Massimo Bacigalupo

Carl Sandburg, Chicago

Carl Sandburg, Chicago Poems, a cura di Franco Lonati, premessa di Francesco Rognoni. Sedizioni, 2017

Carl Sandburg è un poeta importante che si tende a prendere troppo sottogamba. In Italia ha avuto alcune edizioni parziali, ma non ha mai conosciuto la fortuna (a dire il vero esagerata) del corregionale Edgar Lee Masters. Rimedia all’ingiustizia questa prima traduzione  integrale dei Chicago Poems (a cura di Franco Lonati, Sedizioni, Milano 2017, pp. 376), apparsi nel 1916 e subito apprezzati per la loro novità, forza, chiarezza. La ripresa di motivi whitmaniani (la democrazia, la città, la vita quotidiana, nonché il verso libero) confermava la vitalità di una tradizione. Ma fra i maestri di Sandburg è anche Stephen Crane. Si leggano nella sezione Other Days (1900-1910), cioè testi antecedenti all’esplosione chicagoana, queste Lettere a imagisti morti: “EMILY DICKINSON: / Tu ci hai dato il bombo che possiede un’anima, / Il viaggiatore eterno fra i malvoni, / E come Dio se la spassa nel giardino di un cortile. // STEVE CRANE: / La guerra è gentile e noi non conoscevamo la gentilezza della guerra prima che arrivassi tu; / Né i cavalieri neri e il cozzare di lance e scudi là nel mare, / Né i borbottii e gli spazi che si levano dai sogni se li chiami”.

    Uomo rozzo all’apparenza, lo svedese Sandburg in realtà è ben consapevole dell’imagismo ante litteram che precede quello londinese che Pound propagandava sulle colonne di “Poetry” (la rivista che scoprì entrambi). Non so se Pound ed Eliot si accorsero mai dell’esistenza di Dickinson e Crane, da cui avrebbero potuto apprendere qualche lezione, convinti come erano che l’ultima parola venisse da Parigi e dai provenzali...

   Sandburg dunque la sa lunga, e compone un ampio libro di poesie sulla sua città proterva e magnifica. Mentre Whitman celebra Manhattan come una visione di paradiso, specie se la può godere seduto a cassetta accanto a un giovane e amichevole vetturino, Sandburg, più sintetico, insiste molto sugli aspetti cupi, lo sfruttamento, la violenza, che non distrugge la bellezza della metropoli e della sua gente: prostitute, wops, lavoranti che maledicono il giorno che hanno messo su famiglia. “Volesse Dio che non t’avessi mai veduta, Mag”. Mag, ci dice Lonati nell’ampia postfazione (pp. 345-69), è “una poesia d’amore assai anticonvenzionale”. (Segnalo che Lonati è anche autore di un ampio e utile commento alla raccolta: I am the people: Carl Sandburg e i Chicago Poems, Aracne, 2015.) Si potrebbe aggiungere che Mag è un bel risultato: far sentire la voce dello sfruttato senza commentare. Oppure visitiamo i bassifondi di Harrison Street Court: “Ho sentito le labbra di una donna / Parlare a una compagna / E dire queste parole: / A una che batte / non resta mai niente / di tutto il suo battere. / C’è chi si prende sempre / quanto mette in tasca sulla strada”. Siamo lontani dall’empito whitmaniano, nel mondo del Novecento che Sandburg conosce e rappresenta francamente, senza retorica.

    Oltre alle Chicago Poems che gli hanno dato la fama, questa corposa raccolta del 1916 comprende sei sezioni più e meno “imagiste”: Manciate, Poesie di guerra (1914-15), La strada e la fine, Nebbie e fuochi, Ombre, Altri giorni. Un poeta si giudica dalla sua tenuta, e si capisce perché questo libro rivelò un talento di primordine che resterà al centro dell’attenzione, senza svendersi, per tutta la vita, fino alla collaborazione col cognato, il geniale fotografo Edward Steichen, nella fortunata mostra itinerante del 1955, The Family of Man. Lonati ci ricorda le sue importanti opere in prosa, la raccolta di canzoni popolari The American Songbag (S. era anche musicista ed esecutore di testi suoi e altrui), le biografie di Lincoln. Riporta anche la divertente serie di definizioni surreali della poesia inclusa nella raccolta Good Morning America (1928). Questa prima edizione integrale italiana di uno dei libri più importanti di poesia americana del Novecento è dunque un contributo essenziale, godibile, e ricco di scoperte per chi appunto pensa che ormai su quella straordinaria stagione intorno alla guerra si sappia tutto. L’edizione è introdotta da un’accorta premessa di Francesco Rognoni (pp. 7-13), che è il curatore della collana Fragmenta che ospita queste Chicago Poems. Collana a dire il vero fin troppo raffinata per queste poesie “proletarie”, qui presentate regolarmente a pagina nuova anche quando si tratta di poche righe. Credo che Sandburg si avvantaggerebbe di una presentazione meno mallarméana, più sobria, delle sue schegge. Ma è già un miracolo oggi che un libro così (in)attuale trovi un editore appassionato e bibliomane, ed è bene che Sandburg sia anche da noi incoronato per quel classico tutto da scoprire che in effetti è.

     Ecco che nel 1915, quando l’America non s’era ancora gettata nel massacro della Grande guerra, il lucido Sandburg vede l’osceno scenario creato da governanti e sfruttatori: “Sotto il sole / Ci sono sedici milioni di uomini, / Scelti per i denti splendenti, / La vista acuta, le gambe sode, / E un flusso di sangue caldo e giovane nei polsi, // E un fluido rosso scorre sull’erba verde; / E un fluido rosso bagna il suolo scuro. / E i sedici milioni uccidono... e uccidono e uccidono” (Assassini).

   Ora sappiamo perché la poesia americana è così prepotentemente emersa un secolo fa dando risultati forse non più eguagliati, almeno per quanto riguarda la loro risonanza nazionale e mondiale.

“Semicerchio. Rivista di poesia comparata”, 56 (2017), pp. 157-58.