Caterina Ricciardi
Sylvia Plath
e il demone della poesia
Giugno 1960, un
cocktail party da Faber & Faber
in onore di W.H. Auden. Ed
ecco lì Ted, nel salone della celebre casa editrice in Russell Square, nel cuore di Bloomsbury,
“al suo fianco T.S. Eliot, W.H.
Auden, Louis MacNeice da un
lato e dall’altro Stephen Spender” in posa per una foto ufficiale. È il Gotha.
Sylvia Plath non può che essere “immensamente fiera”,
sono sue parole: Ted, “sembrava a casa sua in mezzo ai grandi”. Lei, la moglie,
guarda da lontano il successo tanto atteso da anni per se stessa e per lui, Ted
Hughes, da anni soprattutto per se stessa. La madre,
Aurelia, la confidente e agente letteraria, segue tutto dall’altra parte
dell’oceano, naturalmente tutto quello che Sylvia vuole che sappia, o tutto
quello che lei, Aurelia, decise poi che noi sapessimo. Settecento lettere “alla
madre” nell’arco di tredici anni, dall’entrata di Sylvia allo Smith College nel
1950 al febbraio del 1963. Solo due terzi di questo corpus, selezionato evidentemente
con cura, Aurelia Schober Plath
rese pubblici nel 1975, in un momento in cui il mito della figlia trionfava
nella coazione del lutto. La traduzione di una selezione per Guanda fu quasi
tempestiva nel 1979 (nel 1976 una breve scelta di poesie era uscita presso
Mondadori a cura di Giovanni Giudici). Oggi siamo invitati a rileggere questo
epistolario con occhio forse diverso, più maturo e più consapevole di altri
materiali (i diari, le Lettere di
compleanno di Hughes), grazie alla ristampa che ci viene riproposta con un
nuovo titolo Quanto lontani siamo giunti.
Lettere alla madre (a cura di Marta Fabiani, Biblioteca della Fenice,
Guanda 2015). Il volume si accompagna a La
grande estate. Sylvia Plath a New York, 1953 di
Elizabeth Winder (traduzione di Elisa Banfi, Guanda
2015), una cronaca, con testimonianze delle ultime sopravvissute, dei venti
giorni di stage giornalistico che Sylvia, allora allieva del prestigioso Smith
College, svolse, con altre diciotto ragazze in seguito a una severa selezione
nazionale, presso la raffinata rivista “Mademoiselle”,
che presentava un’immagine di eleganza
mista a cultura alla giovane donna americana di allora, proiettata, più che
altro, verso un’etica di consumismo e conformismo: siamo nei fiduciosi,
“silenziosi” e subdoli anni ’50. Winder si propone di
“smontare il cliché della Plath artista maledetta” e
mostrare come ella fosse invece prodotto autentico “dell’America della metà del
secolo”.
L’accostamento
dei due volumi (grazie alle parzialità del primo) funziona. Nell’orgoglio
provato per l’estate a New York, fra sfilate di moda, lavoro di redazione e
mondanità, c’è una parvenza della vita da vincente che Sylvia ambiva a
costruire per sé, puntando sulla molla della competizione, del primato, il
successo, il denaro, e la conquista di quella self-reliance che R.W. Emerson aveva augurato nel 1841 al giovane americano
nell’attuazione sia di una pratica di vita che – per il genio creativo –
dell’espressione poetica: una spinta verso un’incondizionata fiducia in se
stessi che col tempo avrebbe finito col condurre molti poeti (Melville, Hart Crane, Delmore
Schwartz, Anne Sexton…) al
deragliamento, allo pseudo-fallimento, al suicidio.
Anche se, posseduta dal demone della poesia come nessun altro, Sylvia, artista
in nuce e consumatrice, nel 1953 appare immersa in
quello slancio che lei non scinde dalla cultura del benessere del suo paese, e
si identifica nelle “bamboline di carta” fabbricate da “Mademoiselle”.
