Dagli
atti del convegno In fuga.
Temi, percorsi, storie (Università
Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1-2 marzo 2013. A cura di Federico Bellini e
Giulio Segato
Stefano Rosso
Note sulla fuga
(e sull’inseguimento) nel western americano
Washington is
not a place to live in. The
rents are high, the food is bad, the dust
is disgusting and the morals are deplorable. Go West, young man, go West and grow up
with the country. Horace Greeley, 1865 But I reckon I got to light out for the Territory
ahead of the rest... Mark
Twain, Adventures of Huckleberry Finn, 1884
Ha
scritto Albert O. Hirschman: “gli Stati Uniti devono
la propria esistenza e la loro cresci[1]ta a milioni di decisioni in cui l’uscita ha prevalso sulla
voce” 1 . Con queste parole l’autore[1]vole economista sottolineava la forte tendenza americana
alla fuga individuale (è questo il significato che egli attribuisce al termine
“uscita”, exit) rispetto alla ribellione collettiva (la “voce”, voice). Non
deve stupire che un paese fondato sul distacco violento dall’Inghilterra
anglicana abbia costruito, più degli altri, un’ideologia della fuga e del
viaggio verso un futu[1]ro di speranza e di
rinascita. Tuttavia se gran parte dei testi dei primi due secoli di cultura
americana, quella puritana, sembrano concordare sulla positività della tendenza
escapista, non mancano, fin dal Settecento, posizioni di parziale dissenso o
perlomeno ambigue. E ancora, sebbene la fuga si apra in moltissimi casi
all’ampio campo ideologico di una rigene[1]razione
non soltanto religiosa e spirituale, ma anche economica e politica, su cui
tanto ha scritto Richard Slotkin, è pur vero che la
sua messa in scena permette di articolare posizioni di dubbio che talvolta
arrivano a sfiorare l’‘autodecostruzione’ 2 . Il
genere statunitense in cui maggiormente compare il motivo della fuga prima
della Beat Generation e della cultura hippie è senza dubbio il western3 . La ragione è palese: il grande spazio dell’Ovest apre,
più di ogni altro, la possibilità di un movimento di fuga, sradicamento,
nomadismo, perdita e trasformazione di identità; il fatto di muoversi verso
luoghi dove la legge e la civiltà non sono ancora arrivate costituisce un
terreno ideale per una cultura, nella terminologia di Hirschman,
dell’‘uscita’, in cui domina quell’affermazio[1]ne di sé con cui spesso si riassume, un po’
sbrigativamente, il ‘carattere americano’ 4 . Ciò comporta, innanzitutto, la
rimozione totale dei diritti degli abitanti del territorio in cui la fuga si
svolge, i nativi, e la costruzione di un’ideologia del movimento verso ovest poten[1]zialmente infinito (da cui sono escluse anche le donne):
prima con l’annessione di una par[1]te
del territorio del Messico e con l’occupazione di tutto il Sud-Ovest e il
Nord-Ovest; poi con la svolta imperialista e la lotta per la conquista delle
profondità dei mari e dello spazio. E proprio quando la Frontiera, la linea
irregolare che separerebbe la ‘civiltà’ dalla wil[1]derness (le terre selvagge), sarà dichiarata ufficialmente
chiusa intorno al 1890, e lo storico Frederick Jackson Turner ne celebrerà con
tono parzialmente nostalgico il ruolo cruciale per la creazione del ‘carattere
nazionale’ americano, esploderà davvero il suo mito, tanto duraturo da
manifestarsi ancora oggi nelle forme più disparate come nei racconti di
‘uscita’ ecologica dai grandi centri urbani, della ricerca del ‘sé autentico’ nel profondo Nord, di cui Into
the Wild di Jon Krakauer
(1996) rappresenta un esempio emblematico5 . Nonostante la sua centralità, il
motivo della fuga è stato raramente tematizzato negli studi sulla letteratura e
sulla cultura degli Stati Uniti. In un volume importante ma ormai datato (1972)
6 , Sam Bluefarb si
concentra su un periodo abbastanza ristretto: quello che va da Adventures of
Huckleberry Finn (1884) di Mark Twain a Native Son
(1940) di Richard Wright. Per quanto riconosca più volte il ruolo mitopoietico
costituito dal western, Bleu[1]farb evita di affrontarlo direttamente, forse a causa del
pregiudizio nei confronti dei generi di massa, tipico dell’epoca in cui scrive.
