Si presenta qui la prima parte di una relazione
(Il filosofo sedentario e il filosofo
viaggiatore) presentata al convegno Una
finestra sull’Italia – Tra Italia e Russia, nel Settecento (Genova, 1999, a cura di M.L. Dodero e M.C. Bragone). Le due parti
della relazione trattavano l’una P.M.
Doria, ed è quella pubblicata, l’altra Francesco Algarotti. Solo
quest’anno, in memoria di Salvatore Rotta,
ne sono stati pubblicati gli atti presso l’editrice Print on Demand
(Milano 2002).
Salvatore
Rotta
Russia 1739: il filosofo
sedentario
Il filosofo sedentario è
Paolo Mattia Doria. Nato a Genova il 24 febbraio 1667, era figlio di Giacomo e
di Maria Cecilia SpinoIa, donna di gran casato e piena dei pregiudizi del suo
stato (1). Costretto nel 1690 a portarsi a Napoli per recuperare certi suoi
crediti, tanto gli piacque l’atmosfera intellettuale del Regno che non se ne
mosse più per tutto il tempo che visse (morì nel 1746). Non accettò neppure il
pressante invito fattogli nel 1730 dal generale sassone Johann Mathias von
Schulenburg (1661-1747) a visitare Corfù che costui, passato al servizio di
Venezia dopo aver militato in tutti gli eserciti d’Europa, aveva abilmente
difeso contro i Turchi nel 1716: per il Doria l’azione più brillante di questo
sperimentatissimo uomo di guerra (2).
Amicissimo del Vico, nel
1709 aveva pubblicato quel suo trattato della Vita civile, che a parere
del più accurato radiografo dell’opera del Montesquieu, Robert Shackleton,
sarebbe una delle fonti dell’Esprit des lois (3). In ogni caso,
anticipa senza dubbio alcune delle tesi fondamentali dell’opera francese,
apparsa - si sa - nel 1748. Il Doria fu scrittore copioso di filosofia politica
e, ahimé, di matematica. I testi che ci interessano sono quattro, due editi,
due inediti: Il capitano filosofo, ponderoso trattato di teoria militare
uscito nel 1739; le Lettere, e ragionamenti varj, apparso nel 1741, dove si legge
un esame critico dell’Histoire de Charles XII del Voltaire
pubblicata dieci anni avanti; due opere lasciate inedite dall’autore tra i
tanti suoi manoscritti, tratte in luce di recente, tra il 1981 e il 1982, e in
modo non proprio impeccabile, da un gruppo di studiosi dell’Università di
Lecce: il Politico alla moda del 1739 (che già aveva ricevuto miglior
cura nelle mani di Vittorio Conti) e Il commercio mercantile del 1742: una
delle sue ultime opere (4). Che il Doria fosse osservatore politico acuto si
può dimostrare, per esempio, con un passo del Politico alla moda sulla
Prussia. Re ne era ancora Federico Guglielmo I, il creatore maniacale del
potentissimo esercito prussiano: “Pare che egli aspiri - commenta il Doria - ad
ingrandire il suo stato con l’acquisto della Slesia, quando si divideranno li
stati ereditarj dell’Imperatore” (5). Federico Guglielmo, alieno d’altra parte
a sciupare con una guerra quella sua perfettissima macchina, premorì a Carlo
l’anno successivo. E l’invasione della Slesia, fosse questa o no nei piani del
defunto re, fu a ogni modo il primo atto del nuovo: Federico II.
