Sanguineti stimolato da Galletta in  una inedita intervista, originalmente proposta da un'emittente televisiva (Telecittà) in tre diverse puntate. Altre  interviste dalla stessa origine confluirono  a suo tempo nel libro, curato dallo stesso Galletta, Sanguineti/Novecento. Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo (Il Melangolo, Genova 2006). La seguente ne rimase fuori poiché era motivata dalla pubblicazione di un  altro libro il cui tema di fondo si sovrapponeva, in estrema sintesi, al tema generale del nuovo. Nella trascrizione, non facile, abbiamo cercato di mantenere il carattere spontaneamente colloquiale del testo, conservando alcuni "intercalare" e facendo soltanto piccoli tagli in elementi del resto ripetitivi. L’intervista è stata pubblicata da “Fogli di Via” (Fondazione De Ferrari, novembre 2010).

Giuliano Galletta – Edoardo Sanguineti

900. Conversazione inedita

G – È uscito proprio in questi giorni un suo nuovo volume, Atlante del 900 italiano (con le foto di Giovanni Giovanetti, Manni editore, 2001) si tratta di una galleria fotografica di autori introdotta da una lunga e interessante intervista che lei ha rilasciato a Erminio Risso, che ha curato il volume. L’ordine è rigorosamente alfabetico e quindi non ha funzioni gerarchiche e di valore, ma altri criteri sono stati applicati a questa scelta. Quali?

S – Mah, la cosa nacque dalla proposta dell’editore. L’editore Manni di Lecce voleva appunto fare per il 2000 (perché la cosa è stata trascinata per un certo tempo) un albo fotografico della letteratura del 900 - però non riducendolo alle nude immagini. A me l’idea piaceva, dissi così subito sì, poi rimasi un po’ bloccato perché il problema era appunto come commentare e, in qualche modo, motivare la selezione, come ordinarla, come organizzarla, ecco. Di qui una serie di riflessioni. Per esempio, l’editore diceva: si potrebbe mettere, che so, un breve giudizio sotto ogni immagine, oppure una citazione di ogni autore, ma diventava un compito rischioso. Era più facile scrivere 10 pagine di saggio su ogni figura, forse, che riuscire a trovare quella frase efficace, anche perché molte di queste figure sono assai complesse, contraddittorie, con una loro storia. Allora trovammo questa soluzione: iniziare con un colloquio, che ho realizzato poi con un giovane studioso, Erminio Risso. E questo giustificava un poco la costruzione, più che, di volta in volta, motivare le presenze o le assenze.

Procedevo da alcune considerazioni: non volevo fare un canone. L’idea di scegliere il meglio del 900, i maggiori, i grandi, questo non mi pareva persuasivo ecco, questo richiede allora davvero molta argomentazione quindi se io faccio una storia letteraria o, come avevo fatto nel ’69 limitatamente alla poesia, un’antologia, devo chiarire come organizzo il discorso, perché alcuni scrittori sono presenti, magari ampiamente, e altri o sono assenti o rappresentati in forma molto marginale. Qui, invece, la selezione voleva essere organizzata entro un numero ragionevole di presenze. Si partì con l’idea di 50 o 100 e poi scoprii che alla fine erano 74  (che non è un numero cabalistico, ma erano quelle) con naturalmente anche molte incertezze perdurate fino in fondo, questo sì, questo no, insomma, rimaneva un problema sempre comunque piuttosto delicato. A un certo punto ho chiuso così.

Ma voleva essere quasi una galleria, dicevo, di allegorie e cioè di figure che permettessero di percorrere il secolo mettendo in evidenza alcuni nodi o problemi. Ognuno di loro rappresentava, anche se non era meccanicamente traducibile, un atteggiamento, un modo di affrontare la cultura letteraria, l’espressione, l’ideologia, il linguaggio, la storia; raccolte insieme offrivano, in qualche modo, un paesaggio del secolo. Quindi il titolo di atlante corrisponde un poco a quest’idea. In un atlante si mettono, di solito, le città più rilevanti, ma spesso l’atlante mette in luce l’importanza di una minima città  in ragione, che so, dei suoi tesori d’arte. Siamo dunque nei paraggi dell'atlante, ma è diverso da un atlante che assume dei criteri che, in qualche modo, sono più oggettivabili: metto i fiumi di maggior portata e di maggiore lunghezza, metto le città che sono capoluoghi e ne trascuro altre. Possiamo forse pensare a un atlante storico. In più la cosa che mi divertiva era anche questa strategia: atlante storico sì, ma non storicamente ordinato. Cioè l’ordine scelto era l’ordine alfabetico perché, anche qui, o si argomentava molto - questo avevo potuto farlo appunto nell’antologia di poesia - o si organizzava una sequenza come si addice a un albo o a un atlante.

In più, l’ultima cosa che volevo ancora far notare, è che in un’antologia, appunto, io posso dosare il rilievo. Qui c'è un ordine alfabetico, ognuno ha una pagina, e può trattarsi non necessariamente di un poeta o di un romanziere, nemmeno di un letterato nel senso aulico della parola, ma di un etnologo, di scrittori che noi consideriamo rilevanti per il loro ruolo, ecco. Mi interessava rappresentare la cultura che si esprime verbalmente e che, fondamentalmente, si appoggia certo, per intenderci, su quello che bene o male oggi possiamo concepire come l’ambito letterario.

