Eric Stark
Red noir
Robert Miklitsch: THE RED AND THE BLACK. American Film Noir in the 1950's. University of Illinois Press 2016
Il titolo stendhaliano accoglie puntigliose riflessioni sui destini del film noir americano con particolare attenzione alle declinazioni anticomuniste diffuse da un buon numero di prodotti minori che cominciarono ad essere distribuiti al crepuscolo degli anni quaranta del XX secolo. Secondo una diffusa opinione gli anni cinquanta testimoniarono il lento declino del noir classico ma Miklitsch, dedicatosi alla visione di opere di quel decennio, valorizzandone trascurati esempi, pedinando “il tema nascosto nello stile” (Paul Schrader) sostiene che, proprio restando fedele al concreto (il solo modo di rendergli giustizia) ci sia materia per contraddire le generalizzazioni tramandate, fino a prolungare gli anni gloriosi a ridosso del 1960. Lo guidano, in questa peripezia volta almeno a rallentare la china negativa del noir, le tante produzioni hollywoodiane allestite per contrastare più o meno scopertamente il morbo comunista, in un giro d'anni che non è perfettamente sovrapponibile a quello del famigerato senatore McCarthy. Per l'autore è facile ricordare i vertici e le riuscite che spostano alla fine degli anni cinquanta la manifesta decadenza del genere: basti ricordare le opere di Aldrich, Dwan o Welles, ma il filo scelto è in questo caso la minaccia rossa (compresa la variante atomico-nucleare) com'essa venne veicolata nella produzione hollywodiana sotto attacco della commissione per le attività anti-comuniste, del mezzo televisivo e della inevitabile progressiva scomparsa del doppio spettacolo.
Ora, se sostenere che il pericolo comunista fosse adombrato nelle astronavi e negli alieni sfiora oramai l'ovvio, più recente è la considerazione per il noir del secondo dopoguerra come approvvigionatore di ansietà ed intrattenitore di inquietudini da guerra fredda: l'indagine su una simile ossessione declinata in nero, nei complotti gangsteristici considerati come macchinazioni comuniste, è comunque già acclimatata in un' accademia, quella nordamericana, che sforna sventagliate d'indagini sulle produzioni noir successive all'epoca aurea degli anni quaranta, leggendovi gli incupimenti della paranoia nucleare e, appunto, rossa. Secondo Miklitsch, avvinti in doppia elica, film noir e anticomunismo segnalano un momento critico nella transizione del genere classico dagli anni 40 ai 50, dove spesso, a conferma di una certa plasticità del thriller, al posto del detective privato troviamo un agente investigativo per conto di FBI o HUAC, come a segnalare una progressiva emergenza del momento istituzionale e l'inesorabile scemare del “bel gesto” individualistico e per così dire romantico riservato all'occhio privato.
Robert Miklitsch, già curatore per lo stesso editore della raccolta di saggi Kiss the Blood Off My Hands su aspetti trascurati del noir, è pure responsabile di Roll Over Adorno in cui scandagliava svariati esiti della cultura popolare da Chuck Berry, appunto, a Tarantino, con gli strumenti di quella teoria critica che da questa parte dell'atlantico è spesso giudicata ferro vecchio. In questo nuovo libro intende distanziarsi dal passato pensiero liberal che, condannando questa ghirlanda di noir espliciti quanto alla minaccia comunista come sprovvista di qualità estetica, oltre che morale, ne dimenticava la provenienza ed il luogo di incubazione, ossia quegli stessi studios responsabili dei capolavori riconosciuti. Un solo esempio: Lo schiavo della violenza (originale: Woman on Pier 13, 1949) condivideva con il celebrato Le catene della colpa di J. Tourneur il grande direttore della fotografia N. Musuraca. E aggiungiamo, a rendere il discorso meno scontato per lo stesso film, le notazioni sul ruolo della femminilità (bionda cattiva, moglie buona) e la caratterizzazione queer del comunista.
