Il saggio qui pubblicato è apparso nel 2001 sulla rivista genovese “LG Argomenti” (n.4, ottobre dicembre) . Ancora una volta c’è da rimanere ammirati per come l’autrice riesca garbatamente ad addentrarsi nei temi spinosi della narrazione popolare.

Beatrice Solinas Donghi

il Sudicione e le colombe al bagno: sporco e pulito nella fiaba popolare

Entro in argomento con un brandello minimo di autobiografia. Visitan­do Vienna, anni fa, sentii dire da una guida del palazzo imperiale che l'imperatrice Maria Teresa non si lavava mai, si profumava soltanto, “come usava a quei tempi": leggi, nel Settecento. Sono una turista docile e mi astenni dal metter becco, benché mi fosse tornato automaticamente il ricordo di un passo del Mattino da cui si arguisce che il giovin signore faceva periodicamente il bagno: "...il giorno/che a lavacro universal convieni/bagnar le mem­bra.../ con odorose spugne/trascorrendo la cute". Senza dubbio prima che l'acqua corrente fredda e calda arrivasse in tutte le case, o quasi tutte, i nostri antenati incontravano qualche difficoltà a raggiungere e mantenere il livello di pulizia personale oggi considerato ovvio. Ma che non si lavassero mai è una leggenda da sfatare.

Per farlo non occorrerebbe nemmeno scomodare il Parini e il suo signorino viziato dai troppi privilegi, che, dunque, potrebbe non far testo. Basta ricorda­re quelle narrazioni antichissime e ben radicate nell'immaginario popolare che sono le fiabe. Lì esiste, in effetti, il personaggio del Sudicione, che però non è tale per seguire un andazzo reputato comune o per una sua inclinazione natu­rale. A ridurlo a quegli estremi c'è voluto addirittura un patto con le forze del Male.

Facciamo in modo di conoscerlo meglio.

Nella Grimm n. 100, Il fulliginoso fratello del diavolo, si tratta di un soldato in congedo, squattrinato e disperato, che in mancanza d’altre prospettive accetta di servire il diavolo per sette anni; dopo di che sarà libero e verrà lautamente ricompensato. "Ma bada: non puoi lavarti, né pettinarti, né soffiarti il naso, non puoi tagliarti unghie e capelli né asciugarti gli occhi". (1)

li punto è che questa trascuratezza totale, questo partito preso di sporcizia e disordine, è percepito come disgustoso anche dal narratore contadino, il quale sottolinea l’aspetto orrendo, più da bestia che da uorno, acquistato dal giovane durante la prova. A prova superata, la situazione si rovescia: sarà il diavolo stesso a fargli una toeletta radicale, rendendolo perfettamente presentabile, tanto che egli non incontrerà difficoltà a prender moglie. Volen­do potremmo considerarlo un sorta di Pelledasino al maschile: difatti anche l’involucro asinino di quella protagonista (come la cenere delle varie Cenerentole) costituiva un motivo di repulsione.

In parallelo troviamo un Sudicione nelle fiabe russe dell’Afanasjev, soldato congedato come il tedesco dei Grimm e altrettanto disperato, tanto da escla­mare: "neanche il diavolo mi vorrà assumere come lavorante " (2).

Viene puntualmente smentito: dopo di che per ben quindici anni non dovrà radersi, “non tagliarsi i capelli, non pulirsi il naso, non togliersi il moccio, non cambiare abiti". Al posto della toeletta finale sta però l’inquietante proce­dura magica di un ringiovanimento ottenuto cuocendo l'eroe-vittima in un paiolo, facendolo a pezzi e rimettendolo poi insieme, vispo e bello come non mai. Sullo sfondo si intravede un mito di resurrezione, come nella vicenda di Dioniso e i Titani (3); però potrebbe anche trattarsi dell’iperbole di un bagno alla russa, o una sauna, con la sua trafila rigorosa di immersioni in acque fredde e calde, di frizioni e fustigazioni. Chi l'ha provata dice che in effetti alla fine ci si sente come nuovi.

