Genesio Tubino

Raoul Saccorotti, le Bonnot italien, genovese, ladro, fuoriuscito

Phil Casoar: L’ARSÈNE LUPIN DE GALETAS. La vie fantasque de Raoul Saccorotti, cambrioleur anar en gants blancs. Les Éditions du CERF, 2022

Sul finire degli anni trenta del novecento la stampa francese, prima locale e poi nazionale, s’interessò alle imprese, nella zona di Grenoble, di un Arsène Lupin delle soffitte, come lo definì un giornale che per primo decise di elevarne i ripetuti e sfrontati furti, diverse centinaia, agli sfarzi della cronaca. Detto «l’insaisissable» o « l’homme invisible » dagli ispettori incaricati d’arrestarlo, e ancora “l’Arsène Lupin di Grenoble”, ma più “vero” e “impalpabile” dell’originale di Leblanc, il personaggio incuriosì e affascinò chiunque ne incrociò i percorsi e le affabulazioni tra Italia e Francia. La sua identità, quella dell’esule italiano Raoul Saccorotti, di 38 anni venne svelata nell’inverno del 1938.

Grazie ad un instancabile attivismo, al limite della cleptomania, accoppiato all’abile trasformismo (un secondo Fregoli, si scrisse) numerose famiglie della provincia, tra cui giovani coppie desiderose di metter su casa al risparmio, seppero, una volta identificato il responsabile dei furti e avviate indagini a tappeto, di aver svolto a propria insaputa attività di ricettazione. Ormai in fuga dopo essere sgusciato tra le mani della polizia, l’elegante italiano (bastava saper portare un Borsalino per fare impressione sui “cugini” prevenuti) che a Grenoble si era sposato nel 1934, sedicente rifugiato e perseguitato politico, negli anni si era fatto conoscere e benvolere nel circondario per la sua attività di commerciante di anticaglie, di fornitore di stoffe e arredi, di gestore di caffè, di generoso organizzatore di lotterie a favore di espatriati impoveriti e per la vicinanza alla sezione locale del Soccorso Rosso Internazionale. Nei giorni successivi alla sua precipitosa fuga, non si mancò, nella fame di notizie e inchieste parallele, di evocare le gesta di Mandrin o Robin Hood alludendo alle sue ridistribuzioni tra i poveri di refurtiva e contanti sottratti ai benestanti del delfinato: ci si appoggiava al ritrovamento, in uno dei suoi nascondigli, di esemplari de L’Avanti, La Libertà, o Almanacco Socialista insieme a opuscoli di Giustizia e Libertà e soprattutto di una lettera spedita da Barcellona nel febbraio del 1937, che recitava: “carissimo amico, vi ringraziamo molto per l’invio d’armi da guerra giunto a tempo opportuno…” a garantirne la fede e lo schieramento ideale. Dichiararsi prioritariamente “in missione per conto dei repubblicani spagnoli” (comprare latte per i bambini spagnoli, addirittura) fu una delle scusanti avanzate per giustificare la sua fuga davanti ai gendarmi che lo ricercavano. Tra attivismo e banditismo, si fosse macchiato di fatti di sangue, si sarebbe potuto azzardare anche per lui l’epiteto di Bonnot italien che in quegli anni era riservato a Sante Pollastro, ma a distinguere Saccorotti c’era quel lato artistico-performativo da accumulatore-cleptomane più che espropriatore.

Arrestato a Marsiglia, il processo si aprì nel giugno 1940 in concomitanza con lo sfondamento delle truppe naziste in Francia: le gesta del cambrioleur che si beffava della polizia appartenevano già ad un’epoca felice e lontana. La situazione si complicò quando negli stessi giorni l’Italia dichiarò guerra a Francia e Inghilterra e Saccorotti divenne subito il rappresentante degli astuti macaroni, dei Giuda e sciacalli peninsulari. Risultato: tre anni di prigione (aumentati a quattro in appello) e dieci di divieto di soggiorno. In quanto individuo pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, scontata la pena nel 42 il Nostro fu internato nel campo di Vernet, nei Pirenei, da dove erano transitati, oltre che combattenti spagnoli sconfitti, uomini in fuga come Max Aub, Koestler o Valiani. Lì, nel novembre dello stesso anno, si sposò per la seconda volta con un’infermiera conosciuta durante la detenzione, poco tempo prima d’essere consegnato, presso Mentone, alle autorità fasciste che lo avevano da tempo schedato come socialista sovversivo dopo averne “infiltrato” le amicizie e frequentazioni.

A Genova l’adolescente Raoul, nato a Roma nel 1900 e genovese dal ‘14, aveva vivacchiato di furti (metalli vari sui treni in sosta a Principe, o zinco sui tetti dei palazzi di piazza Palermo, poco importa) collezionando condanne e soggiorni a Marassi, ma in tempi di guerra e di carta razionata il Secolo XIX non teneva traccia delle sue imprese di apprendista malavitoso. Ancora furti e condanna nell’immediato dopoguerra durante il servizio militare. Rilasciato e tornato a Genova, pur vivendo di furti in uffici Saccorotti mantenne un basso profilo fino all’arresto in flagrante del 1928; all’uscita dal carcere, nel ‘30, decise di emigrare clandestinamente per Marsiglia, assumendo e ingigantendo la maschera di proscritto e perseguitato socialista. Negli stessi anni i suoi fratelli Oscar e Fausto, pittori- decoratori, conoscevano Sbarbaro, Grande, Montale e i Rodocanachi, e grazie a questi ultimi ottennero le commesse di lavoro per le famiglie agiate di Albaro.

Estradato dunque dai francesi e processato a Genova nel 1943, Raoul Saccorotti venne condannato al confino alle isole Tremiti. Affare di pochi mesi, perché se ne allontanò dopo l’otto settembre, per ritornare al nord. L’anno dopo lo ritroviamo tra Portofino e la Ruta, dove ormai il più noto fratello, Oscar, campava e dove, dopo i bombardamenti alleati del borgo, conobbe Salvator Gotta che non faticò a berne la biografia “aggiustata” facendone un personaggio del suo racconto Macerie a Portofino.

Dopo la liberazione la moglie francese lo raggiunse per pochi mesi prima di lasciarlo, sicuramente delusa, o ingannata, dalla condizione di casalinga prosaicità del collezionista di francobolli cui si era intanto ridotto il brillante italiano sposato pochi anni prima. Il quale comunque dagli anni cinquanta vivrà con una principessa russa (dalla cui famiglia di aristocratici in disarmo venne "adottato") sposata più tardi, frequentando insieme a lei i salotti milanesi e i ricevimenti della Terrazza Martini. Molto probabilmente collaborava, con l’ex dirigente comunista torinese Luigi Cavallo, tramite schedature e informazioni, all’attività anti spionistica, soprattutto antisovietica (rete paramilitare del Pci, ecc) dei servizi italiani ma la discrezione e intelligenza di sempre lasciarono nel vago (pesca sui laghi a parte) le sue mosse degli ultimi anni, fino alla morte avvenuta a Genova nel 1977.