 

G – Uno dei metri di valutazione e, quindi di scelta degli autori da inserire in questi 74 che compongono il libro, è quello del peso che questi intellettuali italiani hanno avuto nella cultura europea. Ecco, ci può dire quali sono, fra questi, quelli che hanno avuto un ruolo maggiore, che hanno avuto più peso?

S – Qui vorrei non rispondere. Non rispondere per le ragioni di fondo che indicavo prima, cioè la mia idea, in questo atlante, era proprio quella di attenuare al massimo un’idea gerarchica. Prendere queste figure come sintomi di una situazione. Allora alcuni, certamente, hanno un peso più forte proprio all’interno della cultura nazionale e altri, invece, hanno ricevuto un più ampio o più precoce riconoscimento al di fuori dei confini nazionali. La loro fama, e gloria, spesso è stata importata più dall’eco avuto nell’Europa o nel mondo, che non da un’attenzione immediata. Però, certamente, ci voleva essere anche la proposta di guardare secondo un’ottica europea ad autori che siamo, sì, abituati a considerare significativi, ma per un ambito più ristretto. Si sa che il problema dei rapporti tra una cultura nazionale, una lingua, diciamo, che semplifica ancora di più le cose, e le altre culture, è sempre molto complicato.

Assistiamo continuamente a casi che noi consideriamo di sottovalutazione o di sopravvalutazione di autori nostri e viceversa. Gli stranieri spesso guardano con stupore all'importanza che diamo a certi autori che loro considerano marginali, oppure trascuriamo il peso di altri. Io volevo, con questa proposta, non tanto, fare un catalogo di privilegiati (come dicevo prima: non un canone) ma suggerire più che altro un’idea, offrire una traccia, dove ciascuno forse poi è stimolato ad apportare delle correzioni, oserei dire persino di fatto, togliere una fotografia e metterne un’altra di autore considerato per lui molto più rappresentativo, molto più sintomatico. Mi son preso la responsabilità di fare una proposta, di dire guardate, avrò torto, avrò ragione, questi sono a mio parere, con un’ottica non di simpatia e nemmeno di giudizio di grandezza, quelli, come dicevo prima, sintomatici, quelli che sono stati discussi o che se non lo sono stati perché, a mio parere, ingiustamente trascurati e, in qualche caso, addirittura dimenticati o mai, se non molto episodicamente, riconosciuti, questi sono quelli che permettono di delineare una certa immagine. Se non siete d’accordo, vi valga come proposta per dire: ecco, io faccio tutt’altro paesaggio. È un paesaggio, ecco.

 

G – In un passaggio della sua intervista introduttiva lei dà un giudizio, in qualche modo, negativo sul 900 italiano. Dice, in sostanza, rispondendo a qualcuno che osservava come questo secolo sia stato ricco di autori in ambito letterario, lei rispondeva: “non sono convinto fino in fondo che sia così”. Perché?

S – L'impressione (la mia impressione e questo anche, appunto, è da discutersi evidentemente) è che il 900 italiano sia, in un certo senso, ricco per quello che riguarda la pluralità delle direzioni con cui si è mosso, cioè c’è una folla abbastanza ricca. Io, come ho detto, ne propongo 74 - ma questo non è un numero magico, insomma. Potevo metterne  150 e  credo che a quel punto avrei avuto molto minori obiezioni. Potevo ridurmi ulteriormente, rendere la cosa anche più tagliente, ma mi pareva fosse un peccato sacrificare alcune figure. Allora io posso essere d’accordo sull’idea che il 900 sia un secolo ricco, se pensiamo appunto a questa possibile elasticità. E in questa direzione può apparire più ricco, e forse lo è.

Ma se si esclude la formula, a me cara, che ciò che è stato significativo sono le avanguardie, manca quella specie di formula riassuntiva di identificazione. Se noi diciamo che l’800 è il secolo romantico, evidentemente operiamo una semplificazione, però questa semplificazione appare abbastanza persuasiva, poi potrò osservare quanti movimenti e quante modalità diverse di interpretare il romanticismo e quante cose questa formula copre male o imperfettamente. E così come quando parlo di un secolo che posso indicare come barocco, l’illuminismo, il rinascimento, l’umanesimo, queste formule, come tutte le formule che devono ordinare una realtà molto complessa, possono essere discusse e rifiutate, ma insomma possono esistere. Se rifiuto quella che a me è cara, cioè l’idea delle avanguardie, ma apro a nodi conflittuali - e questo non è un atlante delle avanguardie novecentesche - manca la forza della figura di sostegno. E quindi se, se ripeto, penso alla ricchezza di direzioni, sì, è un secolo tanto ricco da risultare difficilmente afferrabile in una formula unitaria. Ma non mi pare che esistano altre formule, per quello che è l’ambito della cultura letteraria, o della cultura artistica, altrettanto capaci di essere riassuntive, ripeto.

