Dagli atti del convegno In fuga. Temi, percorsi, storie (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1-2 marzo 2013. A cura di Federico Bellini e Giulio Segato

Stefano Rosso

Note sulla fuga (e sull’inseguimento) nel western americano

 

Washington is not a place to live in. The rents are high, the food is bad, the dust is disgusting and the morals are deplorable. Go West, young man, go West and grow up with the country. Horace Greeley, 1865 But I reckon I got to light out for the Territory ahead of the rest... Mark Twain, Adventures of Huckleberry Finn, 1884

Ha scritto Albert O. Hirschman: “gli Stati Uniti devono la propria esistenza e la loro cresci[1]ta a milioni di decisioni in cui l’uscita ha prevalso sulla voce” 1 . Con queste parole l’autore[1]vole economista sottolineava la forte tendenza americana alla fuga individuale (è questo il significato che egli attribuisce al termine “uscita”, exit) rispetto alla ribellione collettiva (la “voce”, voice). Non deve stupire che un paese fondato sul distacco violento dall’Inghilterra anglicana abbia costruito, più degli altri, un’ideologia della fuga e del viaggio verso un futu[1]ro di speranza e di rinascita. Tuttavia se gran parte dei testi dei primi due secoli di cultura americana, quella puritana, sembrano concordare sulla positività della tendenza escapista, non mancano, fin dal Settecento, posizioni di parziale dissenso o perlomeno ambigue. E ancora, sebbene la fuga si apra in moltissimi casi all’ampio campo ideologico di una rigene[1]razione non soltanto religiosa e spirituale, ma anche economica e politica, su cui tanto ha scritto Richard Slotkin, è pur vero che la sua messa in scena permette di articolare posizioni di dubbio che talvolta arrivano a sfiorare l’‘autodecostruzione’ 2 . Il genere statunitense in cui maggiormente compare il motivo della fuga prima della Beat Generation e della cultura hippie è senza dubbio il western3 . La ragione è palese: il grande spazio dell’Ovest apre, più di ogni altro, la possibilità di un movimento di fuga, sradicamento, nomadismo, perdita e trasformazione di identità; il fatto di muoversi verso luoghi dove la legge e la civiltà non sono ancora arrivate costituisce un terreno ideale per una cultura, nella terminologia di Hirschman, dell’‘uscita’, in cui domina quell’affermazio[1]ne di sé con cui spesso si riassume, un po’ sbrigativamente, il ‘carattere americano’ 4 . Ciò comporta, innanzitutto, la rimozione totale dei diritti degli abitanti del territorio in cui la fuga si svolge, i nativi, e la costruzione di un’ideologia del movimento verso ovest poten[1]zialmente infinito (da cui sono escluse anche le donne): prima con l’annessione di una par[1]te del territorio del Messico e con l’occupazione di tutto il Sud-Ovest e il Nord-Ovest; poi con la svolta imperialista e la lotta per la conquista delle profondità dei mari e dello spazio. E proprio quando la Frontiera, la linea irregolare che separerebbe la ‘civiltà’ dalla wil[1]derness (le terre selvagge), sarà dichiarata ufficialmente chiusa intorno al 1890, e lo storico Frederick Jackson Turner ne celebrerà con tono parzialmente nostalgico il ruolo cruciale per la creazione del ‘carattere nazionale’ americano, esploderà davvero il suo mito, tanto duraturo da manifestarsi ancora oggi nelle forme più disparate come nei racconti di ‘uscita’ ecologica dai grandi centri urbani, della ricerca del ‘sé autentico’ nel profondo Nord, di cui Into the Wild di Jon Krakauer (1996) rappresenta un esempio emblematico5 . Nonostante la sua centralità, il motivo della fuga è stato raramente tematizzato negli studi sulla letteratura e sulla cultura degli Stati Uniti. In un volume importante ma ormai datato (1972) 6 , Sam Bluefarb si concentra su un periodo abbastanza ristretto: quello che va da Adventures of Huckleberry Finn (1884) di Mark Twain a Native Son (1940) di Richard Wright. Per quanto riconosca più volte il ruolo mitopoietico costituito dal western, Bleu[1]farb evita di affrontarlo direttamente, forse a causa del pregiudizio nei confronti dei generi di massa, tipico dell’epoca in cui scrive. Linee di ricerca decisamente più produttive vengono da Love and Death in the Ame[1]rican Novel di Leslie Fiedler, un classico della critica provocatorio, paradossale e geniale, che già nel 1960 metteva in luce le marcate differenze tra il Bildungsroman europeo e il romanzo ottocentesco angloamericano7 . Secondo Fiedler la narrativa degli Stati Uniti del periodo 1780-1950 si distinguerebbe da quella europea per l’incapacità di rappresentare il rapporto amoroso fra un uomo e una donna adulti. A tale incapacità (o fobia) narrativa si contrapporrebbe un’archetipica nostalgia per un mondo infantile ossessionato dalla morte, dall’incesto e da forme di omosessualità (latente) che, in modo paradossale, avrebbe reso la letteratura americana adatta a un pubblico di bambini. La tesi, che vede un netto privilegio delle istanze antirealistiche del romanzo, viene sostenuta