IL bagno meglio specificato sta pero in una fiaba italiana, per la precisione bolognese, Le brache del diavolo, Calvino 53. Il protagonista qui non è un soldato in difficoltà ma un bel giovane che ha troppo successo con le donne e darebbe l’anima al diavolo per liberarsi delle complicazioni che ne conseguono. Il diavolo lo esaudisce, col solito patto: per sette anni non dovrà mai lavarsi nem­meno la faccia, né mai tagliarsi barba, capelli o unghie. L'anonimo narratore, più probabilmente narratrice, sguazza, è il caso di dirlo, nella descrizione delle abluzioni finali. È una serie di quattro tinozze, la prima piena d'acqua caldissima in cui stare a mollo finché la crosta di sporcizia si ammorbidisce; nella secon­da, anche questa calda, comincia a sfregarsi (“gli venivan giù certi trucioli che pareva un falegname"-4); nella terza, d’acqua profumata appena tiepida, si insapona per bene, fino al tocco finale della quarta tinozza d'acqua di Colonia e acqua di Felsina per l'ultima sciacquata. Ecco una contafavole che di bagni mostra di intendersene parecchio.

Del resto già nei fabliaux francesi medioevali si incontrano sovente tinozze adibite a quell'uso e si parla perfino di un bagno curativo, con “buone erbe" atte a rimettere in sesto un marito bastonato (5). I bagni curativi o medicinali non sono ignoti nemmeno alle fiabe, come, nell'omonima fiaba russa, quelli di latte di belva pretesi da una principessa fedifraga allo scopo di mettere in pericolo la vita del consorte tradito. Lì sono un puro pretesto, ma possono ricollegarsi a pratiche non del tutto immaginarie, per quanto eccezionali: si pensi al famoso latte d'asina usato in abbondanza da Cleopatra come detergente.

Più truculento e, speriamo, del tutto privo di riscontri nella realtà storica è il bagno di sangue del quale il Gran Turco avrebbe bisogno per guarire dalla leb­bra nel cunto di Rosella del Basile, nono della terza giornata del Pentamerone. Desta qualche preoccupazione anche il bagno nel latte proposto da una suocera infida, nelle fiabe liguri dell'Andrews (7), ai sette giganti, fratelli della nuora; e infatti per gli incauti ne consegue la metamorfosi in maiali. Tanti secoli dopo Cleopatra una vasca di latte è sentita ancora come il meglio del meglio, ma la sua finzione nel racconto è sovente quella di mascherare ambiguamente un pericolo mortale.

Nella realtà del resto anche un normale bagno d'acqua calda può costituire un pericolo, in certe particolari condizioni, almeno per una donna. È il caso della giovane regina di Fratellino e sorellina dei Grimm (n.11), alla quale subito dopo il parto si accosta la matrigna strega sotto le sembianze ingannevoli della cameriera: "Venite, il bagno è pronto, vi farà bene e vi rinforzerà; presto, pri­ma che diventi freddo".

Altro che freddo: "nella stanza da bagno avevano acceso un fuoco d'infer­no, così che la bella giovane regina ne fu presto soffocata". (S'intende che il lieto fine provvede a farla resuscitare). E in una fiaba russa, Il re del mare e Vassilissa la saggia, pure questa da Afanasjev, ci si spinge fino all'iperbole di una vasca di ferro riscaldata al calore rovente; ma si tratta di uno dei classici “compiti del suocero", una scommessa da vincere, insomma, grazie agli op­portuni aiuti magici.

Una vasca da bagno, una stanza da bagno: con buona pace della mia guida di Vienna esistevano, dunque, e i narratori orali nominandole ne riconosceva­no l'esistenza.