Invece come figure di davvero dominante grandezza, ecco lì, mi pare che le cose siano più complicate, certamente c’è una quantità di autori degne di interesse, di attenzione. Ma ho l’impressione che quando si dice: “va bene adesso ditemi chi sono i grandi del secolo”, io, personalmente, sento sorgere in me delle riserve, anche di fronte ad autori di incontestabile rilievo. E quindi, mentre fuori d’Italia mi sembra che ci sia una grande ricchezza di figure decisive, forse, non altrettanto c'è in ambito nazionale. E questo mi sembra che, anche qui, in modo molto generico, possa riguardare anche l’ambito musicale, pittorico, cinematografico.

Tuttavia in queste direzioni è più facile segnare la presenza di alcune figure più compatte e piene. È un secolo, si potrebbe dire così, come mia impressione, che non offre dei classici. Non è una parola che amo, ma per chi la ami e dica: “ma insomma, i classici del 900 quali sono?”. Sono troppi per essere davvero tutti classici e quelli che, in qualche modo, potrebbero essere designati, non mi sembra che abbiano quel rilievo e quella portata che in altri momenti la nostra storia letteraria ha conosciuto.

 

G – Ma secondo lei non c’è un rapporto fra l’avanguardia - che di per sé è dispersa, frammentaria e si incarna in vari spazi di creatività diffusa - e il classico?

S – Ho scelto 74 caselle per poter disporre un'idea di paesaggio, di panorama, ecco, e devo fare anche i conti, per entrare nel merito della sua domanda, col motto di Lautreamont, uno dei grandi padri storici dell’avanguardia novecentesca: “la poesia deve essere fatta da tutti e non da uno” Si può spiegare perché le avanguardie, organizzandosi in movimenti, tendano proprio ad una sorta di collettività dell’operazione culturale, anche quando c’è una figura dominante all’interno del movimento, e non sempre c’è. Chi è il grande dadaista? Posso dire che il surrealismo ha avuto un capo in Breton. Se penso al futurismo, posso pensare a Marinetti. Posso anche dire che, forse, il futurismo migliore non è quello di Marinetti. Posso dire che i migliori risultati il surrealismo non li ha dati con Breton ma con altri autori, non solo letterati. Ma se dico espressionismo?

Di per sé l’avanguardia può creare delle figure grandissime e, qui anche, occorre aggiungere una cosa: che posso pensare all’avanguardia in due modi ed è bene tener conto d’entrambi, da un lato certamente, i grandi movimenti e questo vale soprattutto per la prima metà del 900, oppure posso pensarla anche come caratterizzata da figure di grande rilievo che spezzano la continuità, ma non sono vincolate particolarmente a un movimento.

D’altra parte, figure come quelle, prendiamo una figura la cui grandezza mi pare indiscussa e forse rimarrà indiscutibile, come quella di Picasso, che cos’è stato? Posso domandarmelo, ma non posso mettere in dubbio che Picasso sia un uomo dell’avanguardia, anzi, in un certo senso troppa grazia, troppe avanguardie, per poterlo stringere in una sola. Joyce non appartiene propriamente a nessun movimento dell’avanguardia. Se penso a Kafka come a un espressionista, uso più un’immagine che non un raccordo con un’etichetta precisa. Alcuni movimenti sono molto rigidi e fondati su un canone, insomma esisteva un decalogo ortodosso, più o meno rigido, più o meno limpido, per un Marinetti o per un Breton, ma appunto nel surrealismo e nel futurismo. Quindi la complessità anche dell’idea di avanguardia è ricca perché offre una lettura anche al di fuori degli ismi, che sono molto utili per segnare un decorso, ma non esauriscono il momento dell’avanguardia, ecco. Ci sono anche figure singole che operano senza, e questo nel secondo 900 poi diventa nitido quando gli ismi tendono a deprimersi. Godard è certamente un uomo dell’avanguardia, ma non ha in fondo delle etichette, certo nouvelle vague o cose di questo genere, ma appunto, l’indefinitezza stessa dell’etichetta la dice lunga.

 

G – Vorrei, con lei, fare una specie di gioco. Sappiamo che non ha voluto in nessun modo dare un ordine gerarchico a questa galleria che è, appunto, in ordine alfabetico e quindi, in modo un po’ casuale, le dirò dei nomi e lei mi sintetizzerà il motivo per cui ha inserito l’autore nella galleria. Cominciamo dall’ordine alfabetico e parliamo di Alvaro, di Corrado Alvaro.

S – Sì, Alvaro. Non è che io possa parlare di riabilitazione, sarebbe eccessivo, però nella generale economia delle diagnosi culturali del 900, in fondo, non è considerato tra quelli più significativi e immediatamente necessari. Io credo che la sua esperienza ripercorsa con maggior attenzione valga la pena di essere risollevata. Anche perché ci sono zone di cultura meridionale che, per il fatto stesso che sono radicate, appunto, in zone geograficamente non egemoni dal punto di vista culturale, hanno un poco sofferto. Con Alvaro, al di là di quello che è il suo significato personale, poiché appunto mi interessava una sorta di allegoricità, si vuole portare un poco l’attenzione su coloro che hanno guardato al mondo tradizionale italiano, con le sue radici contadine o pastorali, ecco, arcaiche, nello stesso tempo con una grande attenzione all’esperienza della modernità e al trapasso fra due culture. Lo ha espresso in forme narrative, fondamentalmente, ma sta a rappresentare un poco questo senso della trasformazione di un paese, ecco, partendo da esperienze molto concrete.