grazie all’analisi di opere narrative di Brockden Brown, Cooper, Poe, Hawthorne, Melville, Twain, Faulkner e di numerosi altri scrittori meno canonici in cui è evidente la straordinaria conoscenza di Fiedler della cultura di massa, cinema compreso. I personaggi maschili dei romanzi angloamericani sem[1]brano preferire il legame con altri uomini (i marinai di Melville, gli eroi della Frontiera di Cooper, i ragazzini di Twain, ecc.); ma la loro rimozione della sessualità non manca di ri[1]presentarsi sotto forma di ‘ritorno del rimosso’ attraverso proiezioni maschili di donne che non possono che essere ‘mostri di virtù’ (donne asessuate) o ‘mostri di depravazione’ (dark ladies). Nella sua operazione critica Fiedler è tra i primi a indagare sul ruolo ideologico da attribuire alla fuga avventurosa nel West, per quanto non lo faccia in modo sistematico (ma la strada era già stata aperta da D.H. Lawrence quarant’anni prima) 8 . Infatti è proprio il western la palestra ottocentesca in cui si esercita maggiormente il moti[1]vo della fuga e del suo motivo correlato, l’inseguimento. Già nella prima metà del XIX secolo, nei romanzi della serie di Leatherstocking di Cooper, fuga e inseguimento sono ampiamente tematizzati e danno vita al mito – potremmo quasi dire all’ossessione – per la mobilità che caratterizza il suo protagonista. Tale mito sarà via via riproposto nella lunga stagione dei dime novels, i romanzetti da dieci centesimi lanciati con enorme successo sul mercato statunitense all’epoca della guerra civile e di straordinaria diffusione fino a inizio Novecento quando lasce[1]ranno il posto alle riviste pulp. La martellante ripetizione di alcune formule narrative ingenue li rende oggi quasi illeggibili, ma all’epoca della loro pubblicazione costituirono un luogo di esercizio per molteplici intrecci che avrebbe in seguito alimentato tutte le varianti del western maturo e quelle del genere a esso contiguo, il detective novel di tipo hard-boiled. Adventures of Huckleberry Finn, centrale nell’analisi di Fiedler e in qualsiasi riflessione suc[1]cessiva, non è, a rigore, un romanzo western; tuttavia celebra, una volta per tutte, la fuga dalla ‘civiltà’, dalla vita nei centri urbani (anche piccoli come la fittizia St. Petersburg sul Mississip[1]pi), dalle costrizioni della vita sociale (scuola, famiglia e buone maniere) e propone altresì un modello di legame maschile esclusivo (male bonding), a tratti ambiguamente misogino: Huck non rifiuta soltanto l’autorità violenta del padre rozzo e ubriacone o quella benevola della vedova Douglas che gli fa da tutrice, ma anche l’ipotesi eterosessuale e normalizzata implicita nelle scelte del sodale Tom Sawyer innamorato di Becky, una ragazzina della sua stessa età. Huck preferisce una fuga lungo il Mississippi che lo sradichi definitivamente dai suoi disa[1]strosi legami familiari e sociali e al tempo stesso conduca alla libertà il nero Jim che scappa con lui. Meglio morire tra gli indiani (peraltro aborriti da Twain) che ritornare nella ‘sivilization’, come la chiama Huck, perché l’esperienza fatta è stata più che sufficiente per capire che va fuggita: “I been there before” (ci sono già stato) dice Huck nell’ultima riga del romanzo. Pur non presentando ambientazione, personaggi e azioni tipici del western, il romanzo di Twain conserva in modo evidente la carica di ribellione individuale che tale genere, an[1]che nelle forme più conservatrici (in cui generalmente prevale l’ideologia del self-made man, nonché certe tendenze antidemocratiche), tende a portare con sé. In questo ha certo ragione Hemingway a considerarlo il fondamento della letteratura americana, con la sua frase iperbo[1]lica “tutta la letteratura americana moderna nasce da un libro di Mark Twain intitolato Huck[1]leberry Finn” 9 . Anche ilwestern dovrà riconoscere il proprio debito nei confronti del romanzo di Twain, come pure nei confronti di altri testi cruciali di fuga dalla civiltà comeMoby-Dick di Melville (ma anche “Bartleby, the Scrivener”) oppure Walden di D.H. Thoreau. Tuttavia il motivo della fuga nel western non si limita alla semplice articolazione dell’ab[1]bandono della civiltà in nome della ricerca di un mistico ‘sé autentico’, che peraltro raramente si riesce a trovare. In varie storie controcorrente la fuga è un volano formulaico su cui si in[1]nestano significati sempre diversi. Ciò è già palese in RoughinIt (In cerca di guai, 1872) 10 , un’opera giovanile dello stesso Twain solo recentemente rivalutata dalla critica, che contiene l’esilarante resoconto di un viaggio avventuroso dall’Iowa al Nevada e alla California, con un detourche include perfino le Hawai’i, dopo una sosta istruttiva nel disprezzato Utah dei mor[1]moni. RoughinIt è un testo ancora imperfetto dal punto di vista stilistico, ma che nella sua prima parte si distingue per il lungimirante disincanto del punto di vista della sua voce nar[1]rante, assolutamente refrattaria ai facili entusiasmi alimentati dall’ideologia