Il saggio di Carlo Vita è tratto dal numero monografico de “La Riviera Ligure” dedicato a Luciano Rebuffo (n. 55/56, gennaio-agosto 2008)
Carlo Vita
Luciano
Rebuffo. Uno di Sestri, con la camicia bianca
Ho conosciuto
Luciano Rebuffo attorno al 1957, quando si stava preparando il numero pilota
della rivista «Cornigliano» ed ero stato anch’io invitato a collaborare.
Sapevo che
scriveva su «Civiltà delle Macchine», in uscita solo da pochi anni ma già
diventata un mito, come il suo direttore, Leonardo Sinisgalli, che tutti
chiamavano “il poeta-ingegnere”. Un po’ di quel mito aureolava anche attorno
agli scarsi capelli biondo-ricciuti di Luciano, che ci portava l’ultima
novella: l’auspicata fusione di quelle che poi si sarebbero chiamate “le due
culture”, l’umanistico-letteraria e la scientifico-tecnica (era uno dei
temi-guida di «Civiltà delle Macchine»).
Si sarebbero aperti nuovi orizzonti mentali e nuovi scenari di sviluppo, di cui
avrebbero forse potuto godere tutti, ricchi e poveri, industria e proletariato.
Soprattutto il
proletariato e il suo destino premevano a Rebuffo. Del quale sapevo solo quel
poco - non parlava mai di sé e delle sue vicende personali - che traspariva
dalle sue conversazioni, appassionate e ispirate, ma sempre con un certo
disincanto, che doveva essergli maturato dentro negli ultimi anni.
Lo animava una
fede sofferta e un po’ romantica ma lucida nel Socialismo e nella Democrazia,
termini per lui assolutamente inscindibili, facce della stessa medaglia. Fede
da sempre: basta leggere il settimanale «Socialismo»,
che usciva nel 1945 (Pippo Marcenaro dirà come ne ha avuto la raccolta completa
da Rebuffo stesso). In quel foglio il credo in un socialismo democratico di
Luciano ventunenne emerge dai suoi scritti a chiare lettere.
Nella
relazione che egli tenne, nel novembre ’45, al primo congresso provinciale
della federazione giovanile socialista di Genova, di cui era segretario, si
schierò per una decisa autonomia del suo partito contro chi auspicava la
fusione coi comunisti legati a Mosca. E la maggioranza della gioventù
socialista genovese risultò dello stesso avviso: Rebuffo ebbe il massimo dei
voti e fu confermato in carica.
Un risultato
dovuto anche alle sue qualità oratorie. Lo conferma il professore Gino Giugni,
giuslavorista di fama internazionale, ministro del lavoro nel governo Ciampi e
coautore a suo tempo, con Giacomo Brodolini, dello statuto dei lavoratori. Nel
suo libro La memoria di un riformista,
appena uscito dal Mulino, egli ricorda Rebuffo come “eccellente tribuno e mio
grande amico”. E aggiunge che la storica scissione di Palazzo Barberini degli
unionisti nel 1947 gli fu annunciata proprio da Luciano, con un telegramma cha
vale la pena di citare, perché sintetizza il suo modo di affrontare gli eventi
(politici): Avvenuta formazione nuovo partito – prepara psicologicamente
materialmente quadri attrezzature – convoca compagni per gettare basi
organizzative – trasferisci casa documenti e materiale – controlla situazione –
saluti.
Lo stile
telegrafico coincide qui perfettamente con lo stile di un capo. E difatti
Rebuffo fu nominato segretario na-zionale della federazione giovanile del PSLI,
i famosi “Piselli”, e partecipò a Roma alle riunioni della direzione del nuovo
partito socialdemocratico. C’era anche Saragat, naturalmente, e Luciano ci
raccontava talvolta aneddoti esilaranti di quelle adunanze. Quando il leader
carismatico doveva comunicare ai convenuti qualcosa che imponeva riserbo,
ordinava: “Ed ora non voglio vedere nessuno che prende appunti su quello che
dirò, e nemmeno che scarabocchi ghirigori. Mettete via le penne e ascoltate.”
C’era, nel
modo in cui Rebuffo ci narrava spiritosamente quelle storielle-metafore, una
nota di amarezza. Dopo non molto tempo, egli lasciò i “Piselli” e trasmigrò nel
gruppo dei “magnacucchi”, come venivano chiamati i fuorusciti dal PCI Magnani e
Cucchi, insofferenti del “centralismo democratico” comunista.
Quando lo
conobbi, Luciano era sempre socialista, ma deluso. Non faceva più politica di
partito, e campava delle consulenze con le industrie IRI genovesi, l’Ansaldo e
soprattutto l’appena nata Cornigliano, che mostrava di voler affrontare in modo
nuovo i rapporti con il personale e con la comunità, e che poi diventò
l’Italsider.