È interessante paragonare i loro spogli accenni al bagno veramente regale dei Cigni selvatici di Andersen, "fatto di marmo e ornato di bellissime tende e soffici cuscini" (8). Ancor più interessante passare dal trattamento sbrigativo degli eroi ed eroine delle fiabe popolari, anche i più positivi, all'accentuazione quasi idolatrica della positività incarnata nella protagonista Elisa. Le armi ma­giche si spuntano, se usate contro di lei: invano la matrigna strega incarica tre rospi velenosi di saltare, non appena lei entri nell'acqua, il primo sulla sua testa perché diventi infingarda come lui, un altro sulla fronte per contagiarla con la propria bruttezza, l'ultimo sul cuore, per farla diventare cattiva. Niente: men­tre lei rimane indenne, le tre bestie malefiche a quel contatto taumaturgico si trasformano in tre bei papaveri rossi. Un'esagerazione: e poi, dissento da quel malefiche.

Rane e rospi nelle fiabe vere - quelle popolari - sono personaggi positivi: si vedano le molte versioni della Sposa rana e la simpatica famiglia di rospetti che ospita l'eroina del Forno, n. 127 dei Grimm.

Torniamo al fatto: il gabinetto da bagno, presente in regge e palazzi e abita­zioni di un certo livello, mancava quasi sempre, fino a tempi assai recenti, nelle case della gente comune. Dal folclore si direbbe che fosse più diffuso nei paesi dal clima freddo come la Russia e la Germania, dove senza un sistema accon­cio per scaldare l'acqua o stimolare la circolazione in altri modi (fustigazioni con verghe di salice, o simili) ci sarebbe voluta davvero una buona dose di eroismo per tuffarsi in una tinozza.

Nelle fiabe russe ci si lava molto sovente, anche quando il bagno non sia nominato. In quella intitolata Il gelo, una versione del motivo detto "del cortese e dello scortese" tutta giocata sul freddo, con effetti da brivido, le sorelle cattive "s'alzavano tardi, si lavavano con l'acqua già pronta, s'asciugavano con asciu­gamani candidi e si sedevano a lavorare dopo mangiato": quel che si dice una vita comoda. L'eroina Martina, invece, "al mattino presto s'alzò, si lavò, disse le preghiere, raccolse tutta la sua roba, la ripose per benino, si vestì": esser mattiniera non la esime dagli obblighi di una vita bene ordinata, ivi incluso il lavacro quotidiano.

Sempre in Russia, un protagonista maschile "s'alzò presto presto, si lavò lesto lesto". La sequenza "si lavò, si vesti, pregò Dio" appare obbligatoria, per esempio, nel caso dell'eroe de La principessa serpente. Come presso i Quaccheri, la pulizia della persona è quasi equiparata a una pratica di devozione.

E in Italia? Ebbene, in una fiaba siciliana, Gràttula-Beddàtula (Calvino 148), le fate protettrici uscite dal magico ramo di dattero "si misero intorno a Nina, e chi la lavava, chi la vestiva, chi la strecciava": uno dei rari casi in cui ci si ricordi che per passare dallo squallore quotidiano delle Cenerentole e affini alle belle vesti del ballo una strusciata con acqua e sapone non sarebbero su­perflua.

In genere nel folclore italiano si parla soprattutto di "rinfrescarsi": anche per ragioni climatiche, presumibilmente. Lo si fa sovente prima di andare in tavola: già nei fabliaux compaiono bacili chiari e lucenti, colmi d'acqua fresca in cui i convitati si lavano occhi, bocca e mani. E diventano un congegno essenziale della vicenda le abluzioni de La ragazza mela (Calvino 85), fiaba toscana con la situazione del tutto fantastica dei due re vicini di casa: “Quest’altro Re, un giorno che stava alla finestra, yide sul terrazzo del Re di fronte una bella ragazza bianca e rossa che si lavava e pettnava al sole”.

