e proprio in Inghilterra comincia la riflessione di Sergent sulla pittura “en plein air”. Qui inizia a produrre le prime opere impressioniste e nel 1887 si reca da Monet a Giverny, mentre l'anno successivo la sua prima mostra personale riscuote a Boston un larghissimo successo. Tornato a Londra, riprende di nuovo a viaggiare: Egitto, Grecia,Turchia, Siria, Spagna e ancora Italia. … La mostra 'Sargent e l'Italia', dopo Palazzo dei Diamanti, varchera' l'oceano per essere allestita negli usa, al Denver Art Museum.

ANSA,16 settembre 2002

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Quando era ormai il ritrattista più celebre della sua generazione, ricercatissimo e retribuitissimo, al punto che l'amico Rodin, da lui ritratto, lo chiamava "il Van Dyck della nostra epoca", ed addirittura le grandi personalità del suo tempo, in tutta Europa ed America, dovevano fare anticamera di mesi, per meritarsi uno straccio di tela, baciato dal suo pennello rapido e fumigante, e magari portarsi da casa i mobili prediletti, per lo sfondo, perché lui non si spostava più dal suo studio, John Sargent ebbe una volta uno sbotto incontrollato di sincerità, nei confronti d'una povera, sconvolta dama, che implorava il suo virtuosismo: "Cara Lady Radnor, mi chieda di tutto, di dipingere il suo cancello, i suoi steccati, i suoi fienili - cosa che farei davvero volentieri - ma non più il volto umano". E tassativo, all'amico Ralph Curtis: "Mi fanno orrore, non voglio più saperne di far ritratti, soprattutto di persone dell'alta società".

Questa premessa calza “a pennello”, è il caso di dire, se ci introduciamo da ignari nella mostra ferrarese su Sargent e l'Italia. Una mostra coraggiosa, voluta da Andrea Buzzoni ed affidata ai maggiori conoscitori dell'artista, ben congegnata, ma con un taglio assai settoriale.

Perché è dedicata soprattutto all' 'altro' Sargent, quello che intorno ai quarant'anni decise di sprezzare per sempre la sua carriera fortunatissima di ritrattista à la page (un qualcosa di impensabile per i suoi rivali: e pensiamo al maestro di tutti, Winterhalter, o a Zuloaga, o a Boldini) e di limitarsi a viaggiare e privilegiare, appunto, soltanto cancelli, o vedute inconsuete di chiese barocche arbitrariamente ritagliate alla base, dettagli di fontane e di sculture immerse nel verde, magari nel liquido volteggiare dell'acquerello.

Certo, a chi non conosce del tutto (e sono molti, in Italia) le prodezze ritrattistiche del grande virtuoso del pennello, che "disegnava con il colore", e a detta di chi lo scrutava dipingere, così assorto da non rendersi conto di nulla, pareva duellare in trance con la tela, assestando poche stoccate rapide ed infallibili, bisogna, al cospetto di questi paesaggi scabri e di queste fosche vedute di Venezia, suggerire uno sforzo di fantasia e di fideismo.

Del resto la vera novità “scandalosa” dell'artista americano (che conobbe la sua patria soltanto ventenne, perché pochi ricordano che in realtà nacque a Firenze, nel 1856, e crebbe parigino, accanto agli amici Monet e Manet pur non sposando la causa impressionista - classico rappresentante della cultura cosmopolita fin de siècle, che padroneggiava molte lingue, anche pittoriche) fu proprio quella di osar portare sulla tela (e dentro il deflagrare dell'olio) il non-finito magro e gracile, che è tipico dello schizzo disegnato, manieristicamente sbozzato (con grande strepito dei suoi committenti, che spesso non si riconoscevano in quel mare burrascoso di gesti scheggiati, e rinnegavano la tela).

… Comunque si consiglia anche di procedere innanzi nella cronologia e di giungere all'ultima stanza, facendosi soggiogare per un attimo dal ritratto neo-vandyckiano della Marchesa Spinola o magnetizzare dall'intenso sguardo del suo amico romanziere e protettore Henry James, chiuso nei suoi pudori vittoriani, come il suo trafficato panciotto di zitello. Che “s'alza e s'abbassa quasi un mare in tempesta”: come scrisse divertito il romanziere Edmund Gosse a Thomas Hardy.

Perché in fondo i ritratti che abbiamo incontrato nelle prime sale, tra le melmose vedute d'una Venezia in agonia (che è la stessa cantata da Proust e da Barrès) o le forti vedute petrose dalle cave di marmo di Carrara, sono già le tappe del suo tardo periodo, ritroso e solitario, lontano dal chiasso della mondanità. La moderna “diva” Eleonora Duse, che ha ammirato in Fedora, gli concede un fiato irrequieto di posa: e lui ci restituisce uno spettro d'ectoplasma incenerito, una fiammata d'occhi spenti, assediati dal vuoto. Brandisce nervosamente il sigaro, come se fosse un pennello, il suo amico pittore Antonio Mancini ed affumiga la tela.

Suggerendoci un sogno di mostra: come sarebbe bello ripensare l'arte di Michetti, Mancini, Morelli e Previati, attraverso il confronto con Sargent, Whistler e lo spagnolo Sorolla.

Marco Vallora, “La stampa”, 14 ottobre 2002