Omar Wisyam

la Rosa, profonda fino al vuoto

Un pomeriggio che non ricordo bene, forse in una sala d’attesa azzurra, mi chiedevo perché la rosa di Borges fosse “profonda”. Questo fiore così letterato nasconde ancora dei segreti, qualcosa di mai detto prima? C’è ancora qualcosa di nuovo da dire? In situazioni del genere, non mi rimane che chiudere gli occhi e ritornare “alle lettere e alle rose “ e alla “lugubre rosa della tenebra”, come scrive il grande cieco argentino (per un’inveterata abitudine, a dire il vero, per prima mi è venuta in mente la rosa profonda della Juventus e di altri squadre europee). Ach, cioè cazzo, “come dobbiamo schedarla la piccola rosa”? Ma no, di questo passo si va definitivamente fuori strada… Torniamo al Nostro, il più “ameno”dei poeti, come diceva un altro sudamericano famoso, non ricordo se Cortazar o Bolano. Eccolo il vate: la cecità l’oblio e la morte sono le presenze più assidue nella “Rosa profonda”. La prima parola della prima poesia della raccolta è “calavera”, teschio. Il poeta scrive “Io sono il teschio… lo scheletro”. Dice, colui che conosce la vanità di tutto, di essere invidioso dei già morti. Due delle poesie centrali si intitolano “Il cieco” e “Un cieco” – “Non so qual è la faccia che mi guarda / quando guardo la faccia dello specchio”. La rosa non è un talismano, ma lo sono invece i versi di Virgilio e di Frost, l’Edda, l’opera completa di Schopenhauer ecc. Poi ci sono i sogni, gli specchi, il doppio, i labirinti, i giardini, la polvere ecc. Nella poesia “Efialte” (il traditore degli Spartani alle Termopili), il poeta evoca un sogno in cui palpita “l’oscena meraviglia”, quella del tradimento, che teme essere intimo. L’anima viene definita “un’insensata rosa” ed in un’altra lirica egli dice di non essere lui stesso che un “sogno fuggitivo”. Risuonano ovviamente i motivi del romanticismo inglese e tedesco come d’altra parte le reminiscenze del poema dantesco nelle parole del grande argentino (I “Nove saggi danteschi”, pubblicati postumi, suggeriscono indubbiamente una certa scontentezza dell’autore, che preferisce trattare argomenti diversi ma “Il Simurg e l’aquila” affronta un tema rilevante come si vedrà subito). Mi sorge il sospetto che un po’ insensata deve essere davvero la straripante simbologia della rosa, ingombrata com’è da molteplici e spesso contrastanti significati. Ma ora torno alla “profunda” rosa. In “The unending rose”, l’ultimo componimento del libro, si trova questa dichiarazione: “Sono cieco e ignorante ma intuisco / Che sono molte le strade. Ogni cosa / è infinite cose. Sei musica, / Firmamenti, palazzi, fiumi, angeli, / Rosa profonda, illimitata, intima, / che Il Signore indicherà ai miei occhi morti”. Il personaggio che muto interroga (“con tacita parola”) la rosa è Attar di Nishapur, mistico sufi e poeta persiano che morì nel 1221 durante l’invasione mongola. È celebrato come suo capolavoro “Il Verbo degli uccelli”. In quel poema allegorico l’upupa conduce tutti gli uccelli alla ricerca di Simurg il loro re, la cui reggia, oltre le montagne, si trova ai confini del mondo. Borges nomina Attar anche nella burla letteraria intitolatosi “Accostamento ad Almotasim”. La rosa (vertiginosa, sterminata e interminabile) di Attar e dunque di Borges non sembra che un pretesto fiorito, cioè un segno di Dio, illimitato e intimo insieme, profondo quanto lo sgomento di fronte al mistero dell’inconoscibile.

Quella sera, quando tornai a casa, cercai il libro di Borges e rilessi il prologo, dimenticato da tempo. Poi presi in mano “Fervore di Buenos Aires” e trovai “La rosa”, dove “la rosa irraggiungibile” è “la rosa dei persiani e dell’Ariosto” (la rosa di Ariosto non è priva di ironia laddove egli verseggia: “la verginella è simile alla rosa”, mentre quella di Tasso spasima: “cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando”). Ecco da quali profondi ricordi personali e letterari emerge la profonda rosa. Fiorendo da cinquanta anni (a conferma del fatto che ciò che si pensa a vent’anni lo si pensa ancora a settanta).

Ritorno al Prologo in cui il poeta precisa il metodo di composizione una volta che gli si delineano l’inizio e la fine del testo. Ciò che si dispiega tra gli estremi spesso si esplicita lentamente. E dice, pretendendo di essere creduto, di non volerlo influenzare con le sue opinioni. “Il concetto di arte impegnata è una ingenuità, perché nessuno può veramente sapere quello che sta facendo“. Tutto il significato poggia sull’avverbio “veramente”. Inoltre si appoggia a Kipling per sostenere, con l’autorità dello scrittore inglese (disdegnando Freud e Breton), che si può concepire una favola “ma non penetrarne la morale”. Chissà se il vate di Buenos Aires ha tenuto fede ai suoi propositi? I titoli delle prime due poesie della “Rosa profonda” suggeriscono una non vaga presunzione trascorrendo da “Io” a “Cosmogonia”. La rosa che è anche “i firmamenti”, gli universi (“in forma di candida rosa” si presenta il Paradiso secondo Dante), come si è visto prima, non partecipa al mito dell’origine del tutto, perché la poesia parla di ciò che è anteriore al suo apparire. “Ne’ tenebra ne’ caos. La tenebra / Richiede occhi che vedono, come il suono / E il silenzio richiedono l’udito, / E lo specchio, la forma che lo popola. / Ne’ lo spazio ne’ il tempo. Neppure / Una divinità che premedita il silenzio anteriore / Alla prima notte del tempo, che sarà infinita...”.

Il vuoto quantistico dei fisici contemporanei, oppure la schiuma dei quanti, nominando il titolo di una raccolta poetica del tedesco Durs Grunbein. Però a Lewis Carroll sarebbero piaciute le bizzarrie dei quanti e certamente una rosa quantistica sarebbe sbocciata nella sua Wonderland.