Linee di ricerca decisamente più produttive vengono da Love and Death in the
Ame[1]rican Novel di Leslie Fiedler, un classico della critica provocatorio,
paradossale e geniale, che già nel 1960 metteva in luce le marcate differenze
tra il Bildungsroman europeo e il romanzo
ottocentesco angloamericano7 . Secondo Fiedler la
narrativa degli Stati Uniti del periodo 1780-1950 si distinguerebbe da quella
europea per l’incapacità di rappresentare il rapporto amoroso fra un uomo e una
donna adulti. A tale incapacità (o fobia) narrativa si contrapporrebbe
un’archetipica nostalgia per un mondo infantile ossessionato dalla morte,
dall’incesto e da forme di omosessualità (latente) che, in modo paradossale,
avrebbe reso la letteratura americana adatta a un pubblico di bambini. La tesi,
che vede un netto privilegio delle istanze antirealistiche
del romanzo, viene sostenuta grazie all’analisi di opere narrative di Brockden Brown, Cooper, Poe, Hawthorne, Melville, Twain, Faulkner e di numerosi altri
scrittori meno canonici in cui è evidente la straordinaria conoscenza di Fiedler della cultura di massa, cinema compreso. I
personaggi maschili dei romanzi angloamericani sem[1]brano
preferire il legame con altri uomini (i marinai di Melville, gli eroi della
Frontiera di Cooper, i ragazzini di Twain, ecc.); ma la loro rimozione della
sessualità non manca di ri[1]presentarsi sotto
forma di ‘ritorno del rimosso’ attraverso proiezioni maschili di donne che non
possono che essere ‘mostri di virtù’ (donne asessuate) o ‘mostri di
depravazione’ (dark ladies). Nella sua operazione critica Fiedler
è tra i primi a indagare sul ruolo ideologico da attribuire alla fuga avventurosa
nel West, per quanto non lo faccia in modo sistematico (ma la strada era già
stata aperta da D.H. Lawrence quarant’anni prima) 8 .
Infatti è proprio il western la palestra ottocentesca in cui si esercita
maggiormente il moti[1]vo
della fuga e del suo motivo correlato, l’inseguimento. Già nella prima metà del
XIX secolo, nei romanzi della serie di Leatherstocking
di Cooper, fuga e inseguimento sono ampiamente tematizzati e danno vita al mito
– potremmo quasi dire all’ossessione – per la mobilità che caratterizza il suo
protagonista. Tale mito sarà via via riproposto nella lunga stagione dei dime novels, i romanzetti da dieci centesimi lanciati con enorme
successo sul mercato statunitense all’epoca della guerra civile e di
straordinaria diffusione fino a inizio Novecento quando lasce[1]ranno
il posto alle riviste pulp. La martellante ripetizione di alcune formule
narrative ingenue li rende oggi quasi illeggibili, ma all’epoca della loro
pubblicazione costituirono un luogo di esercizio per molteplici intrecci che
avrebbe in seguito alimentato tutte le varianti del western maturo e quelle del
genere a esso contiguo, il detective novel di tipo
hard-boiled. Adventures of Huckleberry Finn, centrale
nell’analisi di Fiedler e in qualsiasi riflessione suc[1]cessiva, non è, a rigore, un romanzo western; tuttavia
celebra, una volta per tutte, la fuga dalla ‘civiltà’, dalla vita nei centri
urbani (anche piccoli come la fittizia St. Petersburg sul Mississip[1]pi), dalle costrizioni della vita sociale (scuola, famiglia
e buone maniere) e propone altresì un modello di legame maschile esclusivo
(male bonding), a tratti ambiguamente misogino: Huck non rifiuta soltanto l’autorità violenta del padre
rozzo e ubriacone o quella benevola della vedova Douglas che gli fa da tutrice,
ma anche l’ipotesi eterosessuale e normalizzata implicita nelle scelte del
sodale Tom Sawyer innamorato di Becky,
una ragazzina della sua stessa età. Huck preferisce
una fuga lungo il Mississippi che lo sradichi definitivamente dai suoi disa[1]strosi legami familiari e sociali e al tempo stesso conduca