I due saggi nutriti che
ho pubblicato su questo autore mi consentono di essere breve. Bestia nera
dell’ultimo Doria, dell’autore cioè del Commercio mercantile (non a caso
proprio in quest’opera egli si fece propugnatore della disobbedienza civile (6)
era la politica “mercantile” del suo tempo, espressione che in lui non connota
un sistema di scambi, ma un modo perverso di concepire i rapporti politici:
quelli tra governanti e governati, quelli tra stato e stato, quello degli
ordini all’interno degli stati, quelli infine tra uomo e uomo. Proprio quel
gran mercanteggiare, quel disporre della vita dei popoli senza minimamente
consultarli, quel passarseli di mano in mano era ciò che più faceva ardere di
sdegno il Doria. Quei principi bassamente calcolatori, che non coltivavano
altro disegno politico che quello di arricchire il loro erario privato, non
erano forse più simili a mercanti - e a mercanti indegni, perché mancatori di
fede - che a guide e mantenitori di quegli organismi delicati, sempre pronti a
esplodere a causa delle tensioni interne e della naturale turbolenza degli
uomini che sono le società politiche? Caso esemplare di questa “mercantilizzazione”
della politica: la Russia. La sua situazione internazionale era, prima
dell’avvento di Pietro, del tutto marginale. Paese vastissimo, sembrava che
fosse “utilissimo più che niun altro regno del mondo del commercio” e capace
“d’inondare l’Europa”. Ma era purtroppo spopolato (“a cagione che è stato
governato da i loro czari con tirannia, era poco men che tutto spopolato”,
tranne “quelli paesi che sono vicini al fiume Volga”). Non era stato perciò
temibile da parte dell’Europa: “un’inondazione de’ soli moscoviti” era allora
impensabile. Il clima rigidissimo non favoriva d’altra parte il commercio con i
forestieri; e meno ancora lo favoriva il bassissimo livello culturale delle
popolazioni: “Li popoli ... sono stati incolti sino alla venuta di Pietro
Alexiovitz nelle virtù militari e nelle civili, e sono stati trattati dai loro
czari ad uso di bestie, onde poi essi stessi hanno vissuto più come bestie che
come uomini, hanno avuto pessimi costumi ed inurbani, nelle conversazioni altro
non facevano che ubbriacarsi e poi si cadevano a terra”. Le donne non facevano
eccezione. Sul piano militare erano stati vulnerabilissimi. Nelle molte guerre
combattute con i Polacchi “sono sempre stati battuti sin’a tanto che li
Polacchi hanno dato il sacco a Mosca”; e pochissima perizia e scarsa disciplina
avevano dimostrato nei frequenti conflitti col Turco. Di questa incapacità
militare è prova il fatto che Carlo XII, nel 1700, poté battere a Narva con
soli ottomila svedesi un esercito russo dieci volte superiore. Né migliore era
la situazione religiosa. Greci scismatici, erano “osservantissimi” dei riti e
delle “penitenze esteriori” e obbedientissimi dello zar e del loro patriarca;
ma i loro costumi erano pessimi. Le tre quaresime all’anno che facevano e tutte
le messe che sentivano non li facevano migliori: “in mezzo alla loro ignoranza
ed alla loro barbarie sono maliziosissimi, infedeli nel commercio e cattivi
uomini”. La loro non era religione, ma “superstizione”; e c’era da augurarsi
che tanta ipocrisia non finisse per attecchire tra i cattolici romani.