del Manifest De[1]stiny, che spinsero centinaia di migliaia di americani a rincorrere la fortuna nell’Ovest senza trovarla. In RoughinIt Twain passa in rassegna gli stereotipi western che si stanno afferman[1]do, producendo una serie di ‘anticorpi’ letterari e ideologici che, sfortunatamente, avrebbero impiegato molto tempo a moltiplicarsi. In questo caso il tragitto verso ovest, pur conservando l’entusiasmo di chi si lascia alle spalle la civiltà della costa orientale, nella sua frammentarietà e profonda ironia perde ogni dimensione mitopoietica, prima ancora che il mito sia giunto a completa maturazione. Gli incontri che si susseguono, le situazioni che oscillano tra l’avven[1]turoso e il comico, sembrano negare ogni possibilità rigenerativa attribuita tradizionalmente alla fuga verso occidente, che a cavallo del secolo avrebbe trovato espressione in tanti pittori di genere, in romanzieri come Owen Wister e Zane Grey e in storiografi conservatori come Theodore Roosevelt. Il periodo in cui il motivo della fuga viene maggiormente interrogato e trasformato da alcuni scrittori western è il secondo dopoguerra, proprio in concomitanza con l’affermarsi del culto della fuga nella Beat Generation e delle comunità hippie. Da allora tale rilettura è ripro[1]posta ciclicamente, quasi a dimostrare che la cultura americana possiede la capacità di reagire al tentativo di totalizzazione delle proprie ideologie. Il caso più notevole negli anni Cinquanta e Sessanta è rappresentato da Elmore Leonard, che comincia a dedicarsi al western agli inizi degli anni Cinquanta, cioè in quel periodo in cui il racconto western su rivista (“Argosy”, “Dime Western”, “Zane Grey’s Western”, “We[1]stern Story Magazine”, ecc.) si trova a competere sia con le edizioni paperback dei romanzi, sia con l’affermarsi sempre più prepotente delle serie televisive 11. Egli rivisita tutti i cliché del western classico modificandoli in modo implacabile: aumenta lo spazio occupato dalle donne e dalle minoranze etniche non mancando di introdurre personaggi afroamericani, altera il ruolo stereotipato degli indiani e dei criminali e banditi dell’Ovest, asciuga l’azione e amplia lo spazio del dialogo, propone una rappresentazione della violenza realistica ma al contempo poco spettacolare e lontana da qualsiasi idea di rigenerazione. Tra i riaggiustamenti proposti nei suoi numerosi intrecci 12 , non è mancato l’interesse per il motivo della fuga, come emerge fin dal suo primo racconto del 1951, Trails of the Apache. Leonard liquida uno dei motivi più frequenti del viaggio verso l’Ovest: il desiderio di lasciarsi alle spalle un qualche fallimento, amoroso, professionale o d’altro tipo. In questo senso egli svuota dall’interno la carica ideolo[1]gica della fuga, la trasforma in un percorso semplicemente materiale e contingente di soprav[1]vivenza: sfuggire a un antagonista. Un caso particolarmente esplicito è costituito da una delle sue ultime opere western, Val[1]dez is Coming (Arriva Valdez, 1970), poi portato sullo schermo da Edwin Sherin (1971, con Burt Lancaster nel ruolo del protagonista). Valdez è un vice-sceriffo messicano, che dopo avere assistito a un sopruso a opera di Frank Tunner, un ‘barone del bestiame’, tenta la via del risarcimento pacifico con formidabile pazienza, ma viene respinto ripetutamente con vio[1]lenza sempre più brutale, fino a essere legato a una croce che lo costringe a muoversi quasi strisciando, tra dolori indicibili. Liberato dal fardello grazie a un incontro fortunoso, Valdez rapisce la compagna di Tanner e intraprende una fuga dal successo improbabile. Ma la sua sagacia tattica gli permette, in meno di cento pagine, di eliminare dodici cowboy assoldati dal malvagio allevatore per dargli la caccia. Inseguito da costui fino alla cima di una montagna, quando ormai sembra spacciato, Valdez si trova improvvisamente nella condizione di sfidare ad armi pari il suo antagonista e di ‘fare giustizia’ una volta per tutte, fornendo, con un duel[1]lo risolutivo, un significato pieno a una fuga avventurosa durata quasi duecento pagine. Ma soddisfatto dal risultato ottenuto si allontana risparmiando l’avversario ormai abbandonato dai suoi stessi uomini e lasciando sbalordito il lettore, come già aveva fatto in tanti racconti precedenti. Ovviamente quando Leonard scrive Valdez is Coming i tempi sono maturi per una rilet[1]tura dissacrante della fuga eroica e rigenerativa. Molti dei cliché del western sono stati fatti esplodere dalla violenza del cinema di Sergio Leone e di Sam Peckinpah e dalla loro ironia pervasiva 13 . La scelta di Leonard è però narrativamente molto meno spettacolare; anzi, potremmo dire, consiste proprio nella ‘de-spettacolarizzazione’ di uno dei motivi portanti del western, la fuga, al termine del quale si colloca tradizionalmente il duello14 . Un altro romanzo che ha contribuito a scardinare l’alone romantico che circondava la fuga del western classico è costituito da True Grit (Il grinta, 1968) 