Carlo Romano

lallegra brigata fiumana di Claudia Salaris

Prima di leggere il libro, mi era capitata fra le mani qualche recensione su Alla festa della rivoluzione di Claudia Salaris che, pubblicato da Il Mulino, è dedicato alle implicazioni esistenziali, culturali e politiche dell’”impresa” dannunziana a Fiume. Una in particolare, di Giampiero Mughini, mi aveva spazientito. Ero convinto di averne conservato il ritaglio, ma al momento di buttare giù queste righe l’irritazione mi è raddoppiata non avendolo scovato. Per questo supplemento di irritazione Mughini ovviamente non c’entra, sebbene di lui ormai da tempo non riesca a tollerare né le ridicole giacchette rosse con le quali si fa fotografare né i racconti soporiferi sulle meraviglie conservate nella biblioteca di casa - e mal sopporti per giunta la sua aria saccente che pure qualche volta mi ha divertito in passato. Il ricordo dei contenuti dell’articolo è però netto. D’altra parte sono gli stessi che ho riscontrato in altre segnalazioni.

E’ a Fiume, secondo questo chiacchiericcio, che tutto ciò che sa di festa, gioia, riprendersi la vita, hippies, provocazione, droga, gestualità estetico-esistenziale, sessantotto, dissipazione, ritrova non solo il suo archetipo ma il luogo stesso dove si è manifestato in modo talmente viscerale da poter essere difficilmente eguagliato, al punto di infliggere a ogni altra combinazione dei medesimi sapori un ruolo degradato e privo di originalità. Un po’ quel che capita al remake di un film famoso, con le schiere di superbi commentatori colmi di sdegno per la profanazione avvenuta. Sebbene una certa natura sentimentale (ma non mi offendo se la si pensa conservatrice) mi faccia indugiare sulle buone cose d’un tempo, essa stessa mi spinge ad affezionarmi ad altri ed impensabili generi. Per questa ragione non saprei dire, ad esempio, se sia meglio l’Alba tragica di Carné – le cui scene, Gabin, l’epoca ecc. hanno senz’altro qualcosa di irresistibile - o il suo rifacimento americano di Litvak – in fondo nemmeno un noir, come ci si aspetterebbe, o una versione jazzata del bal musette e della java. Per tranquillità, non volendo eccitare altri aspetti più ribollenti del mio carattere, userò il buon senso dicendo che se anche è fatale disporsi a fare paragoni coi modelli, ogni opera la si prende in fondo per quel che è e ci dà,  viceversa saremmo costretti ad evocare continuamente antichi aedi che nessuno legge più, se non per studio o curiosità. Resterebbe in ogni caso da stabilire qual modello sia stata l’impresa fiumana (e per chi), in modo tuttavia da non escludere – come viceversa vorrebbero fare i recensori della Salaris - la possibilità che ciò che oggi enfaticamente le viene accreditato possa essersi sviluppato in piena autonoma originalità e dunque nell’ignoranza di cosa è successo un tempo nella città istriana. Ciò non escluderebbe, ovviamente, che certi atti e proclami si siano potuti ripetere somiglianti in altri tempi e paesi.

Con queste impegnative premesse devo confessare, ma si è già capito, che ero maldisposto nei confronti del libro (anche se non fatico a credere che il tono delle segnalazioni sia stato per qualcuno suggestivo ed invitante) e che soltanto quegli altri ribollenti aspetti del mio carattere cui ho accennato mi avrebbero potuto (e ne sono stato tentato) spingere a comprarlo, con la conseguenza di avere quale unico interesse di lettura un pregiudizio rafforzato dalla spesa fatta. Provvidenzialmente, un amico, Remo, me lo ha regalato per le feste di fine anno, smontando d’un botto, con la generosità, quel malanimo che mi avrebbe guastato la lettura, alla quale mi sono lasciato andare invece con gusto. Riconosco infatti alla Salaris la capacità di saper comporre un racconto avvincente muovendosi agilmente fra la faticosa scelta dei documenti, le facoltà solitamente intrusive delle note e le esigenze del lettore. Un’abilità che si è ingiustamente soliti disconoscere a gran parte degli storici italiani.

Detto questo non posso tuttavia non aggiungere come l’autrice, ancorché in modo generalmente più prudente dei suoi recensori, abbia giustificato l’uso che è stato fatto del libro. Vada pure che ogni provocazione diventi dadaista (ma perché non burlesca o derisoria o goliardica oppure senza aggettivi?), mi lascia però perplesso tutto un incedere teso a far vedere atteggiamenti conosciuti perlomeno dal tempo del romanticismo, e comuni in una qualsiasi “repubblica di Bohemia”, nella presunta luce nativa che evita accuratamente di illuminare ciò che d’altro c’è di specifico nella vicenda fiumana, che devo dunque pensare sia qualcosa di vergognoso.

