Jean Montalbano

rune sonanti

Dovendo conversare con un vicino norvegese, e snobbando i soliti noti (Hamsun, Munch o Heyerdahl) se vi toccherà parlar di musica, sorvolando sui neo acustici, potreste parare in quel fiordo scosceso ma parecchio  frequentato scavato con gli apporti di jazz, tecno e diavolerie elettroniche. Qui il gran traghettatore è da qualche anno Rune Kristoffersen la cui etichetta discografica Rune Grammofon supera  le trenta uscite con il doppio compact Money will ruin everything, custodito in un elegante libro rilegato, appena pubblicato. Detto che, diversamente dalla vicina scandinava Sähkö (celebrata pochi anni fa ma già superata dagli eventi che impongono meno glitches/clicks e più analogico) in Norvegia non si predilige il riduzionismo laptop né l’isolazionismo loquace  e prolisso di altre consorelle, notiamo come l’avvertenza “questo libro è una custodia” letta nelle prime pagine dell’antologia (ma… dopo una citazione da Ionesco) paia voler contrastare l’incipiente sparizione del cover design (con la connessa materializzazione del prodotto musicale nell’era iPod). Sussulto d’insubordinazione inteso come omaggio al complice della casa, il grafico Kim Hiorthoi, per suo conto pure musicista sull’etichetta Smalltown: automatico riandare a storiche accoppiate passate (Saville/Factory) e recenti (Wozencroft/Touch o Frank/Mego) pur se Hiorthoi ( tanto poco interessato alla figura umana quanto tentato da un’astrazione decorativa alla Arp) dichiara di ammirare su tutto il lavoro svolto da Reid Miles per la vecchia Blue Note. Sicuramente nel suo sforzo di dare unità grafica alle custodie sembrerebbe il solo ad aver guadagnato dalla pur limitata circolazione dei dischi Rune G., stampati in poche migliaia di copie, quasi a conto d’autore, avendo il patron Kristoffersen dichiarato di non attendersi dall’attività alcun ritorno economico, lui che negli anni ottanta si fece notare in selezionati scaffali discografici con un gruppo dal nome, Fra Lippo Lippi, quantomeno eccentrico in epoca post-punk e new wave.

Da qualche anno l’avventura grammofonica gli è cresciuta tra le mani ( anche grazie alla distribuzione curata in alcuni paesi dalla tedesca ECM che in Norvegia ha sempre prediletto registrare i propri artisti) a partire dal passaparola di quanti si dilettano a sforacchiare le frontiere delimitanti jazz, elettronica più o meno colta, tecno senza ingabbiarsi in un risaputo “ambient glaciale”.

Qui, il pezzo d’apertura del duo Alog pare ripetere la pulsazione rileyana di quarant’anni orsono, il che potrebbe indurre il blasé (confortato magari dai successivi ascolti di Biosphere, Monolight, o Borgen) ad archiviare i convenuti sotto la vecchia categoria gouldiana di “frequentizzatori”, riconoscendovi dunque un aggiornamento numerico del solito espediente per guadagnarsi la pagnotta. Senonché la quasi certa scarsa potenzialità commerciale delle uscite marcate Rune G. (evocata a mo’ di onesta bandiera fin dal titolo della raccolta) e gli innesti di malcelate traiettorie jazzistiche e noise (si noti lo sforamento jazz-rock di Scorch Trio del  torrido chitarrista Bjorkenheim) dovrebbero indurre a sospendere e rimandare ogni sdegnosa alzata di spalle:non è (solo) un’accolita di mattacchioni su una zattera alla deriva. Nelle sinuosità della  Kamelmusikk delle Spunk covano, stilizzate, cifre tribali già teutoniche, laddove Jono El Grande preferisce scivolare su oliati binari zappiani, e se Archetti e Wiget rifluiscono in canali già scavati da Fripp e Eno, gli irruenti e talora autoindulgenti Supersilent abilmente riambientano tra sintetizzatori crepitant i tappeti davisiani ormai lisi da giovinastri d’ogni risma (e hip-hoppers e giramanopole non sono i peggiori); è questa la band che meglio riassume l’intera filosofia del suono Rune G.: stratificazioni di brusii e sfrigolii quando non bordoni tastieristici(l’organo Hammond ha ritrovato casa nel nuovo secolo) su cui insistono fiati disorientati e stralunati attenti a restituire una perduta dimensione “live”pur senza corteggiare abissi improvvisativi.

Altrove, con il recupero di un folk immaginario, ruvido ed evocativo,da parte di Okland, o con la voce mal-trattata di Maja Ratkie (già intestataria di un album solista pluriosannato per la sua ampia tavolozza di manipolazioni) i suoni si fanno più stranianti, sicché risulta plausibile, allora, la scelta conclusiva, non regressiva, di Susanna and the Magical Orchestra: pochi minuti di sosta sfacciatamente melodici, a raccogliere forze prima proporre sfide più oltranziste.