Salvatore Rotta (1926-2001)

Giovedì 8 febbraio è morto Salvatore Rotta. Aveva espresso la volontà di essere cremato. Le ceneri riposeranno a Portovenere. Ognuno dei redattori di questa "circolare" ne fu, come minimo, un conoscente. Diversi erano gli amici. Qualcuno ne fu scolaro, altri ebbero con lui una consuetudine di anni alla tavola del mezzogiorno, e non solo. Degli amici aveva un disperato bisogno e non ne faceva mistero. Lo scambio di opinioni o la più svagata chiacchiera avevano su di lui l'effetto di un eccitante. Polemista inarrivabile, nella conversazione era di una generosità senza limiti. Fra gli amici erano famose le sue ire, delle quali sapeva ridere quando sbollivano ma sapeva anche condire coi sali più vitali della polemica: l'ironia e la cattiveria. Era ormai quasi solo a rappresentare la parte più vera e profonda della cultura genovese, appartata e addirittura sconosciuta ai burocrati delle finte fondazioni, degli assessorati e dei palazzi ducali, asilo di autentiche nullità.

Ferdinando Fasce

Rotta

C'è, alla Biblioteca universitaria di Genova, in via Balbi, un tavolo riservato alla consultazione di opere rare.

Sarà difficile da oggi passargli accanto senza pensare a uno dei suoi più assidui e prestigiosi frequentatori, che purtroppo non potrà più occuparlo perché ci ha lasciato improvvisamente. Quel frequentatore era Salvatore Rotta, uno dei maggiori storici italiani del secolo appena concluso e uno dei massimi esperti di storia dell'Illuminismo. A quel tavolo lo vidi la prima volta che entrai in biblioteca, da matricola di Filosofia, più di trent'anni fa.

All'epoca Rotta aveva superato da poco la quarantina (era nato nel 1926) e insegnava a Genova dopo anni trascorsi come lettore in Svezia e in attesa di migrare ancora all'Università di Pisa, da dove sarebbe tornato infine nella nostra città. Stava allora per licenziare alle stampe l'edizione delle lettere di Celesia a Galiani, un lavoro in due volumi nel quale si compendiavano le sue straordinarie qualità di studioso: la rara capacità analitica, una prosa elegante ed essenziale, la cura maniacale per la filologia, la contestualizzazione, la ricostruzione di percorsi genealogici, di testi, eventi e attori, affidati ad apparati di note che non saprei definire altrimenti che, come dicevamo allora con beata incoscienza da studenti, "rottiani".

E che, però, va subito aggiunto, non erano mai in lui esercizio fine a se stesso o vuota ostentazione di un sapere senza qualità. Per Rotta le note erano la stessa cosa che erano state per quel Pierre Bayle con il quale avrebbe aperto, nel 1974, la monografia Il pensiero politico francese che si chiudeva con l'oggetto primario e costante della camera, di Rotta, il barone di Montesquieu. Ovvero, per lui le note erano un "rifugio dal dogmatismo intellettuale", la garanzia che uno studioso serio e indipendente come lui poteva esibire dinanzi alla comunità scientifica, all'opinione pubblica e a ogni eventuale potere prevaricante. Nascevano, quelle note, dal lavoro interminabile svolto presso il tavolo dell'Universitaria, o quelli dell'Archivio di Stato, o della Bibliotque National.

Un lavoro che si riversava in innumerevoli appunti e schede, dei quali Rotta, caso non comune in accademia, era poi generosissimo con gli altri, segnalando materiali e fonti, suggerendo piste di ricerca, stimolando la curiosità di chiunque. E' impossibile trovare qualcuno che lavori o abbia lavorato in campo storico e umanistico all'Università, anche in settori lontani da quelli privilegiati da Rotta, che non gli sia debitore di una segnalazione o di un'idea briillante. E' difficile immaginare la vita culturale genovese senza questo conversatore brillante e fazioso, all'apparenza intollerante, eppure sempre disposto a discutere e a sopportare l'enorme ignoranza altrui.

"Il Secolo XIX", 10 febbraio 2001

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