Giuliano Galletta

Edoardo Sanguineti (1930-2010)

Non so quante volte nella vita mi è capitato di leggere un libro, vedere un film, ascoltare un brano musicale o sopportare un talk show in tv e domandarmi: chissà cosa ne penserebbe Sanguineti? Nel corso degli anni mi è capitato di chiederglielo tante volte, nelle innumerevoli interviste e in molte conversazioni private, ottenendo sempre, senza eccezione, risposte superiori alle mie aspettative, che non erano mai basse. Per soddisfare queste mie curiosità una decina di anni fa mi ero inventato una rubrica per il Secolo XIX, intitolata “Caffè con Sanguineti”, in cui lo interrogavo sui fatti del giorno, dal delitto di Acqui Terme alla nazionale di calcio, da Berlusconi al Festival di Sanremo. Non c’era argomento cui Sanguineti si sottraesse, anche il più apparentemente futile, conscio, come ha scritto una volta in una poesia, che “è il banale, di solito, il difficile”. D’altra parte aveva spiegato come tutti i suoi versi, in ultima analisi, prendessero spunto “da un piccolo fatto vero”.

Da ieri Sanguineti - morto a Genova a 79 anni - non ci dirà più cosa ne pensa. Cosa questo significhi per la cultura italiana ed europea non è ancora ben quantificabile, forse lo sarà fra qualche tempo, quando la sua immensa opera letteraria, teatrale, saggistica e giornalistica verrà adeguatamente studiata. Sanguineti amava dire che non ci sono maestri - proprio lui che aveva dedicato la vita, e senza risparmiarsi, all’insegnamento universitario - ma soltanto allievi, ovvero si può imparare ma non insegnare. Chiunque l’abbia ascoltato soltanto una volta parlare può senz’altro confermare di essersi trasformato, istantaneamente, in un allievo e riesce difficile pensare a qualcuno più vicino di lui a un’idea di maestro.

Sanguineti era sbarcato all’università di Genova nel 1974 (città dove era nato il 9 dicembre del 1930 ma che aveva lasciato a quattro anni) in arrivo da Salerno, dove si era trasferito da Torino, dove si era laureato, ma l’ostracismo dei circoli accademico-letterari tradizionalisti gli avevano impedito di diventare l’erede di Giovanni Getto, di cui era di gran lunga l’allievo più brillante. Ma il capofila del Gruppo 63, il teorico della neoavaguardia, il poeta sperimentale, il marxista che definì Bassani una specie di Liala non poteva essere facilmente digeribile dal sonnecchiante establishment culturale italiano. D’altra parte nelle generazioni più giovani Sanguineti era diventato, sin dai primi anni Sessanta, una sorta di mito, tanto che qualcuno si era dichiarato, con quell’enfasi tipica del linguaggio delle avanguardie, disposto a “morire per Sanguineti”.

Di certo l’intellettuale Sanguineti era dotato sin dai suoi precocissimi esordi di un consapevolezza assoluta di se stesso e dei suoi obiettivi letterari. Quando nel 1950, a vent’anni, inizia a scrivere la sua prima opera in versi “Laborintus” con quel libro vuole attraversare la “palude” in cui era finita, non soltanto la poesia italiana, ma la stessa possibilità di una comunicazione umana. E in effetti quel libretto, uscito nel 1956, cambierà il corso della letteratura italiana. Questa consapevolezza si rifletterà sempre anche nell’attività critica e in quella politica. Per Sanguineti lavorare sul linguaggi sarà sempre un’operazione politica, l’unica possibile per un letterato che non voglia diventare un megafono di vuoti slogan. Sarà sempre questo la cifra del suo ininterrotto impegno di uomo di sinistra, consigliere comunale e deputato del Pci, senza essere mai iscritto al partito, sino alla sua candidatura alle primarie per il sindaco di Genova nella lista della sinistra radicale. «In un momento di profonda crisi, c’è bisogno di un supplemento di impegno» aveva detto in quell’occasione «di ripartire dalla coscienza di classe, essenziale per poter decifrare la realtà, oltre che la storia». Sanguineti non perdeva occasione per ribadire le sue idee , come quando durante la cerimonia in cui ricevette il premio Campiello difese indiretta tv la Costituzione italiana sotto attacco da parte del governo o come quando, durante un incontro pubblico, spiegò a Massimo D’Alema che il programma della sinistra era già bell’e pronto: realizzare il dettato costituzionale.

Anche nella polemica più dura l’atteggiamento di Sanguineti era sempre improntato alla più amabile gentilezza che però sapeva coniugarsi con un’assoluta fermezza nelle idee. Non a caso, dovendo individuare per un questionario letterario il suo pregio e il suo peggior difetto aveva indicato lo stesso tratto caratteriale, l’ostinazione. Una volta, intervistato da un giornalista inglese che gli chiedeva quali erano i principali contenuti della sua poesia, aveva risposto ”my wife and my death”, “mia moglie e la mia morte”. Luciana, la straordinaria compagna di una vita sposata nel 1954, che gli ha dato quattro figli, è la protagonista di tante poesie e di uno dei suoi romanzi, Capriccio Italiano, mentre i riferimenti, sempre ironici, alla propria morte sono una costante dell’opera sanguinetiana. In particolare nel 1985 Sanguineti scrisse uno vero capolavoro, intitolato “Novissimum testamentum” in cui si leggono questi versi: “non dico avere pena, compassione / pietà, cordoglio, commiserazione, / misericordia con compatimento, / con condoglianza, con rincrescimento: / non dico aver tormento, corruccio / tristezza, angoscia, lutto, pianto, cruccio: / ma goduria e tripudio, in buona fede, / perché solo chi muore si rivede”. Arrivederci, professore.

“Il Secolo XIX”, 19 maggio 2010