Pietro, uomo “dotato
dalla natura capace di altissime virtù”, aveva concepito il disegno
lodevolissimo di “civilizzare” la sua nazione e di “coltivarla nella virtù per
lo mezzo del commercio colle altre nazioni”. In breve: “mutare la forma del
governo barbaro in forma di governo politico” (7). Commise però l’errore,
comune a tutti i principi europei, di credere che la politica “consista nel
commercio ... e nel mantenere esercito numeroso, e che consista nella coltura delle
arti, ed aveva ancora per massima la massima che hanno li nostri principi, cioè
che la gloria del principe consista nel dominare il popolo a sé soggetto e nel
conquistare gli altrui stati, onde poi pongono in tutto in bando la cura di
promuoverne i popoli la vera morale e quelle vere virtù le quali sono ... li
veri e li soli fonti della vera politica”. Per raggiungere il suo fine di
“coltivare li moscoviti nelle arti, nel commercio e nella guerra” non aveva
risparmiato fatiche. I suoi successi erano sotto gli occhi di tutti. Aveva
creato dal nulla un’eccellente scuola di architettura navale e li aveva resi
abili in molte altre attività tecniche (“oggi li moscoviti fabricano vascelli,
e fabricano tutte le altre cose alle quali nei passati tempi non hanno mai
veramente pensato”); aveva aperto il commercio con la Cina, con la Persia, con
l’Olanda, con la Svezia, con la Francia e altri paesi ancora (“il czar ha
introdotto perfettamente nella Moscovia il commercio”); aveva, con l’aiuto di
ufficiali francesi, olandesi, inglesi e tedeschi, disciplinato e ben istruito
nell’arte di combattere l’esercito (“l’infanteria moscovita è la migliore che
sia in Europa”). L’ultimo perfezionamento dell’esercito era sì dovuto all’opera
di due stranieri - il tedesco Burchard Christoph Mùnnich (1685-1767) e
l’irlandese Peter Lacy (1666-1751) - ai quali la zarina Anna, buona
continuatrice della politica petrina, aveva concesso i maggiori poteri. Ma era
stato pur sempre Pietro che aveva dato il primo e decisivo impulso e li aveva
ingaggiati al suo servizio. E sua era stata la cura d’introdurre in Russia
lettere e scienze, chiamandovi “con grandissimi soldi” molti scienziati delle
università d’Europa per formarvi quell’Accademia delle scienze che Caterina I
aveva poi realizzato.
Se i russi avevano
assimilato dunque perfettamente le tecniche e l’organizzazione delle risorse
dell’Occidente non per questo erano però divenuti più “virtuosi”: che pure era
il secondo punto del programma di Pietro. Bisognava cercare la radice di questo
fallimento nella ristrettezza della sua visione politica: “non era filosofo,
non era capace d’intendere l’origine e l’essenza della vera politica”. I
rapporti dei cittadini con il potere non erano mutati: i Russi schiavi erano e
schiavi erano rimasti (8). La loro ferocia si era tutt’al più convertita in
malizia (9). Il commercio, la disciplina militare, il progresso nell’uso delle
tecniche non bastano per far avanzare in civiltà. Il Doria non pensava tuttavia
che quell’europeizzazione precoce e violenta avesse compromesso per sempre la
possibilità d’incivilimento dei russi. Sarà questa un’idea
di Rousseau: “Les Russes ne seront jamais vraiment policés, parce qu’ils l’ont
été trop tôt” (10).
Pietro era stato un
eroe? Doria non lo credeva. Autentici eroi - così aveva detto sin dal 1709 -
“quegli uomini forti e coraggiosi ma dotti e savj tutto ad un tempo, i quali
alla felicità del popolo e dello stato le loro eroiche azioni indirizzarono ed
in conseguenza di ciò prima penseranno agli interni ordini politici dello
stato, dai quali nasce l’interno utile e naturale commercio, e poscia al
commercio con le straniere nazioni ed in questa guisa faranno fiorire nei lor
paesi la ricchezza alla virtù congiunta”. Il Doria è molto avaro nel rilasciare
patenti di eroismo: la nega anche a Carlo XII. Era stato sì “un mostro di
coraggio, d’intraprendenza, di costanza nelle fatiche”: un temerario, non un
eroe. Aveva rovinato la Svezia, il suo paese, e non si era proposto nessun fine
virtuoso, come sarebbe stato quello di liberare dalla servitù i pupoli che
conquistava (11) E la nega, in polemica con Voltaire, al suo grande
antagonista: Pietro. Il successo delle riforme compiute da quest’uomo brutale
era incontestabile: la Russia era divenuta, vasta e ricca com’era, “la più
potente Nazione d’Europa” (12). Ma egli non aveva saputo dare alla sua autorità
la forza di un fondamento morale. Il potere degli zar era enorme, ma fragile. I
supplizi più atroci non bastavano a spegnere nei russi il desiderio di
“divenire liberi” alla maniera dei vicini svedesi alla morte di Carlo XII; come
avevano inutilmente tentato nel 1730. “Le congiure contro la Czara -
pronosticava - come prodotto da una piaga assai profonda, si multiplicheranno
sempre e alla perfine scoppieranno in una universale rivoluzione, e ciò
malgrado li numerosi supplicj che la czara [indubbiamente Anna] prattica contro
li congiurati” (13). Per l’intrinseca debolezza del potere zarista non nutriva
grandi timori per il futuro d’Europa. Anche nell’ipotesi che la Russia, questo
“gigante di smisurata grandezza”, fosse riuscita a soggiogare l’impero turco -
era questo, del resto, il suo compito storico (14) - e a formare uno stato che
si stendesse dal Baltico al Mar Nero e al mar di Grecia, fino ai confini con
Venezia, non era da temersi. Un’iniziativa russa ai danni di qualche paese
europeo avrebbe per prima cosa suscitato una grande coalizione contro
l’aggressore (15). Ma esistevano soprattutto limiti oggettivi all’espansione
territoriale degli stati, e tanto più gravi quanto più il potere centrale, per
la sua natura autocratica, mancava di profonde radici. La forza degli eserciti
non bastava ad assicurare il successo durevole di un tirannico conquistatore.
