Caterina
Ricciardi
le carte provenzali di Pound
“Ezra Pound non è un autore, è una letteratura”:
così, riformulando la stereotipa convinzione che il poeta americano più avventuroso
del Novecento si presenti come un’enciclopedia in versi ‘cantati’, Roberta
Capelli esordisce nella sua indagine – la prima sostanziosa in Italia – su
Pound e
Nel caso della Provenza – un campo così
specialistico – questo era necessario. La storia è lunga. Dopo lo Hamilton
College, Pound doveva addottorarsi in Studi Romanzi all’Università di
Pennsylvania, ed è a quello scopo che nel 1905 parte per l’Europa, puntando
sulle biblioteche di Madrid, Parigi, Londra, e tornando a casa col profumo di
Provenza e il bagaglio pieno. Il PhD non lo conseguirà mai, neanche quando,
negli anni ’30, invierà ai suoi maestri la sua contestatissima, eppur geniale
(oggi lo si vede meglio), edizione di Cavalcanti “rappezzata fra le rovine”
(1932). No, l’America non lo riconosce: troppo ‘pasticcione’.
Con occhio selettivo e pesato, come sa fare un
filologo, Carte provenzali si addentra
in questo tragitto (nessun “pasticcione”), destinato a rivoluzionare la neonata e sbandata poesia
del Novecento. I termini generali ormai li conosciamo e li abbiamo assimilati
con altri strumenti (i nostri). Ma a padroneggiarli non bastano lo studio
attento dello Spirito del Romanzo
(1910), gli approfondimenti occasionali, o la bibliografia ad hoc. È bene
infatti ripercorrere alle radici i modi/nodi di appropriazione via via
conquistati dal re-inventore della cultura del trobar clus. Sappiamo che le albe,
le vidas e le personae, le maschere sub
specie translationis, della prima fase poundiana, volte a ridare vita e
nuova eco a Arnaut Daniel, Bertran de Born, Bernart de Ventadorn, Peire
Cardenal, ad altri e al raro Faidit (trovato, con Arnaut, all’Ambrosiana in
traduzione musicale, grazie al bibliotecario e futuro papa Pio XI: Achille
Ratti), non vengono solo da Robert Browning o dalle provvisorie, lacunose
edizioni di allora, o le letture misteriche, non “nozionistiche” (quindi, da
Pound benamate), di Joséphin Péladan, rifinite con un pizzico di Remy de
Gourmont, ma dai gangli tecnici, musicali – e dallo “spirito” – della poetica
occitanica, più aperti a chi della materia ne sa di più: alle radici. Ecco
dunque la necessità di parlare nell’armonia del “contrappunto”.
E, parlando d’‘amore’, com’era d’uso in Provenza,
non si può non apprezzare, per esempio, il ragionamento che Capelli ci propone,
partendo dalla canzone Dompna, puois,
la “donna composita” (“patchwork”) da cui ci si congeda, di Bertran de Born,
per giungere alla domna soisseubuda
(la femminilità angelicata, la “donna ideale”), il “fantasma” che, con l’altra
imperiosa, si trascinerà nei Cantos
attraverso ipostasi incontrate nella Storia e nella vita, tutte figlie di madri
mitologiche. O, parlando di guerra, com’era d’uso in Provenza, fa piacere
apprendere che si chiama plazer
“l’elogio di ciò che piace e quindi, nello specifico di Bertran de Born, della
violenza dello scontro guerresco”. E nella straordinaria Sestina Altaforte (1909) Pound lascia che Bertran canti il suo plazer (“Maledica per sempre Iddio
quelli che gridano ‘Pace’”), ma poi, rispedisce quel Bertran “all’Inferno”,
dove l’aveva trovato in Dante (canto XXVIII), perché, secondo la razo (la prosa esplicativa) ad Altaforte, “seminatore di discordie”.
Con la ricerca di nuovi documenti, la bibliografia
precedente e l’arte giusta, grande aiuto a questo volume viene dal corposo Ezra Pound to his Parents (1895-1929),
le lettere ai genitori, apparse nel 2010. Valeva la pena aspettare la conclusione
di un lavoro così lungo e complesso (‘filologico’), perché ora esso apre
l’accesso a infiniti percorsi di orientamento e di scoperta: fonti,
letture, ‘ritrovamenti’ casuali, date e
spostamenti spaziali del primo Pound vagabondo, il percorso provenzale incluso.
Le lettere ai genitori sono – con il Companion
ai Cantos di J.F. Terrell – uno
strumento ormai inevitabile, per cominciare, come fa Capelli in Appendice (per
esempio: sulle edizioni usate da Pound), a ripercorre – e ad assestare – le
strade. E a questo fine basterà ricordare gli echi del “refrain” della lauzeta (l’allodola) di Bernart de
Ventadorn (Bertran e Bernart: magari un “indice dei nomi” qui
non avrebbe disturbato), scoperta allo Hamilton College nel 1905, e ritrovata
nei Canti Pisani a rispondere – in
modo struggente – cantando “in contrappunto”.
(“il manifesto-alias”, 6 ottobre 2013)