CarloRomano

Rolando Mignani, 1937-2006

Gli anni si son detti “di piombo” e sembra non esserci stato nulla di quanto vi è accaduto che fosse men che terribile. In quegli anni, per così dire, tormentati, un giovane che a Genova avesse voluto entrare in contatto col mondo dell’arte, magari soltanto per sottrarsi alle sirene di più sconvenienti intruppamenti, senza tuttavia dover rinunciare all’irrequietezza propria dell’età, specialmente se attratto da personalità irregolari, trovava in Rolando Mignani il mentore necessario. Anch’io devo esser stato responsabile di qualcuno di questi incontri e oggi che Mignani se n’è andato in qualche sparuto cranio insieme alla sua ben riconoscibile figura, pochissimo variata negli anni, apparirà magari anche la mia d’allora, spero con la strafottenza che mi piace ricordare di aver avuto.

Sì, è così, Rolando Mignani è morto. Era nato a Genova nel 1937. Il suo cuore, malato da tempo in tutti i sensi, non ha più retto la vita, ufficialmente l’altrieri.

Entrare in contatto con lui significava avvicinare un’idea abnorme dell’arte. In larga misura vi si era consacrato, pur disponendo di svariati vaccini per ridicolizzare la sua stessa devozione. Con i Vitone, i Carrega, gli Oberto e diversi altri, aveva partecipato da protagonista alla rigogliosa stagione genovese della “Poesia Visiva” e si può ragionevolmente affermare che sia stato uno dei più interessanti artisti genovesi dopo il 1945. Svariate sue opere sono ben accasate in importanti collezioni nazionali e internazionali, ma almeno altrettante - per la delicatezza dei supporti e dei materiali, ma anche per indifferenza, sua innanzitutto – immagino siano andate irrimediabilmente perse.

Rispetto ai suoi “compagni di corrente” - salvo forse Carrega, a parte le differenti impostazioni – Mignani era preso anima e corpo da una foga teoretica che non ammetteva obiezioni. Il suo cruccio era di poter arrivare ai nodi segreti del linguaggio. Con lui condividevo giusto un certo interesse nei confronti delle correnti “segrete” e “occulte” del pensiero, ma laddove per me si trattava soltanto di un interesse limitato alla storia delle idee, per lui era un’idea vivente che coniugava alle proprie conoscenze epistemologiche. Ad ascoltare la “spiegazione” che dava di ogni sua opera si rimaneva affascinati. Ogni parola od oggetto che vi compariva aveva un significato più profondo, era la parte di un discorso che alla fine egli rivelava in una logica troppo ferrea per non lasciare anche perplessi. Ma Mignani, fra l’altro schermendosi, aveva la straordinaria capacità di “elevare” (a vette tortuose per chiunque) ogni discorso. Facile capire dunque come gli riuscisse di corrompere i giovani che negli anni settanta presero ad avvicinarlo, seppure – in ogni caso irrimediabilmente segnati – prendessero presto le distanze dalle sue teorizzazioni più folli.

Uno sforzo paradossale lo aveva accompagnato per diversi anni. Si era messo in testa di decifrare il senso reale (dunque “occulto”) delle poesie di E.E. Cummings, già di per sé tanto ermetiche che la decifrazione del loro significato nascosto era effettivamente propiziata dallo stesso autore. Ma per uno che non padroneggiava sufficientemente la lingua inglese-americana era un’impresa ciclopica (fui io che gli feci conoscere un amico buon conoscitore della lingua che l’aiutò). Ricordo che i risultati di questo incredibile tentativo intellettuale si erano concretizzati in enormi fogli zeppi di rimandi (freccette) fra le diverse righe. Non so poi quanto sia andato avanti, né che fine abbiano fatto quei fogli. Da molto non l’incontravo, ancorché qualche tempo fa (ma sono anni!) mi avesse chiesto di scrivergli il testo di presentazione a una mostra, cosa che feci di buon grado.

Era tanto convinto di quel che faceva quanto era indifeso. Abitava nel centro storico genovese ma gli piaceva ricordare la giovinezza trascorsa a Bolzaneto. Era anche un grande appassionato di ciclismo e da ragazzo aveva persino corso in una categoria appropriata.

“Il secolo XIX”, 4 agosto 2006