Note
1) Luogo e data di
nascita, nonché rapporti e legami familiari sono stati ricostruiti da me su
carte d’archivio: “Idee di riforma nella Genova settecentesca”, Il movimento
operaio e socialista in Liguria, VII, 1961, p~ 225 nota; Paolo Mattia Doria nel
vol. 44, tomo V della Letteratura italiana. Storia e testi, MilanoNapoli 1978,
pp. 835-968 (d’ora in avanti: D); “P.M. Doria rivisitato”, in Paolo Mattia
Doria, Fra rinnovamento e tradizione. Atti del convegno di studi - Lecce, 4 - 6
nov. 1982, Galatina 1985, pp. 389-431. La comunicazione era stata pubblicata la
prima volta su Stndi settecen teschi. ~4 (1982-1983), pp
45-88 (d’ora in avanti: DR).
2)
Nel 1726 lo stesso Schulenburg così riassumeva, a uso dell’allievo de Folard,
la sua carriera: “je me suis trouvé pendant plus de quarante ans, pour ainsi
dire, aux quatre coins de l’Europe, de sorte que j’ai fait la guerre avec et
contre les nations les plus connues sur notre globe” (J.CH. DE FOLARD),
Commentaire sur Polybe, v. III, Paris 1728, p. 164). Sui suoi rapporti con il
Doria e su quest’ultimo teorico della guerra cf. DR, pp.84-87 (cf. anche S.
ROTTA, “P.M. Doria rivisitato”, in Paolo Mattia Doria, Fra rinnovamento, cit.,
pp. 427-430).
3)
R. SHACKLETON, “Montesquieu Ct Doria”, Revue de littérature comparée, LVII
(1955), pp. 173-183.
4) I dodici volumi di
manoscritti del Doria, conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli,
sono stati pubblicati presso l’editore Congedo (Manoscritti napoletani di Paolo
Mattia Doria, a cura di G. BELGIOIOSO, M. MARANGIO, A. SPEDICATI, P. DE
FABRIZIO, 5 vv., Galatina 1979-1982>. Il politico alla moda si legge nel v.
V, a cura di M. MARANGIO, pp. 25-131; Il commercio mercantile nel v. IV, a cura
di F. DE FABPIZIO, pp. 277~0. Il politico alla moda era~tato già pubblicato da
V. CONTI in appendice al suo saggio P.M. Doria. Dalla Repubbhca dei togati alla
Repubblica dei notabili, Firenze 1978, pp. 129-259.
5) P.M. DORIA, Il
politio alla moda, in V. CONTI, P.M. Doria, cit, p203.
6) D, pp. 962-968
7) DR, pp. 68-69 n. 19
(cf. anche 5. ROTTA, “P.M. Doria rivisitato”, in Paolo Mattia Doria, Fra
rinnovamento, cit., pp. 411-412); P.M. DORIA, Il politico alla moda, in V.
CONTI P.M. Doria, ciL, p. 206.
8) P.M. DORIA, Lcttere,
e ragionamenti varj, Perugina (Napoli) 1741, p. 60.