 

G – Lei inserisce due etnologi, diciamo così, antropologi: De Martino e Lanternari. Perché?

S – De Martino è stato certamente, credo per riconoscimento generale, il grande etnologo italiano. Mi pareva giusto che una scelta come questa avesse qui rappresentatività forte. Ho un poco sofferto e sono stato incerto se mettere qualche rappresentante della psicoanalisi, per esempio. Però, forse, in un albo, che si potrebbe fare parallelo, dedicato al mondo della scienza trovavo una collocazione più illustre, ecco. Anche se, evidentemente, molti tra coloro che qui sono presenti vogliono rappresentare anche un’attenzione al mondo psicoanalitico. Ma l’etnologia che, evidentemente, è una scienza, come la storia, come la politica, hanno interferenze più evidenti con quello che noi chiamiamo il mondo della scrittura e della letteratura. Anche se, per chiuderla su questo punto, Freud, giustamente è stato osservato, era anche un grandissimo scrittore, proprio come narratore, come prosatore, come organizzatore di storie, ecco. Avevo il timore che però l’antropologia, se non indicata così, rimanesse davvero dimenticata, mentre lo sguardo etnografico o antropologico mi sembra un tratto essenziale del 900. Ed era anche un modo di indicare una zona che spesso i letterati non hanno praticato adeguatamente. Ora De Martino è un poco, così, il padre non dico fondatore insomma, ma rifondatore certamente, alla luce della modernità, di questo sapere in Italia.

Ma devo dire che chi mi stava anche più a cuore per rappresentatività e perché, forse maggiormente bisognoso di una messa in evidenza, è Lanternari che io considero una delle più grandi figure della cultura novecentesca italiana, in generale. Particolarmente per una sua opera, che fu la sua opera prima di grande rilievo, La grande festa che, ai miei occhi insomma, alla mia riflessione, appare uno, veramente, dei testi fondamentali a livello internazionale. Ora di Lanternari parlano gli specialisti, anche perché la sua ricerca poi si è orientata verso cose molto precise, le nuove religioni africane, i nuovi culti, gli incroci tra mondi magici e acculturazione coloniale o neocoloniale. Ma questo libro fondatore, proprio per la sua portata di metodo, quest’idea che cerca davvero di leggere fino in fondo in chiave di materialismo storico, l’idea che i modi di produzione di una cultura determinino e organizzino, in qualche modo, l’intera visione del mondo di una civiltà. E che quindi una cultura pastorale concepisce Dio, i morti, lo svolgersi del tempo in un modo che non è quello di una cultura invece agricola, o di caccia e pesca. Questa è l’idea che fonda questo libro di Lanternari e fa di lui, secondo me, un grandie pensatore.

Se posso dire con una battuta, ho l’impressione che nemmeno Lanternari - io non l’ho mai conosciuto, è uomo evidentemente anche di gran riservatezza - si sia reso conto della grandezza della sua opera. E gli altri intorno a lui anche meno, ecco, e cioè rimane in un ambito di competenza molto specialistica. Questa era una buona occasione per dire ai letterati d’Italia, per quel tanto che può valere una mia segnalazione, badate bene: c’è un autore che avete trascurato e a me pare fondamentale.

 

G – Quindi potremo mettere lì un primo consiglio di lettura, perché poi magari alla fine di questo viaggio nel 900 avremo una serie di libri assolutamente da leggere. Questo è uno di quelli?

S – La funzione di questo Atlante è anche una proposta, evidentemente, di lettura e rilettura. Così in qualche caso credo, di lettura per autori pressoché riservati ad un ambito specialistico. Non so quale sia il grado oggi di lettura che - lei ne ha fatto il nome prima - Alvaro oggi può ottenere. Però vuol essere un incitamento, in ogni caso, a rileggerlo in un’ottica più attenta, ecco, alla sua rappresentatività.

Continuo a usare questa o parole affini per indicare quello che vuol essere, cioè non so se è un grande narratore, ma è un uomo che nella storia culturale del 900 ha rappresentato, può rappresentare - difficilmente credo sostituibile - una posizione e un atteggiamento. Tra l’altro vicino a delle modalità, appunto, etnologiche ed etnografiche, perché la sua attenzione portata a certe esperienze del meridione italiano rientrano in questo significato.