Cosmetici, biancheria intima, lusso e cibo sofisticato le procuravano un
autentico piacere; un abito nuovo (magari rosso) le dava “una vertigine di
felicità”; una lista di acquisti era per lei “una lista di poesia”; la
contiguità con stelle del cinema (Grace Kelly al Barbizon
Hotel, dove anche Sylvia soggiornava) o la loro maschera abbagliante (Marilyn
Monroe) l’affascinavano; l’incontro con celebri letterate (Elizabeth Bowen) la esaltava. L’estate a New York, testimoniata da
fotografie di Hermann Landshoff, che la immortalano
nel ruolo di collegiale pin-up (somigliava alla modella Sunny
Harnett), finisce con un esaurimento nervoso, Tornata
a casa, nella modesta Wellesley, vicino Boston,
Sylvia compie il primo, devastante, tentativo di suicidio.
Il passaggio nel
1955 in Inghilterra, a Cambridge, grazie a una borsa di studio Fulbright, lontano dall’America competitiva e pragmatica,
sposta verso sentieri più concreti e sacrificali le sue ambizioni. Sylvia frena
la corsa alla pubblicazioni di racconti in riviste commerciali (“per il
mercato”), e se vi cede, lo fa, e lo farà, solo per l’eterno bisogno di denaro.
Ma ora è più disposta ad attendere occasioni migliori e soprattutto, nonostante
un romanzo continuamente in fieri, a distillare quello che ha da dire in versi:
“Oh mamma, se solo sapessi che anima mi sto forgiando! Che fortuna sono stati
per me questi due anni! Io lotto, lotto per costruire il mio io, spesso con
gran dolore, come ogni nascita richiede, perché è giusto che debba essere così,
e mi purifico al fuoco dell’amore e del dolore” (1956). Ha scritto una poesia
stupenda che acclude alla lettera, Inseguimento:
“Una pantera m’insegue, un giorno ne morirò”. Sogna, e lo confessa alla madre
(nel 1953), l’uomo che desidera: “fisicamente voglio un colosso…
intellettualmente voglio un uomo che non sia geloso della mia creatività in
nessun campo che non siano i figli”. Tre anni dopo questo “colosso” (come suo
padre) lo identifica in Ted Hughes: “Ho conosciuto l’uomo più forte del mondo,
un brillante poeta già studente di Cambridge di cui apprezzavo il lavoro prima
di conoscerlo, uno squadrato, massiccio, robusto Adamo, metà francese, metà
irlandese, dalla voce tonante come un dio – un cantante, un gigante”. Hughes è
di ceppo contadino del duro Yorkshire, uno che va a
caccia di conigli e pesca trote vellutate (un’abilità crudele che lei poi gli
rinfaccerà in Il cacciatore di conigli).
Diventa la sua “pantera”, il suo “fauno”: “Accucciato come un fauno, ululò / da
un boschetto di barbagli di luna e brina di stagno …)/ Un’arena di occhi gialli
osservò la sua trasmutazione, / e vide zoccoli farsi dai piedi, e spuntare /
corna di capra; udì levarsi un dio / e galoppare verso il bosco in quella
guisa”. E così, più o meno, disperatamente innamorata e fra difficoltà
economiche e creative, traslochi, faccende domestiche, allattamento figli, gelo
infernale nella campagna inglese, l’uscita agognata dell’unico libro pubblicato
in vita (ironicamente, The Colossus, 1960), si arriva al festoso evento
immortalato a Russell Square: l’ammissione nell’Olimpo
dei poeti inglesi (per lui). Il resto è storia, pettegolezzo e tragedia. I Diari (Adelphi) parlano più apertamente
di ciò che già strisciava sopra e sotto le superfici. Nelle lettere rimane tabù
il rapporto ambiguo con la madre Aurelia, il cui nome è lo stesso di quello di
una specie di meduse (l’“aurelia aurita”).
E proprio la lirica Medusa (1962) è a
lei indirizzata: “con i tuoi accoliti / che agitano le loro cellule impazzite
all’ombra della mia chiglia / e arrancano come cuori, / rosse stigmate nel
centro esatto, / fluttuando nella corrente fino al più vicino punto di
partenza, // trascinando le loro chiome nazzarene. / Ce l’avrò fatta a fuggire?
/ la mia mente si rivolge a te / vecchio ombelico incrostato, cavo
transatlantico, / che si mantiene, pare, in miracoloso stato di conservazione.
… / Via, via, tentacolo anguillesco! // Non c’è niente fra noi ”. Niente fra
noi: neanche le lettere.
“il Manifesto Alias domenica”,
10 maggio 2015