Non ignoro la letteratura in proposito, dal libro di Michael Leeden ai saggi di Umberto Carpi (forse il maggior responsabile della lettura che oggi dà la Salaris), e conosco a sufficienza i relativi memorialisti, da Comisso a Toeplitz. Per ragioni probabilmente più campanilistiche che fiumane, ho letto anche i ricordi di Carlo Otto Guglielmino, essendo egli, come me, genovese (un altro famoso protagonista, Henry Furst, ha vissuto invece a lungo con Orsola Nemi in un luogo non distante da dove vivo io). Ho affrontato (si fa per dire) anche Susmel, che l’autrice sembra citare con le pinze (compromette forse troppo i suoi assunti?). Di Guido Keller, che è un po’ l’eroe centrale del libro (come dei saggi carpiani) avevo tentato molti anni fa di leggere una biografia, ma lo stile, diciamo così, troppo “d’epoca”, mi aveva scoraggiato. Detto questo, mi è parso strano che un libro nel quale più che di nazionalismo patriottico si parla di soave bolscevismo, limpida anarchia, libera sensualità e appagante naturismo, un protagonista come Alceste De Ambris meriti sì parecchie citazioni, ma nessun compiuto ritratto (e ricordo che Mario De Micheli, lo storico dell’arte, gliene dedicò uno in termini tanto commossi quanto, credo, apprezzabili dalla Salaris, che in verità non lo cita). Mi è venuto così da pensare che il rapporto fra ambiguità e coerenza di un De Ambris si sia manifestato in modo troppo drammatico per non contagiare ogni ulteriore riflessione su quei protagonisti ai quali invece si concedono serene minuzie. Meglio confondere dunque il “gesto libertario” – che in quanto tale si può apprezzare in chiunque, indipendentemente dall’ideologia – con l’anarchia vera e propria, gli hippies, il sessantotto ecc. Buon ultimo, a quanto pare,  Hakim Bey. Ma è solo un sospetto.

Non è un sospetto, ma un fatto, che la Salaris citi invece a malapena Maffeo Pantaleoni (due volte e quasi di sfuggita) e non si occupi di lui nemmeno in nota, che pure fu il rettore delle finanze nella Fiume dannunziana. In fatto di “finanza” ed “economia”,  la Salaris preferisce abbandonarsi a un presunto paradigma “dissipatorio” (cosa che altrimenti è interpretata come superficialità, sventatezza o simili) che oggi vede riaffermato in un gruppo di professori universitari francesi il cui acronimo, MAUSS, darebbe di per sé la misura dell’ispirazione (il saggio sul “dono” di Marcel Mauss) e dunque delle intenzioni (in verità cripto-collettiviste). Mi è qui impossibile entrare nel merito, faccio però osservare che il ministro di D’Annunzio era per buona sostanza (ancorché su sfondi eclettici e alieni alle dottrine) un “marginalista” (come dire un “liberista”). Amico di Pareto (e conosciuto anche da Arturo Labriola, giovane sovversivo in fuga, che a Ginevra ottenne da lui qualche aiuto), nazionalista, fu anche nominato senatore da Mussolini (ma anni prima aveva rifiutato gli incarichi universitari in Italia in spregio alle censure che si operavano nelle scuole). Anche qui, si capisce, quantunque in termini differenti da quelli di De Ambris, come il rapporto fra ambiguità e coerenza sia stringente. Proprio per questo mi pare che si sarebbero tratti degli stimoli più profondi e, forse, illuminanti da un suo approfondimento che non indugiando su una recente (ma tutt’altro che nuova) scuola accademica. Tanto più che l’autrice si sarebbe potuta sbizzarrire nel capitolo dedicato al piacere, dal momento che il saggio più famoso del Pantaleoni si intitola Erotemi di economia.

 

Ps: Mi ha insieme commosso e messo di fronte a un senso di inadeguatezza che non si vorrebbe mai provare, la dedica del libro a Roberto Palazzi - un amico che avevo in comune con Claudia Salaris  - morto tragicamente l’estate scorsa, suicida si presume. Da allora ho tentato inutilmente di abbozzarne un ricordo, ma non ci sono riuscito. Oggi è troppo tardi per qualcosa di sensibile e troppo presto per un ricordo spassionato..