 

G – L’ordine alfabetico ci propone delle cose interessanti perché, poi qui, vediamo fronteggiarsi due autori che, francamente, non si potrebbe riuscire a pensare qualcosa di più diverso, il vitalista Malaparte e il devitalizzato Manganelli…

S – Si, davvero due autori, credo fra di loro eterogenei da tutti i punti di vista. Malaparte è sempre stato guardato come un grande avventuriero culturale - e la nostra letteratura nel 900 non ha molte figure di avventurieri. E io non ho simpatia.. credo di essere personalmente abbastanza lontano dalla figura dell’avventuriero, ma l’Europa è ricca di figure di questo genere. Magari inamabili. Non voglio dire: “badate, Malaparte deve essere amato”. No, però nella povertà di questo tipo di esperienza Malaparte è un personaggio significativo, anche al di là dei confini, per usare un punto che lei poneva. Cioè, un lettore europeo farebbe bene a rileggere Malaparte? Che ha scritto anche in francese; che in Francia ha avuto un ruolo importante; che ha guidato delle esperienze anche attraverso riviste che coinvolgevano molto l’attenzione del mondo europeo; che ha attraversato fascismo, comunismo, nazionalismo; che ha prestato alla politica, all’esperienza storica italiana un’attenzione molto, apparentemente, cinica e disinvolta. Adesso non vorrei caricare l'avventuriero, ma vorrei che si dimenticasse anche quello che contiene, agli occhi di molti e persino ai miei, di negativo questa parola. Vorrei prenderla come un etichetta in qualche modo neutra, perché è il modo poi di vivere l’esperienza della letteratura.

Che esiste, che ha una sua storia, e di cui il  900 è fuori di Italia abbastanza ricco e in Italia molto povero. Una delle debolezze del 900 italiano è anche l’iperletterarietà della nostra esperienza culturale, insomma. E molte volte a me, da qualche decennio, è capitato di dire che il primo compito del letterato oggi è combattere la letteratura, contro l’idea egemone di letteratura. Questa un poco è la morale.

Manganelli è un iperletterato, ecco, però è quell’iperletterarietà così felicemente nevrotica, sofferta, da diventare una delle figure più interessanti per questo suo sperimentare il linguaggio continuamente, come una sorpresa di giochi ossimorici. Perché è un uomo tutto legato, poi, al suo primo libro. Hilarotragoedia è davvero un’insegna, un’allegoria e viene a rappresentare come il comico sia la via davvero moderna del tragico. Perché è uno degli scrittori più tragici, credo, del secondo 900 italiano.

 

G – Proseguiamo con un intellettuale come Papini, che ha avuto un rilievo europeo, mi pare.

S – Papini è un personaggio. Ecco qui un altro caso di persona che, credo, pressappoco dimenticata dagli specialisti. Probabilmente ci saranno 30 tesi in corso in Italia su Papini, ma non è questo che può dare una garanzia di vitalità, insomma. È chiaro che c’è tutto un lavoro e il 900, proprio per la sua complessità, è ricchissimo di esplorazioni e di cose da esplorare ancora riccamente. Però credo che di persone che entrino in libreria, al di fuori di ragioni semiprofessionali, e dicano “voglio leggere qualche cosa di Papini”, ce ne siano poche e rappresentino un’eccezione.

Ricordo quando F.M. Ricci pubblicò una collana di testi suggeriti da Borges e uno dei pochissimi italiani, se non l'unico, era Papini. Mi parve una felice indicazione, non so quanti effetti abbia avuto, credo piuttosto modesti, però la considero sintomatica. E inoltre non è che io abbia per Borges l’adorazione che molti hanno, tuttavia era un segnale di attenzione di fronte a uno scrittore che gli italiani ormai trascuravano. Perché a suo modo (prima parlavamo di Malaparte come un avventuriero) Papini intellettualmente fu un grande avventuriero, per quanto non nel senso vitale della parola. L’esperienza del pragmatismo, "La Voce", tutta la cultura fiorentina dell’epoca, l’attenzione al mondo filosofico, la cura di testi filosofici e accanto il narratore, un‘esperienza poetica curiosa, la conversione a cattolico... dunque un uomo dall’itinerario molto complicato. E questo eccesso di complicazione poi lo ha danneggiato. Nessuno era più interessato a leggerlo e lui fu assunto come una sorta di divulgatore di certe posizioni europee, ma di per sé poco rilevante.

I futuristi non lo amavano, lui non amava Marinetti e quando ci fu la rottura tra i fiorentini e i milanesi, diciamo così, sembravano molto più significativi un Soffici, un Palazzeschi, che non un Papini, che appariva come un provocatore, con un certo suo gusto di scandalo ma, insomma, meno efficace. I cattolici gli diedero simpatia, come era naturale a un certo punto, dopo la conversione ma, insomma, non rappresenta certo la zona interessante della sua produzione.

Però se mettiamo tutte queste cose insieme e se puntiamo, poi, sul periodo della gestione culturale a Firenze, segnatamente il momento Lacerbiano, beh allora Papini è un personaggio tutt’altro che trascurabile e il ruolo che ha svolto proprio come organizzatore culturale è rilevante. Ecco lui rappresenta un tipo di organizzatore, avventuriero della cultura, e nella storia novecentesca anche lui fa allegoria, ecco. Credo che i racconti che amava Borges, i racconti fantastici e allucinati della sua prima fase, siano davvero una cosa che vale la pena di rileggere con attenzione.