alla libertà il nero Jim che scappa con lui. Meglio
morire tra gli indiani (peraltro aborriti da Twain) che ritornare nella ‘sivilization’, come la chiama Huck,
perché l’esperienza fatta è stata più che sufficiente per capire che va
fuggita: “I been there before” (ci sono già stato) dice Huck
nell’ultima riga del romanzo. Pur non presentando ambientazione, personaggi e
azioni tipici del western, il romanzo di Twain conserva in modo evidente la
carica di ribellione individuale che tale genere, an[1]che nelle forme più
conservatrici (in cui generalmente prevale l’ideologia del self-made man,
nonché certe tendenze antidemocratiche), tende a portare con sé. In questo ha
certo ragione Hemingway a considerarlo il fondamento della letteratura
americana, con la sua frase iperbo[1]lica “tutta la letteratura americana moderna nasce da un
libro di Mark Twain intitolato Huck[1]leberry Finn” 9 . Anche ilwestern dovrà riconoscere il proprio debito nei confronti
del romanzo di Twain, come pure nei confronti di altri testi cruciali di fuga
dalla civiltà comeMoby-Dick di Melville (ma anche “Bartleby, the Scrivener”) oppure Walden di D.H. Thoreau. Tuttavia
il motivo della fuga nel western non si limita alla semplice articolazione
dell’ab[1]bandono della civiltà in nome della ricerca di un mistico
‘sé autentico’, che peraltro raramente si riesce a
trovare. In varie storie controcorrente la fuga è un volano formulaico
su cui si in[1]nestano
significati sempre diversi. Ciò è già palese in Roughin’
It (In cerca di guai, 1872) 10 , un’opera giovanile
dello stesso Twain solo recentemente rivalutata dalla critica, che contiene
l’esilarante resoconto di un viaggio avventuroso dall’Iowa al Nevada e alla
California, con un detourche include perfino le Hawai’i, dopo una sosta istruttiva nel disprezzato Utah dei
mor[1]moni. Roughin’ It è un testo ancora imperfetto dal punto di vista
stilistico, ma che nella sua prima parte si distingue per il lungimirante
disincanto del punto di vista della sua voce nar[1]rante, assolutamente refrattaria ai facili entusiasmi
alimentati dall’ideologia del Manifest De[1]stiny, che spinsero centinaia di migliaia di americani a
rincorrere la fortuna nell’Ovest senza trovarla. In Roughin’
It Twain passa in rassegna gli stereotipi western che
si stanno afferman[1]do, producendo una
serie di ‘anticorpi’ letterari e ideologici che, sfortunatamente, avrebbero
impiegato molto tempo a moltiplicarsi. In questo caso il tragitto verso ovest,
pur conservando l’entusiasmo di chi si lascia alle spalle la civiltà della
costa orientale, nella sua frammentarietà e profonda ironia perde ogni
dimensione mitopoietica, prima ancora che il mito sia giunto a completa
maturazione. Gli incontri che si susseguono, le situazioni che oscillano tra l’avven[1]turoso e il comico, sembrano negare ogni possibilità
rigenerativa attribuita tradizionalmente alla fuga verso occidente, che a
cavallo del secolo avrebbe trovato espressione in tanti pittori di genere, in
romanzieri come Owen Wister e Zane Grey e in
storiografi conservatori come Theodore Roosevelt. Il periodo in cui il motivo
della fuga viene maggiormente interrogato e trasformato da alcuni scrittori
western è il secondo dopoguerra, proprio in concomitanza con l’affermarsi del
culto della fuga nella Beat Generation e delle comunità hippie. Da allora tale
rilettura è ripro[1]posta ciclicamente,
quasi a dimostrare che la cultura americana possiede la capacità di reagire al
tentativo di totalizzazione delle proprie ideologie. Il caso più notevole negli
anni Cinquanta e Sessanta è rappresentato da Elmore
Leonard, che comincia a dedicarsi al western agli inizi degli anni Cinquanta,
