Cassandra e la letteratura
Può stupire l’inclusione del libro di un narratore, Pascal Quignard, in una collana di poesia. E in effetti Lycophron et Zétès (Paris, Gallimard, 2010) rappresenta un prodotto anomalo per molti aspetti. Comprende due testi assai diversi fra loro: il primo è la traduzione dal greco di un poema di Licofrone, il secondo uno scritto nuovo, costituito da una serie di divagazioni in prosa. Procediamo con ordine, ricordando innanzitutto che a un Licofrone vissuto nell’epoca ellenistica (gli studiosi sono però discordi sull’identità e la collocazione cronologica di quest’autore) si attribuisce un poema, Alessandra, famoso per la sua oscurità. Si tratta di un lungo e intricato monologo della protagonista, Cassandra (Alessandra è una variante del nome), la più bella tra le figlie di Priamo, profetessa infallibile ma anche giovane sventurata. Infatti, per volere di Apollo, nessuno crede alle cose vere da lei preannunciate e, dopo la conquista di Troia da parte degli Achei, il destino la condanna a una fine crudele. Nel discorso che Licofrone le attribuisce, Cassandra enuncia le cause e le tragiche conseguenze della guerra che ha portato alla rovina della sua patria, in uno stile oracolare ed enigmatico; non a caso il poeta greco è stato accostato, nel corso dei secoli, ad altri lirici accusati di essere troppo difficili, da Scève a Mallarmé.
Nella traduzione, Quignard
non fa nulla per agevolare il compito del lettore: si astiene infatti dal
chiarire le allusioni di Licofrone con note a piè di pagina e, pur offrendo una
versione in prosa, si mantiene il più possibile vicino all’originale, di cui
conserva le frequenti spezzature sintattiche e semantiche. Ne risulta un testo
arduo che, pubblicato nel 1971, deve aver attratto l’attenzione di pochi. Fra
questi, Paul Auster, che ne ha parlato nel romanzo autobiografico L’invenzione della solitudine: «A.
ricorda l’emozione provata a Parigi nel 1974, quando scoprì il poema […] di
Licofrone (circa
Alla riproposta del poema, Quignard aggiunge adesso un nuovo testo, che occupa più di metà del volume. Scritto a quasi quarant’anni di distanza, Zétès sorprende già per il titolo, che sembra chiamare in causa un personaggio della mitologia greca (Zete, infatti, era uno degli Argonauti). Tuttavia le cose sono più complesse, sia perché lo scrittore intende questo nome anche in senso etimologico («colui che cerca»), sia perché lo ha già usato in precedenti occasioni. Infatti, fra il 1976 e il 1979, Quignard aveva pubblicato otto brevi frammenti presentati come traduzioni da un fantomatico poeta greco di nome Zete. Si trattava dunque di un piccolo caso di mistificazione letteraria, sul tipo di quello già praticato più in grande da Pierre Louÿs nelle Chansons de Bilitis. I frammenti, ripresi adesso nel libro (dove occupano solo cinque pagine), sono scritti in uno stile che ricorda vagamente quello della versione da Licofrone, e rientrano senza troppi problemi all’interno del testo in prosa che li comprende. Ad esso Quignard conferisce, a tratti, un carattere memorialistico, rievocando le esperienze e frequentazioni dei propri anni giovanili, quelli in cui traduceva il poema greco. Lo scrittore ricorda ad esempio di essere stato spronato a compiere tale lavoro da un grande lirico tedesco, Paul Celan, nel periodo in cui entrambi collaboravano alla rivista «L’Éphémère». Di essa, Celan era uno dei redattori, al pari di altri esponenti di prestigio della letteratura del secolo scorso (come Dupin, Bonnefoy, du Bouchet, des Forêts, Leiris); anzi, Quignard individua proprio nel suicidio del poeta, avvenuto nel 1970, una delle cause che hanno portato, due anni dopo, alla fine della rivista.
Zétès sarebbe però un testo poco quignardiano se si limitasse a narrare ricordi del passato. L’autore infatti ama soprattutto una scrittura di tipo digressivo, sicché molti dei suoi libri si presentano strutturati in brevi capitoletti su argomenti vari, suggeriti in parte dalle esperienze personali, in parte da una vasta erudizione. Volumi del genere non si prestano ad essere riassunti, e in certo modo obbligano il lettore a privilegiare alcuni temi a scapito di altri.
Spiega Quignard: «In queste pagine non si tratta di parlare di me per parlare di me, ma di chiarire ciò a cui un corpo obbedisce riguardo alla voce – e forse riguardo al vuoto in cui essa si muove quando viene scritta. In queste pagine si tratta di capire la sorprendente impulsività della voce vana, la strana spinta che costringe a scrivere». Ecco dunque che la protagonista del poema greco si rivela come un emblema della scrittura letteraria: «Cassandra designa […] la profetessa furibonda. È colei che vaticina vera sed frustra. In verità ma invano. Non è il falso a costituire il cuore della letteratura, ma la verità vana». Pur obbedendo a un’irreprimibile esigenza interiore, chi scrive incarna un «potenza totalmente impotente», perché spesso le cose vere che enuncia non raggiungono i destinatari. È un po’ l’esperienza che hanno fatto i reduci dai campi di sterminio: ansiosi di comunicare le atrocità vedute e subite, si sono accorti ben presto che le loro testimonianze suscitavano imbarazzo e incredulità, così che spesso hanno preferito rassegnarsi al silenzio (Quignard si è reso conto di ciò attraverso un proprio zio, superstite da Dachau). Inoltre, nel caso di alcuni scrittori antichi o moderni, da Licofrone a Celan, la fedeltà alla voce interna ha dato luogo ad opere che appaiono oscure, e li hanno esposti al rimprovero di usare un linguaggio criptico.
Eppure nulla potrebbe allontanare chi scrive dagli obblighi legati al proprio compito, quand’anche egli dovesse constatare che i testi da lui intesi come comunicazione sono, di fatto, soliloquio. «Cos’è un letterato, una persona con attitudini letterarie, un lettore, un intellettuale, un mistico, un poeta? Cassandra a Troia. Geremia a Gerusalemme. Juan a Toledo. Spinoza ad Amsterdam. Stendhal a “Civitavecchia negli Stati romani”. Mallarmé a Sens. Bataille a Vézelay. Voce vana, solitaria, voce sola davanti al clamore collettivo, troppo singolare di fronte alla saturazione mitica del discorso di massa, inudibile nell’acclamazione arcaica che coalizza le grida in seno ad ogni raggruppamento. Voce estremamente singolarizzata, che non viene mai creduta dalle voci maggioritarie».
E tuttavia lo scrittore – una Cassandra che, invece di pronunciarle, fissa sulla carta le proprie parole – non si rassegna, non rinuncia a realizzare quegli oggetti paradossali, quegli adynata, che Quignard definisce così: «Un’audizione senza orecchie, un grido senza suono, dei sogni senza immagini, sono i libri».