 

G – Si potrebbe fare un parallelo con Balestrini, a livello di attivismo di organizzatore culturale, un altro autore che è presente nell’Atlante e che ha fatto parte del Gruppo ‘63.

S – Sì, per certi riguardi. Però l’organizzazione di Balestrini è molto più e compatta e coerente, in fondo non è avventurosa. Lui è uomo di una certa idea di avanguardia che ha sorretto per tutto il tempo e ha praticato in una certa maniera. Ed è vero che in lui è molto forte questo momento. Ma qui non voglio abusare dell’elemento allegorico. C’è un tipo di organizzazione culturale che aveva davvero un epicentro a Firenze, dove scomparve poi rapidamente. Perché Firenze, direi, a partire dal dopoguerra, tende a diventare una città che si chiude molto su sé stessa. È un tipo di organizzazione lombardo, molto più industriale. Del resto l’opposizione all’interno del futurismo Milano/Firenze è anche di quest’ordine. L’organizzazione fiorentina di quelli che si proclamano i veri futuristi contro i marinettisti è, anche, di una città non industriale nei confronti di una città industriale. È il modo, quindi, di leggere l’esperienza del futurismo, che in gran parte è l’esperienza del mondo industriale, della macchina e via discorrendo. E spiega perché uomini come Soffici, uomini come Palazzeschi, così lontani dal mondo dell’industria che non ignoravano, ma insomma, che non li interessava da vicino, ecco, rimanevano veramente legati ad uno spazio che è il Granducato di Toscana. Non vorrei che questo apparisse oltraggioso verso i fiorentini, è un altro modo di intendere l’esperienza culturale e forse la vita in generale.

 

G – Continuiamo oggi a sfogliare l'Atlante. Se lei è d’accordo, vorrei parlare a questo punto di tre personaggi molto diversi tra loro: Mario Praz, Lucini e Tiziano Scarpa. Apriamo con Lucini che è stato uno degli autori di cui lei si è forse maggiormente occupato. Cosa ha rappresentato Lucini nella cultura del 900 italiano?

S – Lucini è stato un caso, come si dice con espressione discutibile, ma che serve a caratterizzare un tipo di reazione. Pochi ricercatori molto affezionati e devoti spesso ne avevano mantenuto il ricordo, ma insomma, raramente compariva. Nelle antologie o era del tutto assente (che era la situazione prevalente) o era, come anche nelle storie letterarie, piuttosto accantonato. Io avevo fatto uno sforzo, in qualche modo, abbastanza deciso e, per così dire, compromettente che aveva suscitato molte polemiche, quando, molto tempo fa, nel 69, per un’antologia (quella einaudiana) di poesia italiana del 900, avevo dato a Lucini il massimo rilievo possibile, anche quantitativamente. Era il poeta che occupava il maggior numero di pagine, cosa del resto giustificata anche proprio a scopo informativo. Le opere di Lucini difficilmente erano raggiungibili, antiquariato, c’era ancora una produzione inedita e molti inediti rimangono ancora. Ma a parte questa ostinata presenza, appunto, quantitativa, quello che mettevo in luce era il peso, diciamo, qualitativo della produzione luciniana.

Avevo dedicato a lui un’intera sezione, anche per essere, deliberatamente, in qualche modo, schematico, dal titolo “Il verso libero”. Lucini aveva dedicato al tema del verso libero un grosso libro che non è stato mai ristampato, se non selettivamente, mentre meriterebbe di essere, naturalmente, ripreso e studiato con maggior attenzione. Lui era stato così colui che aveva con maggior tenacia difeso questa innovazione metrica, che segnò effettivamente una svolta (stiamo meditando sul 900) nella storia letteraria a livello europeo, la crisi metrica preparata largamente già, a mano a mano, nel corso dell’800.

Basta pensare alla nascita estrema del poema “en prose” come genere a sé che proprio cancella, in qualche modo, i confini tra verso e prosa. Ma il verso libero rappresentava, appunto, una rottura di tutti gli schemi tradizionali e non era solo un segno esterno di strategie metriche, ritmiche, costruttive, ma era veramente un sintomo molto evidente di una diversa modalità del discorso e della comunicazione.

La poesia si era sempre contenuta entro delle forme che tendevano ad essere limitate, definite anche dal punto di vista tematico. Annullare questa sorta di barriere, di contenitori formali dei vocaboli e dei temi della realtà che prima erano esclusi, questo era l’aspetto più evidente di Lucini.

Lucini era un continente, che ancora adesso rimane in gran parte da esplorare. Perché ci sono, nella sua pur non lunghissima carriera (dato che morì relativamente presto e visse penosamente anche, per le sue condizioni di salute), ma era iperattivo e tenacemente presente in tutte le polemiche e in tutti i dibattiti, ed aveva recato un contributo alla storia del verismo italiano, agli elementi naturalisti, al decadentismo, al gusto alessandrino, soprattutto al simbolismo. E il suo simbolismo, che naturalmente aveva le sue radici nella cultura francese, che è la cultura a cui lui guardava maggiormente come è naturale nell’Europa tra fine e inizio del secolo. E del simbolismo, appunto, lui diede un’interpretazione particolare, che lo caratterizza molto e per cui è forse più ragionevole parlare di una prospettiva allegorica nella scrittura luciniana.