cioè in quel periodo in cui il racconto western su rivista (“Argosy”, “Dime Western”, “Zane Grey’s
Western”, “We[1]stern Story Magazine”, ecc.) si trova a competere sia con
le edizioni paperback dei romanzi, sia con l’affermarsi sempre più prepotente
delle serie televisive 11. Egli rivisita tutti i cliché
del western classico modificandoli in modo implacabile: aumenta lo spazio
occupato dalle donne e dalle minoranze etniche non mancando di introdurre
personaggi afroamericani, altera il ruolo stereotipato degli indiani e dei
criminali e banditi dell’Ovest, asciuga l’azione e amplia lo spazio del
dialogo, propone una rappresentazione della violenza realistica ma al contempo
poco spettacolare e lontana da qualsiasi idea di rigenerazione. Tra i
riaggiustamenti proposti nei suoi numerosi intrecci 12 ,
non è mancato l’interesse per il motivo della fuga, come emerge fin dal suo
primo racconto del 1951, Trails of the Apache.
Leonard liquida uno dei motivi più frequenti del viaggio verso l’Ovest: il
desiderio di lasciarsi alle spalle un qualche fallimento, amoroso,
professionale o d’altro tipo. In questo senso egli svuota dall’interno la
carica ideolo[1]gica della fuga, la trasforma in un percorso semplicemente
materiale e contingente di soprav[1]vivenza:
sfuggire a un antagonista. Un caso particolarmente esplicito è costituito da
una delle sue ultime opere western, Val[1]dez is Coming
(Arriva Valdez, 1970), poi portato sullo schermo da Edwin Sherin
(1971, con Burt Lancaster nel ruolo del protagonista). Valdez è un
vice-sceriffo messicano, che dopo avere assistito a un sopruso a opera di Frank
Tunner, un ‘barone del bestiame’, tenta la via del
risarcimento pacifico con formidabile pazienza, ma viene respinto ripetutamente
con vio[1]lenza
sempre più brutale, fino a essere legato a una croce che lo costringe a
muoversi quasi strisciando, tra dolori indicibili. Liberato dal fardello grazie
a un incontro fortunoso, Valdez rapisce la compagna di Tanner
e intraprende una fuga dal successo improbabile. Ma la sua sagacia tattica gli
permette, in meno di cento pagine, di eliminare dodici cowboy assoldati dal
malvagio allevatore per dargli la caccia. Inseguito da costui fino alla cima di
una montagna, quando ormai sembra spacciato, Valdez si trova improvvisamente
nella condizione di sfidare ad armi pari il suo antagonista e di ‘fare
giustizia’ una volta per tutte, fornendo, con un duel[1]lo
risolutivo, un significato pieno a una fuga avventurosa durata quasi duecento
pagine. Ma soddisfatto dal risultato ottenuto si allontana risparmiando
l’avversario ormai abbandonato dai suoi stessi uomini e lasciando sbalordito il
lettore, come già aveva fatto in tanti racconti precedenti. Ovviamente quando
Leonard scrive Valdez is Coming
i tempi sono maturi per una rilet[1]tura
dissacrante della fuga eroica e rigenerativa. Molti dei cliché del western sono
stati fatti esplodere dalla violenza del cinema di Sergio Leone e di Sam Peckinpah e dalla loro ironia pervasiva 13
. La scelta di Leonard è però narrativamente molto meno spettacolare;
anzi, potremmo dire, consiste proprio nella ‘de-spettacolarizzazione’ di uno
dei motivi portanti del western, la fuga, al termine del quale si colloca
tradizionalmente il duello14 . Un altro romanzo che ha
contribuito a scardinare l’alone romantico che circondava la fuga del western
classico è costituito da True Grit (Il grinta, 1968)
15 , opera di grande notorietà di Charles Portis, poi film di enorme successo
di Henry Hathaway (1969), recentemente ripro[1]posto
con grande bravura dai fratelli Coen (2011). In
questo caso la novità straordinaria per l’epoca è costituita dal fatto che la
voce narrante del romanzo è quella di una ragazza di quat[1]trodici anni, Mattie Ross, co-protagonista
