Jean
Montalbano
QUI
M. John
Harrison: Vorrei essere qui. Mercurio 2024
Niente di più facile per l’autore di Luce dell’Universo e Riaffiorano le terre inabissate che tradire le promesse autobiografiche delle fascette editoriali (“non farebbe per me una relazione sana col passato”) in pagine dove, più che la bellezza delle cose congelate, in un teatro del non-ricordato - niente di proustiano - affiorano, lampeggiando, solo fremiti vaghi con precarie intuizioni dei sottostanti ricordi, un paesaggio tutto faglie e discontinuità, una Londra-e-dintorni psicogeograficamente solcata. Da vecchio, annota Harrison, anche i ricordi hanno messo su peso, ridotti a inservibili trofei esperienziali, se non addirittura cumulo di silenziosi oggetti rotti ad immagine di un passato precarizzato.
Entrato nella fase statisticamente poco affidabile della vita, in cui gli si fa lampante la difficoltà nel reperire-organizzare il passato al di fuori del farsi stesso della scrittura e in cui ogni continuità narrativa percepita come difetto, Harrison ricorda come nell’immediato dopoguerra, nel Regno Unito, comandasse il buonsenso, l’unico senso: “gli adulti erano il pozzo e il tuo ruolo era bere”. La sfida alle gerarchie tradizionali spingeva gli ambiziosi a evadere dal perimetro di controllo adulto per entrare “nel luna park intellettuale delocalizzato della modernità” ma per lui l’impegno nel lavoro di scrittura si paleserà mano a mano nella decisione di volgere le spalle ad ogni relazione romantica con le storie. E la costante compagnia del dubbio ricorrente: “Quale beneficio porta(va) riesaminare i padri, ottusi, affettuosi, stupidi?”
Il futuro annunciato dalla science-fiction della sua giovinezza, un futuro le cui premesse vennero gettate già nel secondo dopoguerra è il presente scontato di Harrison; se prima allarmava, adesso annoia benché allestito in un parco giochi digitale. Per lui scrivere sarà “il puro sollievo di non dover discutere di tutto quello che succede per sforzarsi di essere d’accordo sull’esistenza del mondo” e il lettore non avrà mai ciò che si aspetta - niente macchine narrative pronte per essere illustrate da Hollywood. Nessun personaggio con cui identificarsi o cui affezionarsi, storie di fantasmi, immagini sbiadite, niente che non sia già metaforico, nessun enigma con risposta esatta da decifrare. “Non ho mai capito davvero chi sono”.
Anche questa supposta autobiografia è un oltraggio al personaggio J. Harrison, a tratti irritante, inaffidabile, scorribile per temi, come la musica, che ne raggrumano sottotraccia gli eventi-frammenti con scarse garanzie di chiarezza. Dove le prime fantasticherie di fughe si accompagnano ai 78 giri di Lonnie Donegan, da suonare in assenza del padre e poi, avverate nella Londra, anni 60, calamita dei derelitti chic e del folk urbano, alle avventure chitarristiche delle serate al Les Cousins con Davy Graham. Bert Jansch o Roy Harper. E ancora, prima di scoprire il piacere delle arrampicate (la verticalità, altro filo conduttore di queste pagine) in cui smarrirsi, le attrazioni per i bassifondi (W. H. Davies, London, Orwell) i vagabondaggi nei parchi nazionali inglesi lungo fughe stancanti che gli facessero “smettere di scrivere storie fantasy in cui ci si prendeva a spadate in testa”, in cerca di uno sfinimento felice accompagnato da Roadrunner di Jonathan Richman.