I rapporti con D’Annunzio, dapprima di grande solidarietà, com’era naturale per la sua generazione e poi invece di altissima rottura. Mi è accaduto anche di curare la seconda parte, che era rimasta inedita, dell’Antidannunziana, beh, sarebbe da ristampare la prima parte, che è irreperibile, praticamente, se non in biblioteca o in qualche casa d’antiquariato.

E poi i rapporti con Marinetti, perché ci fu un buon rapporto iniziale, non senza difficoltà, fin dagli inizi stessi, però insomma, anche lì una rottura clamorosa, con posizioni ideologiche molto nette, ostilità verso l’altare, il trono, l’esercito. L’ultima opera luciniana rimasta inedita è Antimilitarismo, che doveva raccogliere, appunto, una serie di interventi molto polemici, c’era tutto un atteggiamento anticoloniale in Lucini, e muore allo scoppio, si può dire, della I Guerra Mondiale.

Ora questa lunga fedeltà a Lucini da parte mia credo sia giustificata, perché non è soltanto la rivalutazione di una figura (si può discuterne naturalmente quanto si vuole), ma è anche una rivendicazione che tocca poi aspetti ideologici. È anche un po’ il quadro di un’epoca che viene rapidamente mutando, perché soltanto in Lucini c’era tutta una rete di istituzioni non solo letterarie, ma culturali, di tessuto polemico che investono il giornalismo, tutta la tradizione repubblicana, anarchica, tutta una zona di cultura lombarda e di rapporti con la Francia, che era rimasta in qualche modo sommersa, come accade.

E c’è stato uno scavo che non è cessato ed è destinato, certamente, a svilupparsi e a continuare. Ho in programma, tra l’altro, un’edizione di opere scelte luciniane, proprio per rafforzare l’attenzione su questa figura e sarà un po’ il mio congedo da questo terreno che mi è stato molto caro.

 

G – Lucini quindi rappresenta, in qualche modo, può rappresentare un padre nobile per l’avanguardia italiana. È vero?

S – Sì, e come tale lo proponevo. Quando feci quell’antologia io dovevo collocare (anche perché era in una serie del Parnaso einaudiano) anche Pascoli e D’Annunzio. Ma come forse ho già avuto modo di accennare, Pascoli e D’Annunzio li proponevo sotto l’etichetta “fin de siècle”, cioè insistendo sopra la loro collocazione ideale a conclusione dell’800. Lucini funzionava, effettivamente, come emblema dell’aprirsi del 900 e quindi colui che aveva per primo, in fondo, sperimentato un’idea di rottura nei confronti della tradizione - come lui diceva: “superare la consuetudine” - e quindi apriva la strada, in generale, alle avanguardie.

 

G – Un altro caso di tipo completamente diverso nel quadro del 900 italiano è, appunto, Mario Praz, critico letterario, saggista, che Alberto Arbasino definiva "il sommo Praz". Lei, ovviamente, lo ha inserito nella sua antologia, perché e cosa ha rappresentato.

S – Da un lato c’è, naturalmente, il riconoscimento del significato della sua figura, proprio del suo lavoro personale, dall’altro lato c’è, come un poco in tutte le immagini che ho scelto, l’intenzione di indicare delle figure che rappresentano emblematicamente certe direzioni di ricerca e certi modi, diciamo pure delle strategie culturali, non soltanto puramente letterarie (necessariamente). Praz rappresenta un tipo di critica molto particolare, qualche volta la si risolve parlando di saggistica. Ma in Praz c’è un curioso incrocio.  Quando noi pensiamo alla saggistica, pensiamo ad un intervento eminentemente soggettivo di grandi figure che hanno una loro mitologia culturale. Per fare l’esempio più celebre del 900 italiano, si può pensare a Debenedetti. Una volta parlai per lui di racconto critico, insomma, un narratore che si serve dell’analisi dei testi, delle figure degli autori, con anche ricorso a modi psicoanalitici d’interpretazione, per esprimere un suo modo e tutta una rete di problemi. In Praz domina, prima di tutto, una figura di grande erudizione, un uomo che ha letto tutti i libri che, per così dire, sa tutto. Credo che qualcuno una volta disse (non so più chi lo dicesse) che a leggere tutti i libri del 900 italiano erano state due persone: Benedetto Croce e Mario Praz, due figure estremamente diverse tra loro e quasi incompatibili per certi riguardi. In Croce prevaleva, naturalmente, un interesse giudicante, era una tipica lettura di filosofo che si accosta al mondo delle lettere con preoccupazioni di estetica generale, di individuazione di mondi estetici. A Praz, più che la grande figura, interessavano invece i climi culturali. Grande conoscitore di letteratura inglese prima di tutto, era in realtà di carattere assolutamente internazionale e insieme al dominio delle lettere esibiva quello di conoscitore delle arti figurative.