dell’intreccio, caso decisamente eccentrico nella storia del western, una sorta
di “Huckleberry Finn al femminile” come ha
opportunamente scritto un critico 16 . Mattie ha assoldato Rooster
Cogburn – soprannominato ‘il Grinta’ (the Grit) per il suo carattere deciso – un non più giovane
sceriffo federale, rozzo, ubriacone e pri[1]vo
di scrupoli, per trovare l’assassino del padre. Partecipa alla caccia anche un giovaneranger del Texas, certo Laboeuf.
Il trio si addentra nel territorio indiano lungo un percorso dove i fat[1]ti
drammatici si alternano alle dinamiche comiche interne al gruppetto di
inseguitori, dovute in buona parte al carattere pragmatico e ‘poco femminile’
di Mattie, dalla spacconeria e da un certo pregiudizio anti-texano del Grinta.
Quando, al termine di un inseguimento estenuante si arriverà allo scontro
frontale, anche in questo caso il duello, irrealistico al punto da sfiorare la
comicità, verrà collocato in un punto del racconto che non gli permetterà di
acquisire il significato rigenerativo atteso e l’inseguimento stesso assumerà
un carattere secondario. Quando True Grit viene
pubblicato siamo ormai nel 1968, alla fine di un decennio di sconvolgimenti
culturali che stanno trasformando gli Stati Uniti. Mentre narratori fedeli ai
cliché del western come Louis L’Amour procedono
imperterriti sulla via della ripetizione acri[1]tica,
per i narratori più accorti, come Leonard e Portis, quella via non ha più alcun
interesse. Forse inconsapevolmente partecipi di alcune spinte ideologiche e stilistiche
del postmoder[1]no,
conquistano il pubblico anche servendosi della parodia: Portis giocando con il
western e la sua lunga tradizione, Leonard trasportando i suoi cowboy nelle
giungle urbane di Detroit e di Miami, come poi ha continuato a fare fino alla
morte. La strategia revisionista di scrittori come Leonard e Portis aveva
preparato il terreno per i grandi sconvolgimenti del western letterario e
cinematografico, predisponendo il pubblico a una nuova sensibilità ideologica
ed estetica. La rivisitazione dei cliché, la ricollocazione del femminile e
delle diverse etnie del West rimosse dalla storia ufficiale e da quella mitica,
la rimodulazione del concetto di violenza e di uno dei suoi principali
‘antagonisti’, la vituperata domesticità, aprono la via ai grandi scrittori
western nostri contemporanei e indicano la via per una lettura demistificata
del mito della fuga17 . Dopo Leonard e Portis gli
esempi di contestazione della versione mitica ed edificante della fuga si
moltiplicano toccando vertici di sovversione in testi come The Missouri Breaks,
la sceneggiatura di Thomas McGuane per il film di
Arthur Penn del 1976, Lonesome Dove (Un volo di
colombe, 1985), il capolavoro di Larry McMurtry
vincitore del premio Pulitzer, e Blood Meridian (Meridiano di sangue, 1985) di
Cormac McCarthy, il romanzo di ‘insegui[1]mento
e fuga’ più violento e più privo di totalizzazione ideologica della letteratura
western statunitense 18 . Per venire fino al recente No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi, 2005), ancora di Cormac
McCarthy, in cui western e noir si mescolano in una fuga priva di significato
apparente e dall’esito negativo, quasi metafisico, in un mondo governato da una
violenza inaudita; violenza senza senso, come ribadito nella sua recentissima
sceneggiatura per il film The Counselor (Il
procuratore, 2013) 19 . La critica più radicale al
mito della fuga è sempre stata, in realtà, nel rifiuto di intrapren[1]derla. L’esempio più famoso della letteratura statunitense
è costituito dal brevissimo racconto (non western) di Hemingway The Killers, in
cui Ole Anderson, ‘lo svedese’, decide di rima[1]nere sdraiato nel
letto ad attendere imperturbabile i sicari che stanno arrivando per uccider[1]lo.