15 , opera di grande notorietà di Charles Portis, poi film di enorme successo di Henry Hathaway (1969), recentemente ripro[1]posto con grande bravura dai fratelli Coen (2011). In questo caso la novità straordinaria per l’epoca è costituita dal fatto che la voce narrante del romanzo è quella di una ragazza di quat[1]trodici anni, Mattie Ross, co-protagonista dell’intreccio, caso decisamente eccentrico nella storia del western, una sorta di “Huckleberry Finn al femminile” come ha opportunamente scritto un critico 16 . Mattie ha assoldato Rooster Cogburn – soprannominato ‘il Grinta’ (the Grit) per il suo carattere deciso – un non più giovane sceriffo federale, rozzo, ubriacone e pri[1]vo di scrupoli, per trovare l’assassino del padre. Partecipa alla caccia anche un giovaneranger del Texas, certo Laboeuf. Il trio si addentra nel territorio indiano lungo un percorso dove i fat[1]ti drammatici si alternano alle dinamiche comiche interne al gruppetto di inseguitori, dovute in buona parte al carattere pragmatico e ‘poco femminile’ di Mattie, dalla spacconeria e da un certo pregiudizio anti-texano del Grinta. Quando, al termine di un inseguimento estenuante si arriverà allo scontro frontale, anche in questo caso il duello, irrealistico al punto da sfiorare la comicità, verrà collocato in un punto del racconto che non gli permetterà di acquisire il significato rigenerativo atteso e l’inseguimento stesso assumerà un carattere secondario. Quando True Grit viene pubblicato siamo ormai nel 1968, alla fine di un decennio di sconvolgimenti culturali che stanno trasformando gli Stati Uniti. Mentre narratori fedeli ai cliché del western come Louis L’Amour procedono imperterriti sulla via della ripetizione acri[1]tica, per i narratori più accorti, come Leonard e Portis, quella via non ha più alcun interesse. Forse inconsapevolmente partecipi di alcune spinte ideologiche e stilistiche del postmoder[1]no, conquistano il pubblico anche servendosi della parodia: Portis giocando con il western e la sua lunga tradizione, Leonard trasportando i suoi cowboy nelle giungle urbane di Detroit e di Miami, come poi ha continuato a fare fino alla morte. La strategia revisionista di scrittori come Leonard e Portis aveva preparato il terreno per i grandi sconvolgimenti del western letterario e cinematografico, predisponendo il pubblico a una nuova sensibilità ideologica ed estetica. La rivisitazione dei cliché, la ricollocazione del femminile e delle diverse etnie del West rimosse dalla storia ufficiale e da quella mitica, la rimodulazione del concetto di violenza e di uno dei suoi principali ‘antagonisti’, la vituperata domesticità, aprono la via ai grandi scrittori western nostri contemporanei e indicano la via per una lettura demistificata del mito della fuga17 . Dopo Leonard e Portis gli esempi di contestazione della versione mitica ed edificante della fuga si moltiplicano toccando vertici di sovversione in testi come The Missouri Breaks, la sceneggiatura di Thomas McGuane per il film di Arthur Penn del 1976, Lonesome Dove (Un volo di colombe, 1985), il capolavoro di Larry McMurtry vincitore del premio Pulitzer, e Blood Meridian (Meridiano di sangue, 1985) di Cormac McCarthy, il romanzo di ‘insegui[1]mento e fuga’ più violento e più privo di totalizzazione ideologica della letteratura western statunitense 18 . Per venire fino al recente No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi, 2005), ancora di Cormac McCarthy, in cui western e noir si mescolano in una fuga priva di significato apparente e dall’esito negativo, quasi metafisico, in un mondo governato da una violenza inaudita; violenza senza senso, come ribadito nella sua recentissima sceneggiatura per il film The Counselor (Il procuratore, 2013) 19 . La critica più radicale al mito della fuga è sempre stata, in realtà, nel rifiuto di intrapren[1]derla. L’esempio più famoso della letteratura statunitense è costituito dal brevissimo racconto (non western) di Hemingway The Killers, in cui Ole Anderson, ‘lo svedese’, decide di rima[1]nere sdraiato nel letto ad attendere imperturbabile i sicari che stanno arrivando per uccider[1]lo. Il carattere sconcertante della storia è che il narratore extradiegetico non fornisce alcuna spiegazione di questo atto che in poche pagine sembra rifiutare tutta l’ideologia utopistica dell’American Dream. Non è casuale che entrambi gli ottimi adattamenti cinematografici omonimi, quello di Robert Siodmak del 1954 e quello di Don Siegel del 1964, si sforzino, per due ore, di trovare delle motivazioni per questa scelta ‘mostruosa’. Anche il western non ha esitato a seguire la via indicata da Hemingway e riletta da Siod[1]mak e Siegel: innumerevoli sono i pistoleri che a un certo punto interrompono improvvisa[1]mente la fuga quasi fossero eroi esistenzialisti 20 . Il caso più noto rimane quello di Billy the Kid che, sebbene disarmato, finge di estrarre una pistola, ponendo così fine alla sua vita di fuggitivo e alla narrazione 21 .

