Rocco Lo Monaco

Radicati sulla morte

Alberto Radicati di Passerano: DISSERTAZIONE FILOSOFICA SULLA MORTE. Indiana, 2011

Nonostante George Berkeley ne accennasse come a un  “minute philosopher”, una volta attestata la scarsità peninsulare di spiriti caparbiamente refrattari nel primo settecento, conviene tenercelo ben stretto il nostro Alberto Radicati conte di Passerano (1698 – 1737), insieme al Pietro Giannone, dal destino in molti punti consimile, e pochissimi altri pensatori liberi di quei decenni. A monte di tutti loro stava l'alto esempio di Paolo Sarpi, sacrificatosi nella difesa delle autonomie veneziane dalla protervia romana.

In fondo, il nostro uomo, dopo le ire degli accomodanti compatrioti piemontesi, nella sua breve esistenze accese l'interesse di quell'internazionale “protestante” (teste perfino Voltaire che lo ricordò firmando col suo nome una “Lettera ai Romani”) che, quando era impossibilitata ad esprimersi in Francia o Inghilterra, ricorreva ai Paesi Bassi per esporre i propri pensieri in tema di separazione dei poteri temporali e religiosi.

Lo stesso conte Radicati provò a sue spese quanto fosse pericoloso il passaggio dalla diffusa e collaudata critica dei riti a quella dei dogmi anche in tempi in cui l'inquisizione pareva in ritirata. Solo dopo l'esilio in Inghilterra (dal 1726 al 1735 e successivamente in Olanda) potè pubblicare le proprie riflessioni da “protestante convertito” sfuggito al piccolo mondo piemontese, dove pure certi influssi calvinisti o addirittura echi anabattisti non dovettero essergli affatto ignoti. Esilio affrettato oltre che dal fallimento del tentativo di orientare, estremizzandoli, i dissidi del regno piemontese con la curia romana, da una rottura con il train de vie della nobiltà feudale (conclamata nella propria rovina economica per gran parte dovuta al gioco) in cui aveva smesso di riconoscersi.

In quel tempo, nel piccolo regno dei Savoia si guardava con cautela all'esperienza degli stati assolutisti europei per rinsaldare un potere principesco ancora debole di fronte a quello curiale; se ne ripescavano le dispute legalistiche e le formule giuridiche ma dietro quell'audacia di carta fatichiamo a “vedere in faccia uomini e cose”, tanto scarsa è la forza suggestiva di quell'anticurialismo. Salvo appunto imbattersi poi in figure come Giannone e Radicati che costringevano la morente autorità romana ad uscire da uno stato di sonnecchiante ed involontaria tolleranza.

Si conosce oramai la preferenza accordata dal re di Sardegna alle arti diplomatico-concordatarie rispetto alle spinte “anticlericali” suggerite da un troppo ottimista Radicati il quale, avvertendo la sconfitta della propria linea e liquidate sommariamente le proprietà, nel 1926 lasciò il Piemonte senza preavviso e, una volta approfonditi i motivi di dissenso, si vide destinare un bando perpetuo dal suo ex-sovrano. Infatti quello che in forma di lettera inviata a Vittorio Amedeo avrebbe dovuto chiarire le ragioni della sua fuga (“ho temuto la perfidia de’ miei nemici, l’aggiustamento con Roma e per conseguenza la tirannica Inquisizione nella sua autorità ristabilita”) divenne poi noto come Manifesto della propria uscita dal feudalesimo ancora vigente nella sua terra e venne catalogato nell'Archivio di Stato torinese nella sez. “materie criminali”.

La ripresa di una tradizione anticuriale cui si aggiunsero poi Spinoza, il libero pensiero deista, Toland e Collins proiettò le idee del fuggiasco Radicati oltre la piccola patria dei Savoia, inserendolo in una storia ormai secolare dove deismo significava sempre più ateismo e quando si scriveva “regno di Dio” si doveva leggere “natura”.

Pensato a fondo, il religioso sconfinava nel politico ed il deismo diffuso era strettamente legato all'idea di una democrazia perfetta.

La povertà evangelica, previa rilettura sciolta da tutele dei testi canonici, si proponeva come comunione di beni: inevitabile la rottura con la Chiesa che non rinunciava al potere temporale, tradendo l'ideale evangelico, ma anche con chi, come Vittorio Amedeo, si mostrava troppo timoroso e conciliante con gli uomini della curia. Eppure l'autodidatta Radicati fino alla fine continuò a dirsi “free-thinker cristiano”, salvo definire “pagano” il tempo trascorso in Piemonte da cattolico (poco) osservante. Da questo rovesciamento sarcastico della terminologia superstiziosa (leggi: religiosa) risulteranno i dispetti ed il brio dei pamphlets scritti in una Londra dove le modeste proposte di uno Swift (di cui Radicati fu anche traduttore) avevano confermato o incoraggiato i più audaci ed eterodossi.

“Si tratta di un uomo molto malvagio, ma non lo credo matto” scrisse il vescovo di Londra nel chiedere misure restrittive a suo carico quando i suoi pamphlets cominciavano a circolare. Segno che la tradizione del “libero spirito” e dell'anabattismo ancora potevano preoccupare decenni dopo lo spavento causato dai “livellatori”. Se difatti Radicati veniva dipinto come un “isolato” (e almeno esteriormente lo fu davvero, anche in Piemonte) non altrettanto lo furono i pensieri e le proposte espresse in scritti e discorsi. Se già il deismo inglese si laicizzava passando in terra francese, il conte italiano ormai in miseria rileggendo il nuovo testamento ne sottolineava i motivi di contestazione del cristianesimo così come si era tramandato ed istituzionalizzato, sottolineando come la religione cristiana fosse al principio una specie di essenismo al cui cuore stava la comunità dei beni, anteriore ad ogni distinzione fra il mio ed il tuo. La religione del Vangelo era la vera religione originale della natura e della ragione.