Al sole, perché l’acqua si intiepidisca? È un accorgimento che si praticava, infatti. Comunque questo Re fa in modo di ottenere per sé la mela da cui alla mattina sguscia fuori la bella apparizione, moltiplicando le occasioni di contemplarla. Unosservazione: il vagheggiamento di quel corpo femminile dal fresco incarnato lascia capire che la bella si sta lavando integralmente. È la dimostrazione che il lavacro universal del giovin signore si poteva praticare, sia pure in piedi, anche in mancanza di quella rarità, il camerino con acqua cor­rente.

Esisteva un'altra soluzione, ampiamente documentata dalla poesia popola­re fin dal Medioevo e, molto prima, dai miti: quella di buttarsi a fiume o tuffar­si nella fonte più abbordabile. Un codice di leggi longobarde minacciava fior di multe a chi facesse a una donna libera scesa al fiume per lavarsi lo scherzo di sottrarle i panni (9); se ne può  arguire che le serve, poverette, se decidevano di ripulirsi lo facessero a proprio rischio e pericolo. Non per nulla nella fiabistica una delle situazioni canoniche, diffusa con variazioni dalla Siberia alle praterie degli indiani d’America è quella delle oche selvatiche, o altri volatili che si tramutano in donne calando a bagnarsi in una pozza o un laghetto.

In Russia possono essere dodici gabbiani (Il re del mare e Vassilissa la saggia, sempre dalla raccolta dell'Afanasjev); in questo caso si tratterà di un bagno di mare, mentre è in una vasca del giardino che si tuffa una principessa autoreclusa durante l’assenza del marito (L’ochetta bianca). Ne La ragazza colomba (Calvino 164, da Palermo) dodici colombe si trasformano in fanciulle dopo aver bevuto dalla vasca ed esservisi tuffate. La situazione, col giovane che si appropria di una delle vesti alate e la creatura impossibilitata a riprendere il volo che prote­sta: “Dammi la veste!”, è suppergiù la stessa del Tamburino dei Grimm (193). E nella Novellaja milanese, posta in nota dall'Imbriani alla sua Novellaja fiorentina, EI Re del Sol, rifatta da Calvino come Il giocatore di biliardo (n. 22), parla del bagno meridiano delle tre figlie del re del sole: "gh'era ona vasca, on laghett, e van denter a novà” (10)

Qui prevale l’aspetto del diporto, o sport, mentre sul concetto del “rinfrescarsi” insistono molte versioni della Fanta Ghirò e affini, da quelle italiane alla russa Vassilissa, la figlia del Pope. Vi insiste, cioè, il personaggio maschile, al quale urge di vedere l'eroina spogliata per accertarsi del vero essere suo; senonché viene astutamente dirottato, come accade anche nella divertentissima versione ligure".

E con ciò basta coi bagni e altri lavacri. Ma non abbiamo finito. Una famosa fiaba dei Grimm, La guardiana d’oche (89), offre l'aggancio per trattare di un'operazione molto importante in tempi di chiome fluenti, quella di pettinar­si, La principessa scaduta a guardiana d'oche vorrebbe approfittare del terno da trascorrere nei campi per sciogliersi i bei capelli d'oro e districarli per bene, ma è disturbata dal garzone suo compagno di lavoro, Con un'invocazione magica al vento ottiene che al ragazzo voli via il berretto; quando torna dopo averlo recuperato, lei ha terminato di acconciarsi e non offre più appiglio agli scherzi.

Quello dei capelli da sciogliere e sciorinare ai sole è un motivo ricorrente anche nel Pentamerone, così nella Petrosilla, 1 II, e ne L'ora, 6 II.

Una precisazione molto interessante si ha con L'amore delle tre melagrane, Bianca-come-il-latte-rossa-come-il-sangue (Calvino 107) e in versioni affini. Qui la bella nata da un frutto, melagrana, cedro, arancia, limone, si pettina, o meglio viene pettinata dall'antagonista, accanto a una fontana o a un pozzo. Allo sco­po di giustificare il gioco di riflessi che dapprima induce quella perfida a cre­dersi belli come l'eroina? O forse perché abbia l'opportunità di liberarsi di lei affogandola proditoriamente? Per entrambi i motivi, senza dubbio.