Il carattere sconcertante della storia è che il narratore extradiegetico non
fornisce alcuna spiegazione di questo atto che in poche pagine sembra rifiutare
tutta l’ideologia utopistica dell’American Dream. Non
è casuale che entrambi gli ottimi adattamenti cinematografici omonimi, quello
di Robert Siodmak del 1954 e quello di Don Siegel del 1964, si sforzino, per due ore, di trovare delle
motivazioni per questa scelta ‘mostruosa’. Anche il western non ha esitato a
seguire la via indicata da Hemingway e riletta da Siod[1]mak e Siegel: innumerevoli sono i
pistoleri che a un certo punto interrompono improvvisa[1]mente la fuga quasi
fossero eroi esistenzialisti 20 . Il caso più noto rimane quello di Billy the Kid che, sebbene disarmato, finge di estrarre una pistola,
ponendo così fine alla sua vita di fuggitivo e alla narrazione 21 .
Note
-1 A.O. Hirschman,
Exit, Voice, and Loyalty: Responses
to Decline in Firms, Organizations, and States,
Harvard University Press, Cambridge, MA 1970, p. 106;
trad. it. Lealtà,
defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982. Per alcuni suggerimenti ringrazio
Bruno Cartosio, Erminio Corti, Cinzia Scarpino e Giulio Segato.
-2 Sul significato (violento) del
termine ‘rigenerazione’ si veda soprattutto R. Slotkin,
Regeneration through Vio[1]lence: The Mythology of the American Frontier,
1600-1860, Wesleyan University
Press, Middletown, CT 1973, a cui hanno fatto seguito
The Fatal Environment: The Myth
of the Frontier in the Age of Industrialization,
1800-1890, Athanaeum, New York 1985 e Gunfighter Nation: The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, Athanaeum,
New York 1992.
-3 Innumerevoli sono i saggi critici in
cui la fuga è considerata uno dei tratti distintivi della Beat Generation. Tra
i testi recenti che affrontano l’argomento si veda B. Cartosio, I lunghi anni
sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Feltrinelli,
Milano 2012, soprattutto le pp. 211-254.
-4 Sull’insediamento in terre senza
legge mi permetto di rinviare al mio Demitizzare il western: le tre stagioni di
Deadwood (2004-2006), “Ácoma”,
nuova serie, 3, 2012, pp. 115-128.
-5 Si veda F.J. Turner, The Significance of the Frontier in
American History (1893), in Id., The Frontier in Ameri[1]can
History, Henry Holt, New
York 1920; trad. it. La
frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 1959, pp. 31-69.
-6 S. Bluefarb,
The Escape Motif in the American Novel:
Mark Twain to Richard Wright, Ohio State University
Press, Columbus, OH 1972.
-7 Si veda L. Fiedler,
Love and Death in the American Novel, Stein & Day, New York 1966; trad. it. V. Poggi, Amore e morte nel romanzo americano,
Longanesi, Milano 1960 e 1983.
-8 Si veda D.H. Lawrence, Studies in Classic American Literature
(1923), E. Greenspan – L. Vasey
– J. Worthen ed., Cambridge University
Press, Cambridge 2002; trad. it.
A. Bertolucci, Classici americani, Bompiani, Mi[1]lano
1948.
