Giuliano Galletta
Sanguineti, se il romanzo è un coup de dés
"Ci sono io, per intanto. Sto dentro la mia grande bara. Sono al buio,
chiuso. Le voci che si sentono di fuori, che arrivano qui, che parlano di me, a
me, sono le voci dei visitatori. Con la faccia girata tutta da una parte, con
tanta fatica, ne vedo qualcuno, lì dei visitatori da una fessura del legno, tra
un asse e l'altra della parete che mi passa davanti, che si ferma. Poi qualcuno
mette anche l'occhio nella fessura, e si vede che non ci vede niente."
Il memorabile incipit del romanzo di Edoardo Sanguineti il Giuoco dell'oca, uscito nel 1967 - e che
ora Feltrinelli ripropone nella Universale Economica - ha diverse ascendenze
cinematografiche. Entr'acte di René Clair (con la partecipazione di Marcel
Duchamp e Man Ray), Il Vampiro di Theodor Dreyer, ma anche la scena iniziale del "Posto delle
fragole" di Ingmar Bergman, in cui il
protagonista vede in sogno il proprio funerale con la bara che cade dal carro
funebre. Sanguineti mette quindi subito sé stesso (o almeno il personaggio che
dice "io") dal punto di vista del morto. In tutta l'opera del poeta
si tratta sempre, in ultima analisi, di apprendere a morire: il «mio
autodidattico impararmi /a fare il morto»
Come ha scritto il semiologo Paolo Fabbri: "Il Giuoco dell’Oca comincia con una bara nella tessera 1, nella 2
c’è un bar; poi la bara diventerà un sarcofago, ne uscirà una mummia che alla
fine monterà sopra una botte, e comincerà a navigare; cosa diventa la bara? Una
bar-ca. Bara – bar – barca".
A ben vedere quello della bara è però un incipit "relativo",
perché il romanzo va usato, per l'appunto, come un gioco dell'oca, ovvero
lanciando i dadi e leggendo il testo corrispondente al numero uscito. Come
recitavano le "istruzioni" editoriali allegate alla prima edizione:
"Questo Giuoco è composto di 111
numeri e può anche servire a giocare fino a 79. Ciò deve convenirsi prima di
incominciare la lettura. Per giocare ci si serve di due dadi numerati dall' 1
al 6 e si tira chi debba giocare per primo, e si conviene la posta in gioco.
Colui che fa 12 va al 110 e si trova Supergirl, e può
tirare una volta sola con un solo dado; se per caso l'uno venisse egli ha
finito il romanzo. Se un altro tira il 12 e tirata su con la rete la ragazza va
fino al 110, allora il primo resta al frontespizio".
È quindi il caso a dirigere la lettura, a creare il romanzo, in infinite
versioni, altrettante quanti sono i lettori, che, alla fine, risultano autori.
Altrettanto possibile e legittimo, perciò, sarebbe cominciare dall'explicit, proprio dalla parola FINE. Basta citare le ultime
righe della casella 111 del tabellone, immaginato visivamente da Gianfranco
Baruchello. Come scrive Sanguineti: "Me la voglio
chiamare un po' così, adesso, questa grande nave dove ci navighiamo tutti
insieme, con questo nome un po' lungo, che è IL DILETTEVOLE GIUOCO DELL'OCA.
Poi ci scrivo ancora, un po' sotto, ma come un po' di lato, lì in mezzo
un'altra parola così come un altro nome lì per la grande nave. La parola che è
FINE".
Uscito quattro anni dopo "Capriccio italiano" questo romanzo
rappresenta la seconda parte di un'ideale trilogia, progettata sin dall'inizio
da Sanguineti ma che verrà completata soltanto nel 2002 con l'uscita del
romanzo "L'orologio astronomico". Come il Capriccio anche il Giuoco
scandalizzò l'establishment letterario italiano, ma non la critica più
avvertita, in primo luogo quella maggiormente legata alla neoavanguardia e al
Gruppo 63 di cui Sanguineti era capofila; minore il successo di pubblico, ma la
storia ha dato ragione al libro se oggi, a più di mezzo secolo di distanza, lo
ritroviamo in un'edizione tascabile, proprio come un best seller. Di sicuro nel
1967 il secondo romanzo del poeta confermò la consolidata fama internazionale
di Sanguineti, tradotto quasi immediatamente nelle principali lingue europee.
Nel settembre 1963, la rivista francese “Tel
Quel” aveva organizzato a Cerisy-la-Salle, in
Normandia, un colloquio dal titolo «Une littérature
nouvelle?»; Sanguineti era tra gli invitati e ingaggiò (nel suo perfetto
francese) una polemica piuttosto accesa nientemeno che con Michel Foucault,
chiamato a dirigere il dibattito sul nuovo romanzo. Poco tempo prima sulla
rivista "Le lettre française" Jean-Pierre Faye, scrittore e filosofo del gruppo di Tel Quel, aveva segnalato Sanguineti come: "L'autore
della poesia più oscuro e forse più singolare della letteratura italiana - da Laborintus e Erotopægnia - in
cui le lingue italiana e latina (della Chiesa), greca, inglese e francese
interferiscono in modo erratico come in Pound o Finnegan's Wake".
Sogno, con Capriccio italiano, e Caso (e quindi, in una certa misura,
Caos), con il Giuoco dell'Oca, sono le strutture portanti della narrativa sanguinetiana e la inseriscono in una complessa genealogia
che include Dante e Breton (si pensi in particolare al romanzo Nadja), la
psicoanalisi (Freud, Jung, Groddeck)
e Dada, Isidoro di Siviglia e Benjamin, Gramsci e la Pop Art. Una volta a un
intervistatore inglese che gli chiedeva quali fossero i temi fondamentali della
sua opera Sanguineti aveva risposto: "My wife e my death", altrimenti detto
Amore e Morte, Eros e Thanatos. Temi che ritroviamo nel romanzo trasfigurati in
un vertiginoso caleidoscopio di riferimenti filosofici, letterari, pittorici,
cinematografici, musicali, spesso legati alla cultura di massa che in quella
fase storica, gli anni Sessanta, si stava imponendo in Italia.
Nella sua enciclopedica introduzione il curatore del volume, Erminio Risso,
dà conto con puntuale acribia del groviglio di citazioni ai confini
dell'inestricabile in cui è avvolto il testo. Scrive Risso: "Il Giuoco dell’Oca è un testo dove le
avventure dell’io avvengono e accadono, dove tutto è però ellissi, sincope,
balzi, contrastata e faticosa convivenza di elementi; l’autore pare andare
all’assalto del linguaggio, se ne impossessa e lo maltratta, nel senso che lo
mette sotto pressione fino alle estreme conseguenze, si ha l’impressione,
nell’atto della lettura, che il linguaggio, nella sua totalità, messo al vaglio
della critica, venga sventrato e svuotato per essere ricomposto."
Credo si possa affermare che i romanzi di Sanguineti rappresentano un
unicum nella letteratura italiana del Novecento e la loro lettura sia in grado,
oggi più che mai - in un'epoca di "tribalizzazione"
del gusto e standardizzazione degli stili - di garantire un'esperienza ricca,
profonda e sorprendentemente attuale, come si conviene ai classici.
“Il Secolo XIX”, 30 giugno 2023