Caterina Ricciardi
la poesia necessaria di Philip Levine
“Certe cose”,
scrive Philip Levine in The Simple Truth
(1994), la lirica che oggi sembra imporsi alla memoria come la sua più
rappresentativa, “le sai da tutta la vita. Sono così semplici e vere” egli
continua “che devono essere dette senza eleganza, metro o rima, /devono esser
messe sul tavolo accanto alla saliera, / al bicchiere dell’acqua, / all’assenza
di luce che si addensa / nelle ombre delle cornici dei quadri, devono essere
nude e sole, devono stare per se stesse”. Sono versi che dichiarano un’ars
poetica di spoglia laconicità, di una quasi rinuncia della parola a tradurre le
realtà più ordinarie, le più semplici e terragne, e
le più “morandiane”, se osservate nel mistero del
loro legame con l’esistenza: dunque le più difficili da esprimere. È questa
onestà di fondo nella scrittura poetica e nel commento alla vita a sostenere il
ritratto di superficie di Levine nel panorama della
poesia americana del Novecento. Perché, infatti, a prima lettura, egli non
appare tessitore di enigmi metafisici. Nella sua biografia di facciata resta, e
gli piace esserlo, un poeta-operaio come Whitman e, un po’ come Carl Sandburg, uno che dà voce ai diseredati, gli immigrati, gli
oppressi dell’urbanizzazione.
Cresciuto
dall’età di quattordici anni alle catene di montaggio delle Cadillac e
Chevrolet, dove faceva risuonare la sua alfabetizzazione alla lingua inglese
recitando versi, Levine ha lasciato al magnate Henry
Ford, se non altro, il vanto di aver formato nel clangore della fabbrica
l’unico cantore di Detroit. Di conseguenza, egli è incline a presentarsi come
figura “proletaria”, un poeta di dimessa formazione accademica: un B.A. alla Wayne State University, letture
in proprio nella biblioteca di quartiere (Dostoevskij, Melville, Balzac,
Whitman), e un corso da uditore (cui poi seguì un Master) presso lo Iowa Writing Workshop negli anni
’50, quando quel progetto era agli inizi del suo successo. Grazie
all’esperienza in Iowa, a sua volta, Levine può
vantare di aver avuto per maestri Robert Lowell e
John Berryman. Quest’ultimo gli consegnò una lezione
profonda, sebbene impiegata dall’allievo in altre direzioni, percorsi molto
personali che si precisano nell’innesto all’interno del suo discorso di forze e
tradizioni di varia provenienza. Tant’è che persino il suo accostamento a un
gruppo o un altro delle scuole poetiche che si formano a ridosso della metà del
secolo risulta difficile da individuare. Lo si associa, generalmente, a una
generazione eterogenea che include Gary Snyder, Galway Kinnell e William Dickey.
Autore di oltre
venti libri di versi e del saggio autobiografico The Bread of Time (1994), agli inizi (esordisce nel 1963 con On the Edge)
egli punta subito sul “ritmo” che fa derivare, come Whitman, dalla parlata
comune e poi dalla preghiera (ebraica) e dal sermone, da lui trasformato in
apologo “socialista”, sprizzato di humor e fredda
ironia. E, nel fondo, questa sembra restare la sua cifra poetica, la voce che
lo porta lentamente al National Book Award con What Work Is (1991), al Pulitzer con The Simple Truth (1994) e all’elezione a Poeta Laureato nel 2011.