Si trattava, per lui come per i deisti con cui interloquiva, di rimettere in vigore ciò che era stato trasgredito e violato. Cristo non aveva fatto altro che “ripubblicare le leggi di natura” (distorte dalle caste sacerdotali) ed il Vangelo, autenticamente messo in pratica, avrebbe dovuto riportare in vita l'originaria legge naturale anteriore ad ogni bene e male ed allo stesso peccato originale.

Rimettendo la legge di natura al posto della schiavitù della legge, l'annuncio cristiano, oltre le interessate distorsioni, era ancora capace di ristabilire la comunità dei beni e l'eguaglianza tra gli uomini.

I viaggi e le esplorazioni di quegli anni, le scoperte di terre abitate da “selvaggi” ribadivano l'anti-agostinismo mai debellato di quanti, attraverso l'esaltazione  del Cristo legislatore (tradito dalla Chiesa romana) miravano a reintegrare la democrazia perfetta o il governo popolare.

Riattualizzare, rimetter in vigore, ripubblicare (il dettato evangelico) erano la stessa cosa per chi,  rifacendosi alla tradizione settaria e “antinomica”, aveva tentato di indirizzare verso forme “egualitarie” la stessa rivoluzione inglese puritana. Se a questo aggiungiamo una concezione materialista della natura che leggeva Epicuro con Newton, capiamo il salto compiuto da Radicati: dal piano dell'esperienza religiosa che cancellava la colpa individuale a quello della salvezza sociale e della convivenza umana. Cristo aveva annunciato l'estinzione del peccato sociale e a quel mitico istante del cristianesimo primitivo (basato su comunità dei beni e fraternità) origine e fine della storia andava riportato ogni evento successivo. Riviveva nel conte piemontese e nella ristretta cerchia di deisti radicali e millenaristi il mito anarchico e comunitario della chiesa primitiva e delle relative teorie sociali. Democrazia perfetta si dava solo quando tutta l'autorità è amministrata dal popolo e gli uomini non si distinguono per nobiltà, ricchezza e potere.

Siamo ben lontani dal razionalismo inglese di marca lockiana in questa ripresa di motivi estremisti di impronta nettamente ereticale miranti a riportare l'umanità in uno stato di innocenza.

Radicati ha una concezione “libertina” dello stato di natura, antecedente le forme sociali e le convinzioni morali, in cui regna la giustizia e gli uomini hanno il necessario senza conoscere ineguaglianza e discordie.

Su questo sfondo i suoi pensieri, originati in un primo tempo dall'incontro di riflessioni francesi sull'assolutismo con una cultura giurisdizionalistica importata dal meridione, temprati poi al vento del libero pensiero nordeuropeo, perdono molto della loro paradossalità: oltre l'erudizione si tratta di “fare nostra l'esperienza estrema “ (Silvia Berti) del conte di Passerano, scorgendo un elogio della vita fin nella  Dissertazione filosofica sulla morte (1732) scaturita dalla constatazione dell'esilio delle gerarchie angeliche negli spazi infiniti aperti da Newton, come suggerito da Franco Venturi, un altro dei suoi maggiori studiosi.

La Dissertazione venne presto conosciuta come “apologia del suicidio a consolazione dell'infelice” fondata su un elogio della vita e della natura a partire dal libero esame delle coscienze. Ultimo fine dell'uomo, la libertà è diritto inalienabile da difendere anche attraverso il suicidio; ricorrendovi, l'uomo ristabilisce un rapporto razionale e naturale con sé e la vita, smettendola di ritenersi simile a un Dio immortale ed usando il rimedio messogli in mano dalla natura.

Dà solo una pennellata di “autentico” in più il fatto che il cancelliere Ossorio riferisse come il facitore di libelli Radicati, al tempo della scrittura e pubblicazione londinese della Dissertazione, morisse di fame e conducesse la vita di un bandito. Per questo scritto egli fu uno dei pochi scrittori perseguiti ed arrestati e, pur se liberato su cauzione dopo poche ore, Radicati cominciò a trovare soffocanti le attenzioni della giustizia inglese, attenta nel preservare e difendere l'equilibrio liberale dalle “derive estremistiche” del nascente illuminismo, accusato di minare le fondamenta del vivere civile col pretesto di salvare l'umanità dalla superstizione. Insomma, troppi lumi potevano accecare. Certo il conte non si comportò come quel vecchio gentleman ateo morto di crepacuore il giorno in cui il Parlamento inglese aveva deliberato la costruzione di cinquanta nuove chiese, però il London Journal scriveva che “l'autore ha messo insieme le peggiori cose che siano mai state dette dagli uomini più infami riguardo alla divinità, all'universo, alla natura umana e alle azioni dell'uomo”.

Attestazione che, almeno in Inghilterra, Radicati, “assolutamente non piegato e remissivo” (T. Cavallo) per quanto isolato e disilluso, veniva letto e confutato: segno dell'esistenza di un'opinione pubblica, assente nella sua terra d'origine.

Oggi La dissertazione filosofica sulla morte è ristampata dall'editore milanese Indiana, ma ricordiamo che negli ultimi anni un editore ligure, Gammarò di Sestri Levante, si è distinto nella riproposta di testi di e sul conte libertino: citiamo solo i Dodici Discorsi storici morali e politici con cui Radicati inaugurò la rottura con quella credenza che, ricorrendo a riti superstiziosi, mirava a conciliare “una vita malvagia con la speranza della salvezza eterna”. “Fogli di Via”, luglio 2012