Ma se ne aggiunge un terzo: farsi pettinare nelle immediate vicinanze del­l'acqua è molto pratico quando lo si faccia per pulizia, oltre che per amore dell'ordine.

Una romanziera dell'Ottocento, la Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani), ha qualcosa da insegnarci a questo proposito. La sua Nanna, mondina in risaia, ha "i capelli di quel biondo opaco, gialliccio, senza riflessi, che è generale nelle contadine, le quali si bagnano il capo con l’acqua nel pettinarsi, e stanno esposte al sole (12). Dunque era vero che pettinarsi poteva equivalere a un approssimativo lavaggio dei capelli. E notare che, stando a molte testimo­nianze, le borghesi contemporanee di quelle contadine non usavano lavarsela affatto, la testa; ricorrevano piuttosto all'alternativa delle frizioni con una lo­zione apposita. Per le sue collegiali primo novecento Dolores Prado accenna all'uso della pettinina o pettine fitto, seguito da una “energica strofinata con una pezzetta imbevuta a quell'acqua lattiginosa leggermente profumata" (13)

Ma al primo ingresso in collegio lei stessa era stata sottoposta a un trattamento precauzionale a base di mercurio, per debellare eventuali pidocchi.

E questo ci porta dritti dritti allo spidocchiamento, pratica igienica fonda­mentale, anche dal punto di vista sociale e affettivo, per tutti i primati; non meno fondamentale, fra il XIII e il XIV secolo, nel villaggio occitano di Montaillou, dove per altro pare che ci si lavasse davvero molto poco (14). Esso persiste nelle fiabe popolari, perfino in due versioni di Cenerentola piuttosto tarde, del Novecento, e per di più genovesi, dunque cittadine (15). In entrambe l’eroina ha un'unica sorellastra, prepotente e antipatica quanto basta, così che la situazione diventa quella tipica “del cortese e dello scortese": la Cenerenn-a, questo il suo nome dialettale, si presta a spidocchiare un vecchio, o una vecchina, smentendo per gentilezza lo stato reale di quelle capigliature, e viene ricom­pensata di conseguenza. ("Che cosa trovi sulla mia testa? "Oro e argento". "E oro e argento avrai".)

Stesso meccanismo nel Luccio, tredicesima novella fiorentina dell’Imbriani: in una casa dalle scale di vetro la protagonista viene fermata da certe donnine che "hanno tanto pizzicore in testa", ma ha il buon gusto di parlare di perle e diamanti anziché di cimici e pidocchi e riceve la relativa ricompensa. Anche su questo argomento il Basile è iperbolico e barocco come siamo abituati a trovarlo: in Le due pizzelle, 7 IV, mentre la gentile Marziella quando si pettina troverà perle in quantità, la cugina scortese sarà afflitta da un pullulare di pi­docchi tanto numerosi da far arretrare il mercurio con cui si cerca dl combat­terli. Una variazione sul tema dello spidocchiamento vuole inoltre che esso funga da pretesto per pervenire ad altri fini

­Una falsa sposa di Afanasjev approfitta dell’operazione per nascondere tra i capelli di Finist, falco lucente la spilla magica che lo addormenta, mentre per converso un giovane che si fa spidocchiare col capo sulle ginocchia della ma­dre mira solo a sottrarle la chiave della gabbia dell'uomo selvatico,detto in Russia contadino-orco (Il principe e il suo scudiero).

Inutile torcere il naso su simili dettagli. Per secoli e millenni la vita quotidia­na, a molti livelli sociali e non di rado a tutti, ha conosciuto queste realtà. Possiamo solo concludere che se la gente non si fosse nemmeno spidocchiata, senza dubbio sarebbe stato ancora peggio. E mi sembra importante, per non dire consolante aver trovato nelle fiabe popolari tanti passi che testimoniano la diffusione di lavacri e altre fondamentali operazioni di toeletta anche in tempi molto meno attrezzati dei nostri (16).