A due mesi dalla morte, all’età di ottantasette anni, in Italia gli si dà
l’onore del battesimo nella collana “Lo Specchio” di Mondadori che pubblica il
suo ultimo libro (2009) Notizie del
mondo (traduzione di Giuseppe Strazzeri). Il volume coniuga, in un lungo percorso
cronologico, storia e memoria, impegno sociale e dissenso, transito geografico
e evento: evento interiore, famigliare, pubblico. L’effetto epifanico delle
narrazioni (“storie”, le chiama Levine) si dà in
compressione, senza spreco di retorica. Egli rivanga i lutti delle guerre
(Civile spagnola, Mondiale, Corea); le opacità di Detroit (Dearborn) e del suo paesaggio
industriale; il contrappunto naturalistico dell’entroterra di Fresno in California, presso la cui università ha insegnato
a lungo; l’avventura migratoria della famiglia, rievocata da una visita al
Baltico donde partirono i nonni. Levine percorre
strade, come Whitman, e come lui ci fa sentire nella pastosità del nome dei
luoghi (Pacheco Pass, Toledo, Paducah,
Carmel, Chowchilla) tutta
la fascinazione verbale della terra americana; attraversa frontiere:
l’Australia, la Spagna, e la Liguria, dove, a Rapallo, si lega in amicizia con
il pittore Flavio Costantini, di cui apprezza la
storia visiva del movimento anarchico; onora il suo rapporto sacrale con
l’oceano (“qualcosa di immane, irrazionale”), come mistero trascendente e come
seme della sua rinascita migratoria.
Nonostante il
titolo da notiziario in transito e in scadenza, Notizie del mondo ha tutta l’aria di una “summa” personale. In
quattro parti, o momenti espressivi ed esistenziali, Levine
ripercorre la sua biografia intellettuale che si regge solida su poche
“narrazioni” pregnanti: i problemi della classe operaia, la Barcellona della
Guerra civile, e ciò che tramite l’eredità paterna si registra “nel libro delle
origini per diventare chi sono”. La Suite
di Dearborn (con un buono sberleffo su quel suite – quattro componimenti o stanze di
una suite che mimano irregolarmente il sonetto) è un obliquo omaggio a Detroit,
condensato nel ritratto casalingo di un dipendente della Ford, la cui
condizione, a mezzo secolo di distanza, si attualizza nella sovrapposizione
intellettualizzante dell’ironia. L’operaio (o lo stesso Henry Ford?) “si alza /
dal letto e gira per la sua magione / in vestaglia e ciabatte, chiedendosi / se
questo è proprio tutto ciò / che occorre per diventare Henry Ford, / l’uomo che
ha creato // il mondo moderno. I cieli / sopra la grande fabbrica sul Rouge / sono neri di fuliggine, senza stelle, / il mondo
intero è senza stelle adesso, tutto / perché è stato lui a renderlo / a sua
immagine, gratificazione da non poco”. Di contro a Ford si orchestra in
rapporto dialogico l’“io spagnolo” d’adozione di Levine.
L’apologo in prosa ritmica Nella città
bianca (Ronda, in Andalusia) è un omaggio a Hemingway e ai morti
repubblicani spagnoli attraverso una paradossale lettura di Per chi suona la campana, il libro del
“comunista americano”, sì, “l’amico di Fidel Castro”. I turisti, aggiunge un
luogotenente della Guardia Civil, che non fa distinzioni
fra fede al nazionalismo, di cui è al servizio, e la fama che il conflitto ha
regalato alla Spagna, “vengono qui per via del tuo signor Hemingway, ecco
perché tu sei qui”; e colloquiando
con il turista (Levine) mostra di saper tutto della
Guerra civile, tutto quello che c’è nel libro (o meglio nel film): la “svedese”
(Ingrid Bergman), lo stupro, i capelli rapati, lo sperone di roccia, il
“ponte”. Con l’andare del tempo (siamo nel 1965, precisa Levine,
e sta attento a non pronunciare la parola “fascisti”), nella fruizione senza
memoria di chi ne veglia l’eredità, e a scapito delle distinzioni ideologiche,
la storia si annulla nella fiction, nel divismo dello schermo, nella gloria del
Premio Nobel (“Mica danno il Nobel ai bugiardi”).
In tutti i suoi risvolti,
quella di Levine sembra poesia “necessaria” a
confermare l’impegno del poeta nel mondo, un impegno di cui, nelle ultime
tendenze dei “Language Poets”
americani, egli vedeva perduta la traccia (intervista alla “Paris
Review”, 1988). Poesia necessaria a tutte le stagioni
del silenzio, perseguita anche sull’esempio di grandi poeti della parola
“civile” (Auden, Majakowskij,
Lorca: nomi evocati in questo volume), dai quali Levine si distingue per la freddezza d’acciaio che sanno
dare la buona ironia e un grano dell’antico sdegno anarchico, proprio delle sue
radici russo-migratorie.