 

Note

-1 A.O. Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States, Harvard University Press, Cambridge, MA 1970, p. 106; trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982. Per alcuni suggerimenti ringrazio Bruno Cartosio, Erminio Corti, Cinzia Scarpino e Giulio Segato.

-2 Sul significato (violento) del termine ‘rigenerazione’ si veda soprattutto R. Slotkin, Regeneration through Vio[1]lence: The Mythology of the American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press, Middletown, CT 1973, a cui hanno fatto seguito The Fatal Environment: The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization, 1800-1890, Athanaeum, New York 1985 e Gunfighter Nation: The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, Athanaeum, New York 1992.

-3 Innumerevoli sono i saggi critici in cui la fuga è considerata uno dei tratti distintivi della Beat Generation. Tra i testi recenti che affrontano l’argomento si veda B. Cartosio, I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 2012, soprattutto le pp. 211-254.

-4 Sull’insediamento in terre senza legge mi permetto di rinviare al mio Demitizzare il western: le tre stagioni di Deadwood (2004-2006), “Ácoma”, nuova serie, 3, 2012, pp. 115-128.

-5 Si veda F.J. Turner, The Significance of the Frontier in American History (1893), in Id., The Frontier in Ameri[1]can History, Henry Holt, New York 1920; trad. it. La frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 1959, pp. 31-69.