-9 La frase compare nel racconto The
Green Hills of Africa (Verdi colline d’Africa, 1935).
-10 Segnalo la bellissima traduzione di
Giulia Arborio Mella (Mark Twain, In cerca di guai, Adelphi, Milano 1993).
-11 Su Leonard rimando al mio Dal
western classico al post-western: lo strano caso di Elmore
Leonard, in L’inven[1]zione
del west(ern). Fortuna di un genere nella cultura del
Novecento, S. Rosso ed., ombre corte, Verona 2010, pp. 82-89, poi ripreso con
modifiche in S. Rosso, Rapsodie della Frontiera, Sulla narrativa western
contemporanea, ECIG, Genova 2012, pp. 39-55. Tra le serie televisive western
principali si vedano Gunsmoke (1955-1975), Bonanza
(1959-1973), The Rifleman (1958-1963), Have Gun – Will Travel
(1957-1963), Maverick (1957- 1962), Rawhide (1959-1966), The Virginian (1962-1971), The Big
Valley (1965-1969) e Wagon Train (1957- 1965).
-12 Leonard ha scritto una trentina di
racconti e otto romanzi western in circa vent’anni, prima di passare al più redditizio
noir urbano a cui è stato dedito, con grande successo planetario, fino alla
morte recente. In italiano i racconti western di Leonard sono apparsi in un
volume della collana Stile libero Noir di Einaudi: E. Leonard, Tutti i racconti
western, Einaudi, Torino 2008, ottimamente tradotti da Luca Conti; ed. orig. The Complete Western Stories, Harper, New York 2004.
-13 Si pensi alla scena finale di Per
un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964) in cui l’eroe riesce a sconfiggere Ramòn Rojo, l’antagonista
crudele, grazie a un fantasioso giubbotto antiproiettile. Ironia, parodia e
comico sono comparsi più volte nella storia del western, dai Fratelli Marx agli Stooges, da Laurel e Hardy a Jerry Lewis, fino a film di animazione
come lo straordinario West and Soda di Bruno Bozzetto (1965). Toni ironici e
comici erano già presenti in vari film classici, come ad esempio in Rio Bravo
(Un dollaro d’onore, 1959) di Howard Hawks. Pochi
ricordano che uno dei maggiori successi commerciali della storia del western è
stato il parodico Blazing Saddles
di Mel Brooks (Mezzogiorno e mezzo di fuoco, 1974).
-14 Sul duello mi permetto di rinviare
ancora al mio Rapsodie della Frontiera, pp. 95-110.
-15 C. Portis, True Grit,
Simon & Schuster, New York 1968; trad. it. Il
grinta, Giano, Varese 2011.
-16 B.J. Frye,
Charles Portis, in Updating the Literary
West, Thomas J. Lyon ed., Texas Christian University
Press, Forth Worth, TX 1997, p. 497.
-17 Alcune avvisaglie di questo
cambiamento si possono già cogliere in film come The Wild Bunch
(Il mucchio selvaggio) di Sam Peckinpah e in Butch Cassidy and the Sundance Kid (Butch
Cassidy), entrambi del 1969. Per quel che riguarda la
tesi che vede il western come tentativo (pienamente riuscito) di sconfiggere il
culto femminile della domesticità si veda Jane P. Tompkins,
West of Everything: The Inner Life of Westerns, Oxford University
Press, New York 1992.
-18 Su questi si veda ancora il mio
Rapsodie della frontiera, soprattutto il capitolo Violenza Post-Vietnam, pp.
73-94.
-19 Il film è stato realizzato da
Ridley Scott.
-20 Sotto tale aspetto si potrebbe
stabilire un legame tra questo western decostruito e quel tipo di polar francese le cui migliori espressioni sono dovute a
Patrick Manchette per il romanzo e Jean-Pierre Melville per il cinema e di cui
il regista Jules Dassin è stato un ottimo
progenitore.
-21 Si veda in particolare il film di
Arthur Penn, The Left-Handed Gun
(Furia selvaggia, 1958)