Com’era di
persona Rebuffo? Conservava la magrezza occhialuta dell’intellettuale
politicamente impegnato e temporaneamente prestato all’industria. Il fuoco
della politica che ancora gli ardeva dentro riverberava nelle lenti spesse di
ipermetrope, che gli ingrandivano gli occhi azzurri. Occhi che sembravano
rimanere seri anche quando rideva e scherzava, cosa che succedeva spesso. Era
un genovese, anzi un sestrese (di Sestri Ponente, culla di miti e di
aristocrazie operaie), spiritoso e ironico, ma con il fondo di serietà di chi
sa che gli scherzi durano po-co e che la vita è dura.
Sempre ben
rasato e vestito in modo appropriato, giacca e cravatta ovviamente (allora non
era pensabile altra mise nel mondo non proletario) e nelle stagioni giuste
anche il gilè, disusato tra i giovani, e da lui portato senza affettazione. Tra
l’altro, gli andava largo sul corpo asciuttissimo.
Ma quello di
cui parlo era il Rebuffo visto da me, nei tardi anni ’50 e primi ’60, che un
giorno mi disse con aria di rimorso: “Da quando sono con voi non guardo più
solo le vetrine dei libri, ma anche quelle dei vestiti”. Negli inverni
difficili del dopoguerra Luciano doveva essere stato tanto impegnato nella
politica attiva quanto strapelato. La signora Laura, moglie di Giugni, ricorda
che i compagni si tassarono per comprargli un cappotto. Credo fosse lo stesso
che egli portava ancora, ben conservato, quando lo conobbi: spalle squadrate e
martingala bassa, secondo la moda di fine anni ’40.
Nel mio
ricordo, Rebuffo ha sempre la camicia puntigliosamente bianca. Non so se fosse
parte della divisa giusta per presentarsi alla committenza industriale come
consulente dotato di cultura, o fosse anche un segno distintivo della sua
uscita dal mondo dei “blue collars”, di uno che aveva studiato con tenacia per
guadagnarsi il colletto bianco ma che non perdeva occa-sione per ribadire che
il suo cuore restava dalla parte degli operai in tuta. Era un collaboratore
apprezzato dalle Direzioni Generali, ma si preoccupava sempre di non rinnegare
le sue idee socialiste e la sua sestrità, tanto che qualcuno degli amici gli
aveva trovato un soprannome da manierista secentesco: “il Sestri”.
Luciano era,
ripeto, riserbatissimo sulle sue origini (si sa solo che era nato nel 1924) e
sui suoi studi. Figlio di un sarto, forse fece le scuole di avviamento ma poi
seppe bene autoacculturarsi, tanto che a me abbastanza sprovveduto appariva uno
che aveva letto tutto. “Io so tutto delle cose inutili”, soleva dire invece di
sé (lo ricorda Guglielmo Trillo, direttore a Roma della «Rivista Finsider», che
lo ebbe caporedattore nei suoi ultimi anni di vita). Le “cose inutili” erano le
polene delle navi, gli ex voto marinari, le antiche carte nautiche, le armature
rinasci-mentali, i pupi siciliani, l’etnografia, la storia delle navi, del
ferro, delle vecchie ferriere artigiane e delle “capitali siderurgiche”, e
naturalmente la storia di Genova e delle sue fontane. Tutte cose, tra le molte,
su cui Rebuffo ha scritto con mano leggera dotti saggi e articoli documentati,
interessanti e ricchi di umanità.
Imparai col
tempo che Luciano era un uomo sensibilissimo e tormentato da un’ansia, che dava
pena alla sua esistenza ma che sul lavoro aveva risvolti molto positivi. Era
molto scrupoloso nel rispettare i tempi redazionali, nel consegnare i suoi
“pezzi” sempre esatti, senza sbavature, senza cose da correggere. E aveva
sempre idee e suggerimenti preziosi, che gli venivano dalla sua cultura.
Curava, tra l’altro, l’edizione in inglese della “Rivista Italsider”,
formalmente diretta da me, che usciva sempre puntuale (mentre quella in
italiano, che dirigevo effettivamente io, preso da tanti impegni, era spesso in
ritardo). Scriveva anche favole per bambini e i “pensieri del Bagatto” (che era
uno degli eteronomi con cui si firmava).
Anch’io, come Marcenaro, una volta l’ho visto piangere. Stavamo visionando la prima copia de L’uomo il fuoco il ferro di Kurt Blum e Eugenio Carmi, documentario girato quasi tutto a Cornigliano e poi premiato al Festival di Venezia. Scorrevano, contrappuntate al piano dalla musica di Prokofiev, immagini bellissime, raffinate, astratte di un mondo incandescente, dove gli uomini al lavoro erano solo ombre intraviste contro colate di metallo. “Ma gli operai, dove sono?”, chiese Luciano. E la sua voce si ruppe in un nodo di pianto.