Jean
Montalbano
Wyatt par lui-même
Che il legame tra Robert Wyatt e la Francia (fin dalle frequenti visite con i Soft Machine) sia stato sempre stretto è confermato dall'attenzione con cui stampa e radio continuano a seguirne le vicende da solista. D'altra parte si è visto assegnare l'Ordre de la Grande Gidouille del Collège de Pataphysique (per ragioni che forse ancora gli sfuggono) e da quel 1967 in cui fu coinvolto nell'allestimento del picassiano Désir attrapé par la queue il suo universo linguistico deve più a Jarry che a Burroughs, come dire, più all'alcool che alla droga. Ultimamente, dopo l'antologia, per le edizioni Aencrages and Co, di 80 testi di canzoni illustrati (e con l'omaggio di P. Comelade) le “ Éditions des Accords “ hanno stampato una silloge delle interviste concesse al decano P. Thieyre corredata da foto del musicista nell'ambiente domestico e intimo che oggi più gli è congeniale. Ne è risultata una sequenza di pagine in cui si apprezza lo spirito divagante del musicista sciolto dagli impegni promozionali per i quali, abbandonate le difficoltose trasferte concertistiche, solo è spinto ad abbandonare il buen retiro della provincia inglese. Nessuna rivelazione sconvolgente (d'altra parte molto era già stato detto da M. King nel suo testo degli anni novanta); piuttosto la volontà di riaffermare una normalità ed un anonimato difficili da raggiungere e mantenere, a dispetto dei fans, almeno quanto le luci di un riflettore. Il che gli fa dire di sentirsi talora ”come quei bluesmen del Sud scoperti dagli universitari”. Difficile allontanare il profumo pervasivo di nostalgia e malinconia, almeno quanto trattenere le ottave che se ne vanno con gli anni.
Nato a Bristol nel 1945, dopo un'infanzia londinese, Wyatt trasloca con la famiglia a Canterbury, città con cui non ha nessun legame sentimentale a dispetto della “scuola di progressive rock” che da quella sede arcivescovile prese nome e cui diedero lustro varie bands a lui ricollegabili. Di un'infanzia “razionata” e dai risultati scolastici poco lusinghieri ricorda soprattutto gli ascolti di jazz, Christmas Songs o Doris Day e qualche pezzo di classica (il Ravel di “L'Enfant et les Sortilèges”, alcuni concerti di Klemperer e Karajan)) non avendo da raccontare avvenimenti straordinari: solo il tempo passato a far niente, ad osservare le ragazze ed sentire la radio.
Si sentiva comunque più vicino ad una musica per piccoli gruppi orchestrali e che non avesse del tutto reciso i nessi col folklore e la tradizione anonima del canto popolare (e qui cita Stravinsky). Ma per lui come per tutta quella generazione, con la black music e lo skiffle, il jazz è stato “ la prima scoperta e la principale fonte di educazione musicale” (il bop, Ellington, Tatum; lo stesso M. Ratledge avrebbe dichiarato di non saper cosa sarebbe successo senza l'arrivo di D. Allen con duecento dischi di jazz...). En passant, Wyatt ricorda un mancato incontro con Miles Davis, al solito scontroso, a New York (1971) un sera in cui i Soft Machine vi si esibivano al Beacon Theatre.
Alle feste, poco dotato nel ballo, intuisce che fare il batterista in un gruppo beat o rock è una buona scorciatoia per far colpo sulle ragazze (la chitarra la scoprirà con trent'anni di ritardo); con i fratelli Hopper eseguiva allora covers dei Beatles e dei Kinks fino all'arrivo di K. Ayers con un proprio repertorio; con l'ulteriore contributo di Allen e Ratledge saranno poi sviscerate le suggestioni di Coltrane, Varese o Riley ma, per ciò che lo riguarda, starà sempre attento a non prendersi troppo sul serio, vivendo alla giornata senza diario di bordo “solo poche annotazioni, come indicare il posto dove bisognava suonare”, guadagnando quel tanto che bastasse per tirare avanti. Alla studiata e programmata artisticità di certi titoli faceva da contrappeso una persistente, “idiota” svagatezza, come l'impegno ideologico di certo jazz (Roach, Mingus) era bilanciato dall'arroganza teatrale dell' attitude rock. Ancora nel 1967 (anno per molti aspetti più decisivo del seguente) prima di ritrovarsi nell'happening di J. J. Lebel concluso con lo sgozzamento di galline sul corpo di modelle nude, si sente sballottato tra una “notte psichedelica” ed una festa della birra.
Ogni membro del gruppo scriveva la sua parte o il proprio pezzo e Wyatt, arroccato nel suo non voler sapere, opporrà un rifiuto alle poche partiture sottopostegli dai colleghi più “coltivati” (il tastierista principalmente) affinché non gli si dettasse ciò che doveva suonare (tipo quegli strani tempi che tanto piacevano pure al sassofonista E. Dean).
Moon in June per il terzo album sarà praticamente registrata in solo, confermandone la separatezza e diversità fino a trasformare ciò che era nato come ripiego (sostituire Ayers al canto) in possibilità di crescita e scoperta, integrando l'attività di batterista con la vocazione, o quantomeno il mestiere, di cantante-compositore.
Il Wyatt oggi conosciuto, il dissenziente che (come una caricatura leftist degli anacronistici generali in pensione che scrivono lettere infuriate ai giornali e punzecchiano la BBC) licenzia di tanto in tanto i suoi quadretti sonori di “folk tecnicamente modesto” per un pubblico distante dalle agitazioni dell'UFO londinese, origina dal noto incidente del 1973, successivo all'esclusione dai Soft Machine. “ Avevo creato la band, riunito le persone e, democraticamente, hanno tutte votato per la mia esclusione. Mi sono sentito una merda ! Se per loro non avessi avuto del rispetto, mi sarei proprio arrabbiato, ma dal momento che li rispettavo, mi sono detto che dovevano aver ragione “. Col salto dalla finestra volle forse sottrarsi a quell'umiliazione, riconosce oggi, quasi riconciliato, calcando sulla nota positiva e ringraziando gli ex compagni per avergli permesso di trovare una propria autonoma strada e, con essa, la voce più personale.
L'espulsione dal gruppo che aveva fondato, si sarebbe rivelata col tempo un decisivo punto di svolta e di crisi spingendo l'ormai ex-batterista ad abbracciare, scegliendola consapevolmente, un'attività fin lì svolta come sbadatamente. Senza quella prima traumatica defenestrazione non avremmo avuto il vagabondare melodioso che transitando per O Caroline e Signed Curtain naufragherà nelle ebbre vocalizzazioni di Rock bottom e alla cui luce impallidiscono i perfetti ed algidi esiti (nonostante le rare accensioni free) dei Softies post 1971.
A quella manciata d'anni rivà pure l'ascoltatore in cerca di consolazione ed inappagato da quei piccoli ritornelli per adulti, vagamente alter-mondialisti e super-composti, che Wyatt porta in dono a questo scorcio di secolo. Passati i giorni dell'insensatezza felicemente vissuta ed esibita nelle alterazioni vocali di End of an ear è l'ora di un circospetto e corretto discorso “politico”. Ma quanta più politica c'era nella musica del ragazzo ignorante che, arrivato in Europa continentale soltanto per suonare, scopriva con stupore che nelle strade i poliziotti cattivi manganellavano gli studenti.