Si potrebbe azzardare che la RKO, che lo produsse, venne usata dal suo “scalatore” Howard Hughes come arma batteriologica nello scontro anticomunista, allucinata mutazione della morte rossa di Poe. La paura dei “germi” (microbi e comunisti) di Hughes traspare ne Il lago in pericolo (The Whip Hand , 1951) di W. C. Menzies, ancora della “sua” RKO , la stessa casa produttrice dove il copione-cartina di tornasole di Lo schiavo della violenza a detta di J. Losey veniva proposto ai registi come test di fedeltà e lealtà americana: il film fu infine realizzato da Stevenson (più noto poi come regista alla Disney) distribuito oltre che come La donna del molo 13 pure con il titolo I Married a Communist. Woman on Pier 13 e The Whip Hand sono solo due esempi cosiddetti minori i cui temi, paranoia & apocalisse, saranno più robustamente svolti in D.O.A. (1949) di R. Maté (dove la scena del crimine è lo stesso corpo di chi indaga), in Un bacio e una pistola (1952) di R. Aldrich (con il private Mike Hammer, creato da Spillane, perfetto anti-Galahad in cerca della X che nel finale si rivela come una radioattiva bomba sporca ante-litteram) e in Mano Pericolosa (Pickup on South Street, 1953 ) di S. Fuller dove lo spionaggio atomico subisce una più esplicita torsione anticomunista. Questo film, in Francia subito messo all'indice da G. Sadoul, nella distribuzione transalpina titolata Le Port de la Drogue vedeva i microfilm concupiti dallo straniero trasmutati in eroina. Ennesima conferma, ove ve ne fosse bisogno, che anche gli espliciti propositi esecutivi di un Howard Hughes dovevano comunque passare attraverso le mediazioni dei processi di produzione, prima, ed i complessi tormenti della distribuzione, poi. Le familiari narrazioni già servite nei film anti-nazi o anti-spie ricorrevano nella guerra delle istituzioni contro le organizzazioni criminali: nella comune appartenenza al “male”, il comunismo si denunciava come variante della dipendenza dall'alcol o dalle droghe.
Se il forte del libro sono, nella prima parte, la colorazione anticomunista e la minaccia atomica, nelle pagine seguenti trovano spazio i pericoli e le sfide rappresentati dai nuovi media tecnologici per un'industria cinematografica sulla difensiva che già era stata costretta ad amputarsi, per motivi di concorrenza, del proprio braccio distributivo. Diversamente da Schrader che imputa alla televisione ed al colore le maggiori responsabilità nel declino del noir, Miklitsch sottolinea come ottimi fotografi (MacDonald, Alton e Ballard per es.) per tutto il decennio avessero guidato egregiamente la transizione dall'espressionistico bianco e nero verso il colore ed i piani ravvicinati, punti di forza delle riprese televisive. Il wellesiano Infernale Quinlan, del 1959, è pressochè contemporaneo di Strategia di una rapina di Wise ma pure de Il dominatore di Chicago di Nicholas Ray, dove i colori sono quelli di un musical MGM, maturo segno che Hollywood da tempo si misurava con le nuove tecnologie mentre assisteva al tramonto dei b-movies. Già nel 1954, una femme fatale per eccellenza, Gene Tierney, in L'amante sconosciuto, vestiva i colori De Luxe in formato CinemaScope per arginare l'emorragia di spettatori nelle sale oscure. E del 1956 era, grazie a John Alton, l'ancor più pittorico Veneri rosse di Allan Dwan. Frutti vistosi e maturi e sfide sontuose in una guerra persa mentre il maccartismo tramontava. Erano alle spalle ormai gli anni di Big Jim McLain (1952) di E. Ludwig in cui John Wayne, agente federale, dava la caccia ai comunisti per conto della nota Commissione: quanto la retorica del messaggio ideologicamente “conservatore” fosse succube di un gioco più sottile fu svelato dal “semplice” cambio di titolo e dagli aggiustamenti nel doppiaggio della versione nostrana, Marijuana: la droga infernale. E ancora, ostinarsi nell'esplicita propaganda poteva comportare gli inconvenienti riferìti da Flaiano a proposito di Sipario di ferro (1948) di Wellman, film ricalcato sulla defezione di Gruscenko: “nel cinema romano dove questo film è stato in programma, alcuni spettatori dissenzienti hanno arrecato danni ai tendaggi e alle poltrone, tagliuzzandole con lamette da barba. C'é toccata una di queste poltrone, del resto già rattoppata.”