Per finire, non so trattenermi dal citare una fiaba d'autore a argomento pertinente, che rinnova uno schema tradizionale in modo molto più inventivo e divertente di quanto Andersen non avesse fatto con I cigni selvatici: è la prima novella del C'era una volta… di Capuana, Spera di sole (17).

La ragazza soprannominata Spera di sole dalla madre, sfidando l’evidenza, e Tizzoncino, più realisticamente, dal vicinato, è una specie di Cenerentola spinta agli estremi, brutta come il peccato e sudicia come un mucchio di fulig­gine. La sorpresa è che sia anche allegra fino alla strafottenza: invece di una patetica orfanella perseguitata, ecco (nella Sicilia dell'ottocento, e dalla penna di un autore maschio) un personaggio femminile irreprimibile e autonomo col rincalzo di una madre quanto mai positiva, fenomeno eccezionale nella fiabistica. Nella figlia, il luridume e la bruttezza non sono il marchio di un triste destino, ma nemmeno un travestimento come l'involucro bestiale di Pelledasino. Rispondono a una necessità narrativa, cioè al fine di far risaltare meglio l’effetto di contrasto dell’epifania finale, quando il reuccio spiando dal buco della serratura la vedrà davvero bella come un sole.

La trasgressiva e scandalosa sporcizia di Tizzoncino è il rovescio della sua radiosa bellezza e la condizione necessaria e sufficiente perché questa si verifi­chi. Pura magia, insomma, senza spiegazioni o risvolti moralistici di sorta. E la storia è stupenda.

 

Note:

1) W. e J. Grimm, Le fiabe del focolare, trad. di Clara Bovero, Torino, Einaudi, 1961.

2) Aleksandr N. Afanasjev, Antiche fiabe russe, trad. di Gigliola Venturi, Torino, Einaudi, 1974.

3) Si vedano le note all’Inno I, A Dioniso, in Inni omerici a cura di Filippo Cassola, Mondadori/Fondazione Valla, Milano 1975.

4) Italo Calvino, Fiabe italiane, Torino, Einaudi, 1956.

5) La bourgeoise d’Orléans, in Fabliaux, a cura di Gilbert Rouger, Parigi, Gallimard, 1978.

6) Giambattista Basile, Il Pentamerone ossia la fiaba delle fiabe, Trad. di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1957.

7) J.B. Anrews, Contes ligures, Parigi, Leroux, 1892. Ne ho tradotti e rimaneggiati alcuni in Fiabe liguri, Genova, Sagep 1980 e in Fiabe liguri, Milano, Mondadori, 1982.

8) Hans Christian Andersen, Fiabe, a cura di Gianni Rodari, trad di Alda Manghi Castagnoli e Marcella Rinaldi, Torino, Einaudi, 1970.

9) Cfr. Gabriele Pepe, Il medioevo barbarico d’Italia, Torino, Einaudi, 1959, cap III 6.

10) Vittorio Imbriani, La nivella fiorentina e la novella milanese, Milano, Rizzoli, 1976.

11) Narrata in dialetto da Elena Pungiglione, tradotta e inclusa nelle mie Fiabe liguri, Genova, Sagep, 1980.

12) La Marchesa Colombi, In risaia, Novara, Interlinea edizioni, 1994.

13) Dolores Prado, Le ore, Milano, Adelphui, 1994.

14) Cfr. in particolare il paragrafo Spidocchiamento e gesti igienici del cap. VIII di E. Le Roy Ladurie, Storia di un paese, Montaillou, Milano, Rizzoli, 1977.

15) Le ho riassunte in Fiabe a Genova, Genova, sagep, 1972.

16) Sui bagni nel medioevo è interessante inoltre Nudi alle terme di Alessandro Barbero, “ttl-La Stampa”, 19 agosto 2000.

17) Luigi Capuana, Fiabe, Palermo, Sellerio, 1980, con introduzione di Dina Aristodemo e Pietre de Meijer.