Con curiosità, penso alla figura del collezionista di cui parla Benjamin, cioè dove il collezionismo, appunto, colto e raffinato diventa un modo per attraversare dei continenti di riflessione, di vita culturale e sociale, secondo angolature che vanno al di là dei regimi strutturati accademicamente o anche al di fuori dell’accademia. E quello che è stato riconosciuto da sempre direi, come il suo capolavoro e anche il grande libro, in qualche modo, di esordio, quello sulla cultura romantica dell’età decadente, è ancora adesso un esempio di indagine che ha forse nel quadro europeo pochi esempi comparabili in questi enormi attraversamenti di sfere e zone dell’esperienza intellettuale, che hanno, nel caso, la base letteraria come dominante, ma che individuano, appunto, alcune mitologie fondamentali: carne, morti e diavolo come emblemi di quello che poi era il terreno del decadentismo. Ma è una strategia che, naturalmente, si addice ad alcune figure necessariamente rare, perché questa enorme inquietudine di ricerca, di schedatura, di riorganizzazione per sentieri inediti non può essere frequente.

 

G – Quali sono queste opere europee in qualche modo paragonabili, chi possono essere gli autori che hanno questo impatto….

S – Metto un poco a caso. Lo stesso Benjamin può essere un esempio di questo, un poco in generale, nelle sue modalità di lavoro. Penso a opere come quelle di Curtius sull’attività medievale e questa grande idea della cultura europea, nella sua continuità tra mondo classico, appunto, trasmissione medievale e mondo moderno. Forse per certi riguardi le ricerche di Auerbach sul realismo, sull’idea di realismo, dove appunto arditamente, si attraversa l’intero corso della cultura occidentale prendendo questo taglio particolarissimo.

 

G - C'è tuttavia qualcosa di tipicamente novecentesco…

S – Anche perché fanno esplodere, come si accennava, questo senso di proprietà riservata di indagine su certe zone, con questa che potremmo chiamare l’invenzione dell’oggetto della ricerca, proprio, cioè anche quando le categorie appaiono molto consolidate. Come dicevo, l’idea di realismo, per esempio, viene poi letta e interpretata secondo modi di aggregazione che in alcuni casi sono eminentemente di tipo sociologico e stilistico, che ne rinnovano completamente il significato. E naturalmente sono opere potenzialmente infinite e interminate, frutto magari di curiosi accidenti. È noto che il libro di Auerbach nasce quando  all’università di Instanbul ha a disposizione una biblioteca essenziale, e questo lo stimola.

 

G – Il suo Atlante, naturalmente, ha scatenato già, ancorché sia da poco tempo in libreria, polemiche sulle esclusioni. Ma a sorpresa troviamo il nome di un autore non certo famoso, un attore, illustratore e autore teatrale come Sergio Tofano. Perché questa scelta?

S – Questo, anche per me, è stato una specie di pentimento e risarcimento. Quando feci l’antologia della poesia italiana volevo rappresentare il teatro in versi, se possibile. E, ahimé, l’unica scelta che ho fatto e che pareva allora l’unica seria e obbligata a me, per quello che avevo in mente allora - allora vuole dire nel 68 e nel 69 - fu D’Annunzio ne “La figlia di Iorio”, che mi pareva quasi obbligatorio rappresentare. 

Ma, dimenticai Tofano, proprio lo dimenticai. È curioso perché in realtà è un autore che conoscevo molto, che amavo moltissimo e che amavo, soprattutto, come autore teatrale. Anche, naturalmente, Bonaventura, ma Bonaventura più come personaggio teatrale. Io imparai a leggere i testi teatrali, proprio come piacere dell’esperienza dei testi teatrali, leggendo il teatro di Tofano. Ricordo questo grosso volume, dove Bonaventura era l’eroe fondamentale. E rappresenta non solo una voce di teatro in versi, ma anche tutta una modalità di esperienza letteraria, debole nel complesso del 900 italiano, che sono gli scrittori per ragazzi, la letteratura per l’infanzia, che è un genere, evidentemente, letterario degno di molta attenzione. Naturalmente non è il solo, naturalmente esistono altri nomi, non mi faccia dire manca Rodari, è una questione di economia, ecco. Ma penso avrei fatto male a mettere Rodari, che pure ha molto fatto per rinnovare la cosa. Ma credo che fosse giusto dare anche equilibrio in questa direzione. Tofano meritava grande attenzione.

Oso dire: Tofano è uno degli scrittori importanti del 900. Esattamente il rischio che gli è toccato e gli tocca, è così un poco quello che è capitato a Collodi, insomma. Se dico quali sono i più grandi scrittori dell’800 italiano, prima che arrivi a Collodi credo si impieghi un po’ di tempo, perché si pensa alla grande poesia, al grande romanzo, ai grandi autori e a dei mondi complessi. Ma insomma è uno dei pochi scrittori universali dell’800 italiano invece, e Pinocchio è una figura, giustamente, diventata significativa, credo, per tutte le culture. Non voglio dire adesso che Tofano vale quanto Collodi, non è questo il problema, ma merita davvero l’attenzione come un grande, ecco.