-6 S. Bluefarb, The Escape Motif in the American Novel: Mark Twain to Richard Wright, Ohio State University Press, Columbus, OH 1972.

-7 Si veda L. Fiedler, Love and Death in the American Novel, Stein & Day, New York 1966; trad. it. V. Poggi, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1960 e 1983.

-8 Si veda D.H. Lawrence, Studies in Classic American Literature (1923), E. Greenspan – L. Vasey – J. Worthen ed., Cambridge University Press, Cambridge 2002; trad. it. A. Bertolucci, Classici americani, Bompiani, Mi[1]lano 1948.

-9 La frase compare nel racconto The Green Hills of Africa (Verdi colline d’Africa, 1935).

-10 Segnalo la bellissima traduzione di Giulia Arborio Mella (Mark Twain, In cerca di guai, Adelphi, Milano 1993).

-11 Su Leonard rimando al mio Dal western classico al post-western: lo strano caso di Elmore Leonard, in L’inven[1]zione del west(ern). Fortuna di un genere nella cultura del Novecento, S. Rosso ed., ombre corte, Verona 2010, pp. 82-89, poi ripreso con modifiche in S. Rosso, Rapsodie della Frontiera, Sulla narrativa western contemporanea, ECIG, Genova 2012, pp. 39-55. Tra le serie televisive western principali si vedano Gunsmoke (1955-1975), Bonanza (1959-1973), The Rifleman (1958-1963), Have Gun – Will Travel (1957-1963), Maverick (1957- 1962), Rawhide (1959-1966), The Virginian (1962-1971), The Big Valley (1965-1969) e Wagon Train (1957- 1965).

-12 Leonard ha scritto una trentina di racconti e otto romanzi western in circa vent’anni, prima di passare al più redditizio noir urbano a cui è stato dedito, con grande successo planetario, fino alla morte recente. In italiano i racconti western di Leonard sono apparsi in un volume della collana Stile libero Noir di Einaudi: E. Leonard, Tutti i racconti western, Einaudi, Torino 2008, ottimamente tradotti da Luca Conti; ed. orig. The Complete Western Stories, Harper, New York 2004.

-13 Si pensi alla scena finale di Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964) in cui l’eroe riesce a sconfiggere Ramòn Rojo, l’antagonista crudele, grazie a un fantasioso giubbotto antiproiettile. Ironia, parodia e comico sono comparsi più volte nella storia del western, dai Fratelli Marx agli Stooges, da Laurel e Hardy a Jerry Lewis, fino a film di animazione come lo straordinario West and Soda di Bruno Bozzetto (1965). Toni ironici e comici erano già presenti in vari film classici, come ad esempio in Rio Bravo (Un dollaro d’onore, 1959) di Howard Hawks. Pochi ricordano che uno dei maggiori successi commerciali della storia del western è stato il parodico Blazing Saddles di Mel Brooks (Mezzogiorno e mezzo di fuoco, 1974).

-14 Sul duello mi permetto di rinviare ancora al mio Rapsodie della Frontiera, pp. 95-110.

-15 C. Portis, True Grit, Simon & Schuster, New York 1968; trad. it. Il grinta, Giano, Varese 2011.

-16 B.J. Frye, Charles Portis, in Updating the Literary West, Thomas J. Lyon ed., Texas Christian University Press, Forth Worth, TX 1997, p. 497.

-17 Alcune avvisaglie di questo cambiamento si possono già cogliere in film come The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio) di Sam Peckinpah e in Butch Cassidy and the Sundance Kid (Butch Cassidy), entrambi del 1969. Per quel che riguarda la tesi che vede il western come tentativo (pienamente riuscito) di sconfiggere il culto femminile della domesticità si veda Jane P. Tompkins, West of Everything: The Inner Life of Westerns, Oxford University Press, New York 1992.

-18 Su questi si veda ancora il mio Rapsodie della frontiera, soprattutto il capitolo Violenza Post-Vietnam, pp. 73-94.

-19 Il film è stato realizzato da Ridley Scott.

-20 Sotto tale aspetto si potrebbe stabilire un legame tra questo western decostruito e quel tipo di polar francese le cui migliori espressioni sono dovute a Patrick Manchette per il romanzo e Jean-Pierre Melville per il cinema e di cui il regista Jules Dassin è stato un ottimo progenitore.

-21 Si veda in particolare il film di Arthur Penn, The Left-Handed Gun (Furia selvaggia, 1958)