9) P.M. DORIA, Il
politico alla moda, in V. CONTI, P.M. Doria, ciL, p. 212.
10)
J.J. ROUSSEAU, Du con trat social, in oeuvres completès, v. III, Paris 1964, p.
386 (libro lì, capitolo 8); C. WILBERGER, “Peter the Great: an
Eighteenth-Centurv Hero of Our Times?”, Studies on Voltaire and the Eighteenth
Centur’, XCVI (1972), pp. 5-127 (in part. pp. 19-62); D.S. VON MOHRENSCHILDT,
Russia in the intellectual life of eighteenth centurvFrance, New York 1936. L’autore sostiene che
attorno al 1760 le posizioni degli intellettuali francesi erano divise in
“Russian or anti-Russian group” e in “Voltaire or pro Russian group” (p. 242).
Il primo gruppo includeva Mably, Condillac, Raynal e Mirabeau. Nella prima
categoria militavano Diderot, Alembert, Grimm, La Harpe, Marmontel, dejaucourt.
Divisione troppo netta (C. WILBERGER, op. cit. p. 63ss.).
11) P.M. DORIA, Lettere,
e ragionamenti varj, cit, p. 59; Il capitano filosolo’, Napoli 1739, p.16.
12) P.M. DORIA, Il
commercio mercantile, in Manoscritti napoletani, cit., v. IV, p. 350.
13) P.M. DORIA, il
politico alla moda, in V. CONTI, Paolo Mattia Doria, ciL, p. 212.
14) P.M. Doria aJ.M. von
Schulenburg, 29 settembre 1731: “L’Imperio Ottomano poi hà così declinato da i
suoi principj, che già sarebbe giunto al suo fine, se la pigrizia de Turchi nel
far commercio non tenesse allettate da i guadagni, e come stipendiate le nostre
Nazioni Mercantili ... quest’impresa però sarebbe riserbata più, che à verun’
altro Principe al Zar di Moscovia, il quale essendo della Religgioiie Greca, e
come egli pretende, discendente dagl’Imperadori Greci averebbe subito entro le
Viscere dell’Imperio un gran partito; ma il vile Interesse e la discordia sono
troppo più forti, che non è l’Amor della gloria, e quel del ben d’Europa”
(Manoscritti napoletani, ciL, v. III, p. 203).
15) I1 Doria si era
posto il problema se lo zar di Russia potesse formare una monarchia universale
soprattutto nel Politico alla moda (P.M. DORIA, Il politico alla moda, in V.
CONTI, P.M. Doria, cit., pp. 210-211): “Supponiamo per primo che egli
penetrasse con le sue rapide conquiste nel core della Germania. Che li avverrebbe
egli? … Non avendo il Czar un numeroso popolo più virtuoso, che il popolo
alemanno, egli non potrebbe ... mutar gli ordini e le leggi dei paesi
conquistati”. Che cosa dunque potrebbe fare? “Egli avrebbe a stabilire le sue
conquiste, ponendo in tutti li paesi conquistati un gran numero di truppe per
presidiare le piazze, e per tenere in freno i nuovi popoli”. In questo modo
però “indebolirebbe il suo esercito, e frattanto i principi vinti si unirebbero
in lega fra essi, e lo discaccerebbero dalla Germania”. Anche supponendo che lo
zar andasse “a passi lenti, conquistando prima li paesi di confine, e poi
inoltrandosi a poco a poco nelle viscere della Germania” andrebbe incontro alle
stesse difficoltà, perché “nel lungo tempo ch’egli ponesse a conquistare, i
principi si unirebbero contro di esso” e anche quando riuscisse vittorioso
degli ostacoli “non potrebbe stabilir le conquiste per altra via, che per
quella delli presidj di truppe moscovite, onde gli suoi eserciti si
diminuirebbero, ed egli sarebbe obbligato ad abbandonare le sue conquiste”. La
conclusione è rassicurante: “Così dunque non possono mai fare stabili conquiste
quelli conquistatori, i quali non hanno virtuoso stato”. In breve: “con le sole
truppe non si possono fare stabili conquiste”.